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Il riciclaggio dei rifiuti nel teatro di Tadeusz Kantor

di Giuseppe Russo


Un turista che soggiorni anche solo per un breve periodo nella città di Cracovia ha la possibilità di fare un’esperienza etico-estetica particolare e a basso costo: visitare Auschwitz e il museo teatrale Cricot 2. Se l’intervallo tra le due visite è breve, ed il turista qui ipotizzato è dotato di una certa sensibilità visiva, avrà la strana sensazione di notare delle incomprensibili analogie, non tanto fra i due luoghi, quanto fra alcuni oggetti custoditi nell’uno e nell’altro. Il blocco numero 5 di Auschwitz contiene quasi tutti gli effetti personali degli Ebrei internati nel complesso del Lager e che gli Alleati raccolsero al momento della liberazione. Si tratta di una quantità di oggetti talmente elevata, che è stato necessario radunarli per gruppi e proteggerli dagli agenti atmosferici e da quelli turistici con appositi vetri. Il gruppo più imponente è forse quello delle valigie: un’autentica montagna di bagagli di ogni foggia (in pelle, in cuoio, etc.), con poche parole identificative del proprietario scritte su una striscia bianca applicata appositamente su un lato ed ancora oggi in massima parte leggibili, spesso recanti anche la destinazione alla quale non giunsero mai. Le serie più impressionanti sono però quelle delle scarpe, sistemate dai responsabili del museo di Auschwitz in ordine crescente di età: quelle dei bambini più piccoli davanti a tutte, addossate al vetro isolante ma comunque a pochi centimetri dal naso del visitatore, che a quel punto dovrebbe smettere di essere un turista per diventare un commemoratore del più grande orrore del XX secolo, e il silenzio dovrebbe prevalere sulla parola.

Nel centro storico di Cracovia, invece, sulla Kanonicza, a pochi passi dalla Facoltà di Architettura, si trova un museo infinitamente più piccolo: quello del teatro Cricot 2, che raccoglie molte testimonianze sceniche di Tadeusz Kantor. Vi sono numerosi disegni e costumi, ma ciò che maggiormente colpisce lo sguardo è la raccolta di oggetti scenici: vecchi tavoli, sedie deformi, armature di letti ridotte in pessime condizioni. Si tratta di suppellettili adoperate da Kantor nella sua carriera per le rappresentazioni al teatro Cricot 2, mentre gli oggetti utilizzati per gli happenings che inizialmente lo resero famoso in Europa occidentale non sono stati raccolti.

Esiste una sorta di minimo comune estetico fra questi due musei, altrimenti tanto diversi per natura e per senso: è la Seconda guerra mondiale, dalle cui rovine sono affiorati sia gli oggetti raccolti ad Auschwitz che quelli collezionati dai fedelissimi del grande regista polacco. Risalgono agli anni Trenta gli uni come gli altri, ovviamente, ma questa è da ritenersi una circostanza storica più che altro inevitabile: è solo la cornice del nostro discorso; al cuore vi sono le peculiarità che rendono tanto unici i due fenomeni.

Zygmunt Bauman ha definito la Shoah «come un raro, ma tuttavia significativo ed affidabile, test delle possibilità occulte insite nella società moderna»1. Se sostituiamo «teatro» a «società» e modifichiamo opportunamente le desinenze di genere, otteniamo una descrizione non meno efficace dell’esperienza scenica di Kantor e già ci avviciniamo al nostro problema. Per entrare nel merito, è però necessario ripercorrere rapidamente la parabola artistica di quest’uomo.

Tadeusz Kantor (1915-1990), nato in una piccola cittadina della Masuria, ebbe modo di frequentare appena ventenne (1934-1939) la più prestigiosa Accademia polacca di Belle Arti: quella di Cracovia, città alla quale rimase da allora legato in maniera pressoché definitiva. Le sue prime attività artistiche sono state infatti di natura pittorica, per poi volgersi alla creazione e realizzazione di scenografie per lavori teatrali per conto terzi, lavori che mettevano in scena testi classici (Misura per misura) o moderni (Il rinoceronte di Ionesco) ambientati in contesti scenici estremamente avanguardistici. In quegli anni, il disegno e la realizzazione delle scenografie risentivano del Costruttivismo alla Duchamp, delle suggestioni cromatiche Bauhaus e di altre soluzioni estetiche d’area franco-germanica, ma nell’aria c’era già l’odore della ricerca che Kantor avrebbe iniziato nel periodo più difficile e, per quanto ci riguarda, più importante: la Seconda guerra mondiale.

