L’ultimo
uomo.
di Antonella Cutro
(cfr. le interviste a Foucault)
1. In mancanza d’altro. Quasi trenta anni fa Foucault diagnosticava l’imminente morte dell’Uomo. Le interviste qui presentate – di poco successive alla pubblicazione di Le parole e le cose e comparse rispettivamente in Connaissance des hommes (1966) e La fiera letteraria (1967) – propongono una riflessione non sugli argomenti teorici ma su alcuni effetti collaterali della sua discussa affermazione. Una affermazione provocatoria, non un espediente retorico, che traduce una profonda convinzione: l’umanismo ha reso cattivi servigi1. In nome dell’uomo sono, infatti, state giustificate e sostenute politiche conservatrici e distruzioni di massa. Tuttavia il meno innocente degli effetti distruttivi va cercato al livello di ciò che sopravvive in una scomparsa. Il posto del Re, il posto del soggetto è palesemente vuoto, cioè ha perduto la sua funzione di referente e tuttavia si continua a fare uso di questo referente mancante. Uno degli effetti delle tesi del ’66 è quello di disarticolare il nesso tra antropologia e politica. Poiché l’antropologia da Platone ad Hobbes ha costituito sempre la base dell’idea di politica e di governo, la mancanza di un referente – il fatto cioè di non poter dire ‘in nome di chi’ – pone dei problemi di carattere pratico e teorico. Da qui la difficoltà ad individuare un criterio valido per le scelte politiche e i giudizi etici, ma da qui anche l’evidente ineffettualità di certe categorie e concetti politici. Dal momento che dall’idea di uomo è sempre derivato il valore della politica, cosa accade quando ci troviamo nel registro della sua scomparsa? In questo senso occorre mettere in evidenza che cosa ha significato l’antiumanismo di Foucault al livello della sua analisi politica. Prima di tutto, avere individuato le coordinate della morte dell’uomo ha determinato una ridefinizione degli obbiettivi dell’analisi politica. In secondo luogo, questa scelta metodologica si è tradotta in una pratica filosofica.
2. Una politica per l’uomo. Sollecitato a distinguere tra un cattivo umanismo e uno buono, Foucault risponde che non c’è un umanismo buono. Non si tratta di contrapporre alla vecchia idea dell’uomo una nuova idea, alla vecchia politica per l’uomo una politica per gli uomini nuovi. Si tratta piuttosto di uscire da un campo di significati strutturato. Lo smontaggio di questa struttura permette di decostruire le figure dell’umano. È, invece, attraverso «ciò che vi è di più umano nell’uomo, la sua storia»2, dunque la storia delle forme del pensiero e l’analisi delle condizioni della loro esistenza, che Foucault assume il compito decostruttivo. Se questa storia non è storia concettuale o delle idee, ma storia delle pratiche, le tesi di Le parole e le cose a quale campo di effettività fanno riferimento? L’esempio più calzante si può trarre da un ambito non filosofico, e precisamente in una serie di scritti di varia natura, comparsi in Francia negli anni ‘60, nei quali viene utilizzato il termine biopolitica3. L’elemento comune a questi testi è la richiesta di una politica ‘a misura’ d’uomo da contrapporre alla disumanizzazione conseguente all’affermazione di una economia capitalista mondiale. La richiesta di una politica per l’uomo, di una valorizzazione della vita umana, di un adeguamento delle strategie di governo alle natura umana è destinata a rimanere inevasa. Perché? È questa una delle questioni centrali, mossa e promossa dalle analisi del ‘66. L’archeologia delle scienze umane è un modo per rendere ragione anche del fatto che la politica e il governo non tengono conto degli uomini. Assumere l’evidenza che le scelte politiche e le ragioni politiche sono inumane, che «l’optimum di governo non è misurabile a partire dagli uomini»4 significa accettare che il criterio del miglior governo non pone come valore e come fine l’uomo. Anti\umanismo significa, dunque, fare i conti con l’evidenza che «non incontriamo mai gli uomini»5. Rendere ragione e assumere l’evidenza: dunque, stare alle condizioni dell’antiumanismo, rende necessario elaborare un tipo di analisi politica che non muova dall’antropologia o semplicemente che non sia antropocentrica, perciò che non si articoli su concetti ma su relazioni. Le implicazioni di questa scelta sono misurabili non solo sull’idea di potere ma ora anche su quella di governo, grazie alla pubblicazione dei corsi al Collège de France, del biennio ‘77-79.
