Le rovine di Benjamin
di Bruno Moroncini
Così immediate le rovine
Da assomigliare alla certezza dell'amore.
Vladimir Holan
I)
Per
il lettore esperto di filosofia e profondo conoscitore della produzione
benjaminiana il significato del titolo che ho scelto per questo contributo
sul tema più generale delle rovine risulta semplice e immediato:
‘Le rovine di Benjamin’ indica e compendia il ruolo e la
presenza del concetto di rovina all’interno della riflessione
benjaminiana, la sua appartenenza ad una costellazione ideale di cui
fanno parte i concetti affini di reliquia, ricordo, torso, frammento,
scarto e rifiuto. Risponde alla domanda: che cosa ha pensato Benjamin
pensando la rovina(1 ?
Per
il lettore ingenuo, invece, anche se non per questo meno acuto, un sintagma
come ‘Le rovine di Benjamin’ potrebbe risuonare alla stessa
stregua di un’espressione come ‘Le rovine di Pompei’,
oppure di una frase in cui si constati che quest’anno, a primavera,
ho fatto un viaggio in Grecia per andare a vedere le rovine dell’Acropoli
di Atene. In questo caso ‘Le rovine di Benjamin’ vorrebbe
dire: di Benjamin, della sua vita, nonché della sua opera,
restano rovine e riflettere su Benjamin, interpretarlo o più
semplicemente ricostruirne i tragitti esistenziali e/o le elaborazioni
concettuali, significa aggirarsi in mezzo ad un agglomerato di rovine.
Non
so se abbia forza di legge, ma sono egualmente convinto della verità
iscritta nella tesi secondo la quale per poter pensare la rovina, per
poter elevare questo concetto empirico al rango di una categoria, sia
necessario esporre se stessi ad un divenir-rovina, sottomettersi ad
un processo rovinoso, esperire infine su se stessi gli effetti malinconici
derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede
la consistenza di ciò che resta di una dissoluzione(2.
Questa tesi verrebbe confermata d’altronde dalla profonda revisione
che negli anni venti - gli stessi della formazione e della prima produzione
di Benjamin – viene condotta della dottrina delle categorie soprattutto
da Heidegger nel seminario sulle interpretazioni fenomenologiche di
Aristotele. Se, come dice Heidegger, le categorie il cui scopo è
quello di esprimere e interpretare la vita non sono né «una
distorsione dello spirito» o «una fantasticheria della vita
e del pensiero elevata a principio» e neppure «dei semplici
dati accidentali banalmente constatabili», ma «sono in vita
nella propria vita concreta», «in vita nella fatticità»(3,
se cioè le categorie prima di darsi nel e attraverso il pensiero,
si danno nella e attraverso la vita, da cui solo in un secondo momento
e a forza di riflessione vengono estratte ed isolate, allora anche la
rovina – che non lo si dimentichi è una delle categorie
individuate anche da Heidegger(4
- prima di essere un costrutto del pensiero è una forma-di-vita,
una forma certo a rischio costante dell’informe, ma pur sempre
una forma, ossia un modo originale, in carne ed ossa si potrebbe dire,
con cui la vita concreta, la vita nella sua fatticità, si articola
e diviene.