Durante l’occupazione nazista, non senza una notevole dose di coraggio, Kantor si inventò uno spazio scenico in una sorta di grande scantinato che si trova ancora oggi in un palazzo a quattro passi dall’ingresso rinascimentale dell’Università Jagellonica, lo chiamò “Teatro Indipendente” e vi realizzò un’opera che – non essendo stata pensata espressamente per la messa in scena ma piuttosto per la lettura – non era stata quasi mai affrontata prima. Si tratta della Balladyna (1834) di Juliusz SBowacki, il massimo poeta del Romanticismo polacco insieme al più noto Adam Mickiewicz. In questo dramma dalle tipiche tinte macabro-romantiche, una contadina (tipica figura maudit, che col suo nome folclorico dà anche il titolo all’opera) uccide la sorella per sposare il principe, il quale aveva imposto una gara campestre fra le due annunciando l’intenzione di congiungersi alla vincitrice. Consumato il sororicidio, la Morte inizia a perseguitare Balladyna con una serie di apparizioni macbethiane; ma, al termine di ulteriori vicende rocambolesche, l’agognata corona si poggerà proprio sulla testa dell’assassina e la giustizia subirà uno scacco matto. Un simile testo era spudoratamente carico di allusioni alla potenza occupante e ai suoi collaboratori, ma il suo successo – date le circostanze in cui venne rappresentato – ebbe qualcosa di miracoloso: mesi e mesi di repliche senza che le forze di invasione riuscissero a coglierne l’allegoria. Il palcoscenico era ridotto al minimo pensabile: una sorta di spazio vuoto in attesa di essere riempito di oggetti, per l’individuazione dei quali Kantor aveva ormai iniziato a guardarsi attorno, e forse inconsapevolmente aveva già deciso.

«Intorno ai 43-44 anni», racconta il regista in un’intervista alla televisione francese, «ho perso fiducia nella pittura e nella capacità di riprodurre gli oggetti. Allora ho iniziato a cercare oggetti reali»: suppellettili, utensili, complementi di arredamento che Kantor definisce «oggetti pronti», in quanto «immediatamente a disposizione dell’arte»2. Ma questi oggetti sono ritenuti degni di tale destinazione a condizione che siano «poveri», che non significa «di qualità mediocre» bensì «usati e non più utilizzabili»: scarti della quotidianità che in realtà il regista inizia a cercare tra i rifiuti ai margini delle strade di Cracovia subito dopo la liberazione del Paese, dunque molto tempo prima rispetto a quanto da lui ammesso davanti alle telecamere.

In effetti il fenomeno inizia a verificarsi già con Powrót Odysa [Il ritorno di Ulisse], di StanisBaw WyspiaDski, il massimo autore del teatro polacco di fine Ottocento, rappresentato da Kantor intorno al 1949. Qui la scenografia è costituita unicamente da un vecchio tavolo, un tappeto arrotolato ed una grande ruota di legno, di quelle che si usavano per le carrozze fin de siècle, poggiata verticalmente ad uno dei lati del tavolo, in posizione quasi frontale rispetto al pubblico. Quella ruota, ricorda con un certo orgoglio il regista, l’ha trovata lui personalmente tra le immondizie davanti ad un palazzo antico del centro cittadino, ed ha avvertito come un’urgenza assoluta il suo impiego sulla scena, il sottrarre quell’oggetto al suo destino socialmente fissato (la discarica) e l’imporgli una diversa e quasi irreversibile collocazione (l’arte). In un certo senso, il tentativo consiste nell’“eternare” qualcosa che per principio non dovrebbe avere più tempo dinanzi a sé: uno scarto.

A partire da allora, Kantor ha collezionato una gran quantità di oggetti di questo genere e li ha abbondantemente utilizzati nelle sue rappresentazioni al fianco di macchine da lui stesso disegnate ma realizzate anch’esse con materiali di risulta: vecchie assi di legno, ante di armadi gettate via, carriole arrugginite, perfino valigie sfondate. In molte circostanze, ha preso delle suppellettili così come le ha trovate e – analogamente a quanto fatto con la ruota di legno in Powrót Odysa, ossia senza la minima modifica – le ha portate sulla scena e ne ha fatto il baricentro estetico della rappresentazione (come le brande senza materassi che addirittura ostacolavano la visione degli spettatori in Crepino gli artisti, spettacolo allestito anche in Italia).

Come possiamo interpretare questo procedimento? In effetti c’è qualcosa di religioso, quasi di liturgico: un singolo oggetto viene “isolato” dalla famiglia cui appartiene per volontà sociale (quella dei rifiuti) e “spostato” idealmente in una diversa categoria, dove perde la caratteristica cruciale che deteneva fino ad un istante prima, ossia la sua inutilità. Isolamento e spostamento in un contesto di inviolabilità sono fasi tipiche della “creazione dello spazio sacro”, secondo la fenomenologia delle religioni. Come insegna uno dei massimi teorici della materia, «in realtà il luogo non è mai “scelto” dall’uomo, è soltanto “scoperto”; in altre parole, lo spazio sacro si rivela a lui (…) Ma, in ogni caso, il luogo è regolarmente indicato da qualche cosa di diverso»3, qualcosa che, appunto, lo isola rendendolo altro dall’insieme di appartenenza naturale. La scelta-scoperta dell’oggetto è individuale e pertanto pressoché insindacabile, ma è pur sempre necessario il riconoscimento da parte dell’élite sacerdotale. Ciò avviene con la messa in scena: il pubblico e gli attori (tra i quali non vi è quasi mai un limite di demarcazione nel teatro kantoriano) partecipano insieme al rito della consacrazione dell’«oggetto povero», che in quell’istante perde la connotazione negativa predicata nell’aggettivo e guadagna un attributo estetico dal quale non potrà più separarsi.