3. Effetti finali. Nell’intervista con Caruso emerge un elemento chiave che riguarda il modo in cui si struttura una pratica di governo. Parlando della specie umana, Foucault sottolinea che la possibilità di controllare il proprio funzionamento fa scaturire l’idea che l’umanità abbia un fine. Ma in realtà si tratta di una finzione. Il fine non è che un effetto. Kant, nei paragrafi 65 e 66, della Critica del giudizio aveva mostrato come l’idea di una finalità interna agli esseri organizzati fosse una idea regolativa. La finalità interna è un concetto regolativo della ragione, che si rappresenta la natura come se ci fosse un intelletto che contenga il principio che dà unità al molteplice6. La finalità della natura è perciò un concetto a priori che permette di pensare al vivente nei termini di essere autorganizzato e come fine ultimo della natura. Foucault invece mette l’accento sulla finalità non in termini di pensabilità ma di effetti: «Ci diciamo: poiché abbiamo un fine, dobbiamo controllare il nostro funzionamento», ma in realtà «è la possibilità di controllo che fa nascere l’idea di fine»7. L’uomo non è un fine in sé e neppure un fine della natura. L’idea di fine è prodotta dalla possibilità di controllo, dunque non è un a priori ma un a posteriori. Non è una idea regolativa della ragione ma un effetto della regolazione prodotta delle tecniche di governo. Dire che il controllo del funzionamento produce l’idea di fine significa dire che la possibilità di controllare e governare le cose è il piano su cui si innestano le costruzioni ideologiche, filosofiche, metafisiche e religiose, ciascuna secondo la propria pretesa di verità, cioè secondo il ‘proprio’ fine. Del rapporto tra fine e possibilità del controllo, già Canguilhem aveva dato una interessante lettura. In un saggio del 1958 su Comte, aveva infatti messo in evidenza come nella politica positivista la possibilità di un governo degli uomini fosse strettamente legata all’idea dell’esistenza di un fine dell’umanità, ma che questo fine non era altro che un equivalente del ‘regno dei fini’ della metafisica8. In questo modo, voleva sottolineare che se il regno dei fini della metafisica rendeva possibile la legge morale, presupporre un fine della specie umana rendeva possibile l’idea della fondazione di una società positiva e perciò le regole di un governo degli uomini. A Canguilhem interessava mostrare gli effetti ideologici del discorso scientifico e smontare i presupposti pseudoteorici dell’organicismo sociale. La questione posta da Foucault si innesta su un altro piano di analisi.
4. Oggetti di governo Il rapporto tra fine e governo è un tema centrale nei corsi al Collège de France del 77-78 e 78-79, nei quali Foucault presenta una genealogia del governo degli uomini. Questa storia è spesso scambiata per la storia della categoria politica di governo, mentre è la storia di una pratica, cioè dei modi, non del modo, in cui gli uomini diventano oggetto di governo. Il governo, come lo intende Foucault, non è un apparato istituzionale, né un concetto politico, ma si può definire come un ‘rapporto all’oggetto’. Nel corso Il potere psichiatrico, si può trovare una chiara indicazione in proposito. Parlando del modo in cui la follia viene curata e sottoposta ad un regime medico, Foucault scrive: «l’operazione terapeutica stessa, questa trasformazione a partire da cui qualcuno che è considerato malato cessa di essere tale, può verificarsi solo all’interno di questa distribuzione regolata del sapere. La condizione del rapporto all’oggetto e dell’oggettività della conoscenza medica, e la condizione dell’operazione terapeutica è la medesima: l’ordine disciplinare»9. Dunque il modo in cui il sapere si rapporta all’oggetto, cioè lo individua e lo fa assurgere a statuto positivo è la condizione dell’operazione terapeutica, cioè del modo in cui questo stesso oggetto viene sottoposto a disciplina. Si può dire che si tratta di una costituzione doppia, l’oggetto emerge come oggetto positivo e insieme si costituisce una tecnica per governarlo. Il sapere sull’oggetto e il governo sull’oggetto vanno di pari passo. Dunque, come gli uomini diventano oggetto di un governo? Foucault mostra che gli uomini non sono governati in quanto uomini, ma in quanto credenti per il governo pastorale, in quanto sudditi per la ragione di stato, in quanto soggetti bioeconomici, e dunque cittadini, per il liberalismo. Quello che, tra l’altro, emerge attraverso la genealogia del governo è che i fini di governo sono prodotti della regolazione, cioè della possibilità del controllo. Il fine è un prodotto perché è sempre il fine conveniente ad un oggetto determinato. Perciò variando gli oggetti, cioè le condizioni della loro emergenza in un campo di sapere e quelle della loro governabilità, variano anche i fini. Consideriamo un punto particolarmente interessante della genealogia foucaultiana, cioè l’affermazione dell’economia come tecnica di governo, perché è questo il registro nel quale si muovono tanto le critiche alla disumanizzazione quanto le richieste di una politica più umana. Foucault mostra come la popolazione emerge all’incrocio di differenti saperi e che i modi in cui essa diviene visibile come oggetto diventano i criteri e le variabili della sua governabilità. Dunque se non incontriamo mai gli uomini è perché gli uomini, cioè ciò che si estende «dal radicamento biologico attraverso la specie fino alla superficie di presa offerta dal pubblico»10, non hanno essenza: sono un oggetto naturalizzato, un dato. ‘Non incontriamo gli uomini’ perché gli uomini non esistono. Esistono delle variabili di governo che investono la popolazione in quanto specie e pubblico. Perciò le richieste di una politica più umana sono destinate a rimanere inevase, in mancanza di un referente.
5. Il filosofo e l’ultimo uomo. Che cosa ha a che fare questa particolare storia del governo, definito come rapporto all’oggetto, con l’anti\umanismo? Si può dire che ne è un effetto. Se il potere pensato come reticolo di relazioni è l’alternativa al potere considerato nei termini di divieto\legge, invece il governo pensato come rapporto all’oggetto si contrappone all’idea di governo come istituzione e rappresentanza. Questa doppio gesto polemico – ‘antagonista’ rispetto ad una certa idea sia di potere sia di governo – è uno dei modi attraverso cui Foucault riprende il compito nietzschiano di valutare le cose in di termini realtà e non in termini morali. Nietzsche, facendo della verità un valore e uno strumento polemico ha privato le leggi morali del loro statuto di evidenza e ne ha fatto un effetto dell’affermazione di una ‘certa’ verità. In questo modo ne ha mostrato il campo di costituzione extramorale. Foucault, invece, restituendo alla verità il suo valore politico, cioè il suo essere uno strumento di governo, ha aperto un campo di possibilità all’analisi politica, extraconcettuale. Ma questa apertura non è indolore. Pensare al governo come rapporto all’oggetto è difficile. Una delle difficoltà consiste nel fatto che l’oggetto di cui si parla è doppiamente prodotto. È determinato da condizioni di verità, cioè da quelle condizioni che ne rendono possibile l’emergenza a statuto positivo. È, dunque, prodotto nel senso che è il punto di incrocio di diversi saperi. Ma questo piano di immanenza è il fattore determinante nella strutturazione della tecnica di governo che gli è ‘propria’. Le condizioni di ‘cattura’ dell’oggetto, i punti in cui le tecniche di governo lo afferrano, sono il secondo aspetto della produzione. Prodotti, infatti, sono anche gli effetti di verità, cioè le condizioni attraverso cui agiscono le tecniche di governo. La questione dell’oggetto è così determinante da far saltare completamente in secondo piano quella del soggetto, del ‘chi’ del governo. Le forme di governo sono state sempre definite da chi governa – monachia, oligarchia, democrazia – e lo stesso vale per quelle degenerative. È il ‘chi’ a dare forma e principi al governo. Perciò Foucault non parla mai della forma ma delle condizioni del governo: le condizioni nelle quali si struttura una pratica di governo in rapporto ad un oggetto, esso stesso prodotto in determinate condizioni di verità. In questo modo cambia completamente il piano di analisi, che non può essere costituito da concetti e categorie ma si