È più o meno ciò che avviene anche nel momento in cui si rimane ad osservare attoniti le scarpe dei bambini di Auschwitz, o le migliaia di occhiali dei loro genitori accumulati nella sala adiacente. L’ambiente che contiene gli effetti personali dei non-sopravvissuti al Lager è interpretabile esso stesso come uno spazio sacro della modernità4, ed il fatto che la quarta parete sia costituita da un vetro per permettere l’osservazione da parte del visitatore incrementa la quantità di analogie col teatro. Ma è soprattutto il comune orrore costituito dalla Seconda guerra mondiale a legittimare il parallelo, seppur drammatizzandolo. Quasi ossessionato, nel suo “teatro della morte”, dall’eredità inconsumabile di quel conflitto, Kantor non ha mai smesso nel suo teatro di interrogarne i caduti e i superstiti, alla disperata quanta vana ricerca di un senso. «Sono sempre più convinto», ha scritto il regista proprio in quegli anni, «che il concetto di vita non può essere reintrodotto nell’arte che attraverso l’assenza di vita nel senso convenzionale»5, e certo l’orizzonte dirompente della guerra totale è particolarmente adatto ad ospitare una simile ricerca, sia da un punto di vista logico che grafico.

Non può, dunque, e non deve meravigliare il reperimento di simili analogie, che anzi potrebbero essere spinte anche oltre. Così come non deve stupire un’ipotesi di comparazione fra le soluzioni estetiche adottate in uno spettacolo di Kantor come Dove sono le belle cose di un tempo? (1983) – molto musicale, ma soprattutto grondante di riferimenti alla vita militare realizzati con l’ausilio di macchine che si sostituiscono progressivamente agli uomini – e quelle ideate per i videoclips di The Wall (1980) dei Pink Floyd, poi coagulate nel lungometraggio di Alan Parker (1982). Roger Waters, allora cervello del celebre gruppo rock, ha visto il padre partire per il fronte all’inizio della guerra e non lo ha mai visto tornare; esattamente ciò che è accaduto a Tadeusz Kantor, il cui genitore insegnava alla scuola elementare della natìa Wielopole, dove non ha mai fatto ritorno.

Corpi che non tornano a casa, scarti della guerra per eccellenza del XX secolo, resti ingombranti che nessuno riesce a reperire e che pochi si ostinano a reclamare, rifiuti umani cui non è più possibile dare o rendere un nome: è quasi l’immagine speculare di ciò che accade ne La classe morta (1976), opera comunemente considerata il massimo capolavoro di Kantor. In questa pluripremiata pièce una decina di morti si radunano nell’aula della scuola che frequentavano da ragazzi, ciascuno recando sulle spalle il proprio doppio reso oggetto nella forma di un manichino le cui fattezze ricordano quelle del portatore, ed ognuno racconta la propria vita ormai esaurita. Ogni narrazione procede in maniera frammentaria ma libera: una libertà vietata ai vivi e scaturita proprio dall’esser ritornato oggetto, poiché un corpo senza vita è per la società uno scarto.

Rifiuti sono questi fantocci senza nome, questi ex individui ormai reificati. Ma rifiuti sono anche quei reperti con nomi e indirizzi inutilmente trascritti pur di conferire un’identità a chi – in quanto organismo destinato alla morte fin dal momento della discesa dal treno – un’identità non poteva averla più, sostituita da un numero a sette cifre impresso su un braccio mortificato e ridotto a “cosa”: un braccio che è un arto velenoso sviluppato dalla modernità e che ancora si agita dal fondo della pattumiera in cui la postmodernità tenta con tutte le forze di costringerlo, pur di sbarazzarsene.



1 Z. Bauman, Modernità ed Olocausto, ediz. ital. a cura di Massimo Baldini, Bologna, Il Mulino 20002, pag. 30.

2 Questi stralci sono tratti dal documentario-intervista Le theatre de Tadeusz Kantor, a cura di Denis Bablet, La Sept, 1988.

3 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. ital. di Virginia Vacca, Torino, Boringhieri 1984, pag. 380. ma cfr. anche G. Van der Leeuw, Fenomenologia della Religione, Torino, Boringhieri 1975 e R. Otto, Il sacro, a cura di Ernesto Buonaiuti, Milano, Feltrinelli 1984.

4 Ovviamente, nell’accezione fenomenologico-religiosa cui si fa riferimento in questa sede, ossia in quanto luogo nel quale è avvenuto qualcosa che rende quello spazio “diverso” (verschillend, nel lessico di Van der Leeuw) dallo spazio circostante, diversità che in genere viene marcata dalla presenza di un perimetro isolante come è (anche) quello del recinto di un Lager. Non voglio ammiccare neppure per un istante alle teorie giustificazioniste della sedicente “teologia di Auschwitz”, né ad altre speculazioni filosofico-religiose sul tema: scrivo all’interno di una posizione squisitamente fenomenologica.

5 T. Kantor, Il teatro della morte, antologia di testi a cura di Luigi Marinelli, Milano, Ubulibri, 2000, pag. 214.


 



 

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