concentra sulle condizioni, epistemologiche e perciò politiche. È proprio questo cambio di piano che deve essere ancora pensato insieme all’affermazione che ne consegue: ‘tutto è politica’. Dunque, per chi sono difficili da sopportare queste conseguenze? Forse proprio per il filosofo della politica che si trova spiazzato nella sua pretesa di verità o più semplicemente nella sua modalità di ‘concettualizzare’ la realtà. Non è un caso se Foucault richiama il filosofo continuamente sul problema della posizione. Questa assunzione di posizione è la vera difficoltà e perciò il peso più grande. Il peso più grande per Nietzsche è il pensiero dell’eterno ritorno, della mancanza di senso e perciò della leggerezza del divenire. Invece, il peso più grande a cui il metodo di analisi foucaultiano obbliga la filosofia è la rinuncia ad ogni pretesa profetica, pedagogica o legislativa11. Ed in questo modo obbliga anche il filosofo a rinunciare ad essere maestro di verità, dunque al suo ‘personale’ posto di Re. Al di là di questa pretesa e in questa forma di rinuncia – che altro non è che una ascesi – vi è la possibilità di assumere una posizione che non ambisce ad aprire «nuovi cammini al pensiero». C’è un modo di praticare la filosofia «che studia lo spazio nel quale si dispiega il pensiero, cioè le condizioni di questo pensiero, il suo modo di costituirsi»12. C’è, dunque, un modo di praticare la filosofia che non mira a dire la verità sul mondo, sul divenire o sull’essere, ma si interessa al vero, cioè a come le cose diventano vere e assumono lo statuto di evidenza, determinando in quanto evidenze i nostri modi di pensare e di agire. Il principio di realtà e la condizione di sopravvivenza del lavoro filosofico risiede nel suo essere un’ascia per spaccare il mare ghiacciato delle ‘evidenze’. Ma questo compito da assumere resta inseparabile da una ascesi, dunque da una riforma non della filosofia ma dello statuto, cioè della posizione, del filosofo. Che l’ultimo uomo rimasto sia proprio l’homo philosophicus?
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Note con ritorno al testo
1M. Foucault, Qui êtes-vous, professeur Foucault?, (Intervista con P. Caruso), La fiera letteraria, XLII, 39, 28 sept 1967, pp. 11-15; DE I, t. 50, pp. 601-619; ripreso in P. Caruso (a cura di), Conversazione con Foucault, in Id. Conversazioni con Claude Lèvi-strauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, Mursia, Milano, 1968, pp. 93-131; nella presente traduzione: Chi è lei, professor Foucault? (in: Kainos)
2M. Foucault, La psychologie de 1850 à 1950, in D. Huisman - A. Weber, Histoire de la philosophie européenne, t. 2, Tablau de la philosophie contemporaine, Paris, Librarie Fishbacher, 1957; DE I, t. 2, p. 137.
3Una parte di questi scritti si può trovare ora in traduzione italiana in A. Cutro, (a cura di), Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Ombre Corte, Verona, 2005, p. 52-66.
4M. Foucault, Chi è lei professor Foucault? (in: Kainos)
5ivi
6I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari, 1992, pp. 194-199.
7M. Foucault, Chi è lei professor Foucault? (in: Kainos)
8G. Canguilhem, La philosophie biologique d’Auguste Comte et son influence en France au XIXe siècle, (1958), in Id., Etudes d’histoire et de philosophie des sciences concernant la vie et les vivants, Paris, Vrin, 19832, p. 73.
9M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France.1973-74, Gallimard, Paris, 2003, p. 5, [corsivo mio]; trad. It. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France. 1973-74, Feltrinelli, Milano, p. 15.
10M. Foucault, Securité, territorie, population. Cours au Collège de France, Gallimard- Seuil, Paris, 2004, p. 77.
11M. Foucault, La philosophie analytique de la politique (1978); DE III, t. 232, pp.534-551; trad. it La filosofia analitica della politica, in Archivio Foucault III. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, a cura di A.Pandolfi, Feltrinelli, Milano, 1998 pp. 101-103
12M. Foucault, Qu’est-ce qu’un philosophe?, entretien avec M.-G. Foy, Connaissance des hommes, n. 22, automne 1966, p. 9; DE I, t. 42, pp. 552-553; trad. It. Che cos’è un filosofo? (in: Kainos)