II)
Di
quest’intuizione, presente già nel mio primo libro su Benjamin,
per la quale anche il testo di Benjamin è rovina, «fa parte
di quell’ammasso di macerie che nelle Tesi l’Angelo
trascina via con sé, mentre una tempesta lo travolge suo malgrado»(5,
ho trovato una conferma in un libro recente di Jean-Claude Milner dal
titolo inquietante e scandaloso, Les penchants criminels de l’Europe
démocratique. Non ricostruirò qui tutte le argomentazioni
di questo libro duro e sgradevole per una certa ideologia europeista
che contrappone il vecchio continente democratico, pacifista e solidarista
al nuovo dispotico-imperiale, bellicista e individualista. Per dirla
in breve, l’inclinazione criminale dell’Europa democratica
consisterebbe nella sua mai superata voglia di sterminio nei confronti
degli ebrei: il problema rappresentato dall’esistenza del nome
ebraico (il nome ‘ebreo’ e il nome di ‘ebreo’)
non sarebbe stato risolto dall’ecatombe dei campi di concentramento,
la ‘soluzione finale’ si sarebbe, ‘purtroppo’,
rivelata solo transitoria. Per l’Europa uscita dalla rivoluzione
francese e avviata da allora sul cammino del liberalismo e della democrazia,
la presenza, dentro i suoi confini, al di fuori sui suoi bordi interni/esterni,
e anche lontano nel mondo, degli ebrei, è un problema che deve
essere risolto ad ogni costo, anche delegandolo, se ciò fosse
necessario, a qualcun’altro, oggi per esempio agli arabi. Ma perché
per l’Europa il nome ebraico è qualcosa di talmente irricevibile
al punto da costituire, più che una domanda alla quale è
sufficiente trovare una risposta – come, secondo Milner, in Sartre
per il quale tutta la questione si risolve rispondendo al quesito: ‘come
è possibile un antisemita?’ –, un problema o, come
si direbbe oggi, un’emergenza, come l’aumento dei reati
contro il patrimonio o un’influenza particolarmente virulenta
o ancora una proliferazione d’insetti nocivi, i quali, una volta
che siano stati individuati, non possono che richiedere urgentemente
una soluzione, pena la messa a rischio del benessere di tutti? Proprio
per il fatto che l’Europa, da Aristotele in poi, pensa se stessa,
gli stati che di volta in volta la compongono, i popoli che la formano
e le società, i gruppi e le classi che ne costituiscono l’articolazione,
come delle totalità chiuse e compatte, come appunto dei ‘tutti’
che non ammettono disseminazione e illimitatezza.
Detto
in altro modo, l’Europa conta se stessa, a qualunque livello di
complessità sociale e politica – società civili,
stati-nazione, Unione europea – avvenga la valutazione, sempre
come un’unità, come un tutto ordinato e gerarchizzato e
attribuisce di conseguenza alla sfera della politica il compito di porre
un limite a quello che le appare come il più grave attentato
alla consistenza dei popoli e delle società, appunto la disseminazione,
l’impossibilità di riunire in un insieme tutti gli elementi
fluttuanti, contraddittori e dispersi che ne fanno parte. Forte della
teoria degli insiemi di Georg Cantor che postula, accanto agli insiemi
consistenti che si contano per uno, quelli inconsistenti che sono illimitati
e della teoria lacaniana del pastout, del non tutto, che sulla
scia di Cantor serve a Lacan per determinare logicamente l’insieme
delle donne, Milner dimostra che gli ebrei sono da sempre un pastout,
una realtà disseminata, che nemmeno all’apice dell’assimilazione
è potuta diventare una ‘parte’ di un tutto ordinato
e limitato. Il nome ‘ebreo’ rappresenta dunque nella e per
la storia europea-occidentale uno scandalo insopprimibile e per ciò
stesso un problema da risolvere: l’esistenza dell’ebreo
è un attentato continuo all’identità europea. Per
questo va estirpata.
Paradossalmente
il ‘problema’ ebraico si è acuito proprio con la
diffusione della forma di governo democratica per il fatto che quest’ultima
è l’opzione politica che più di ogni altra corrisponde
a delle società – civili si sarebbe detto una volta –
che, essendosi emancipate dalle relazioni di potere tradizionali, avendo
dissolto i corpi intermedi e distrutta ogni gerarchia sociale, politica
e culturale, essendo divenute insomma an-archiche, ossia prive di archè,
di un’origine temporale e di un principio d’ordine, sono
di fatto degli insiemi inconsistenti, delle realtà illimitate(6.
Da qui, secondo Milner, due declinazioni della democrazia: quella europea
che tenta di dividere e di scindere società e politica facendo
in modo che la seconda ponga limiti alla prima, e quella americana che,
al contrario, tende a dissolvere la politica nella società. Da
qui anche due posizioni differenti rispetto al nome ebraico, che per
l’Europa, nonostante la, o a causa della, gigantesca denegazione
susseguente allo sterminio, resta un problema da risolvere(7,
mentre per gli Stati Uniti, come d’altronde per il mondo arabo
per il quale l’antisemitismo è una merce d’importazione,
ovviamente europea, è soltanto uno degli elementi della politica
mondiale. Se ne deduce allora che fin quando l’Europa vedrà
con preoccupazione, se non con vera e propria angoscia, l’avanzare
dell’illimitato e tenterà di contrastarlo con una politica
dei limiti spacciata per democrazia, le sue tendenze criminali non solo
non subiranno alcun arretramento, ma anzi s'intensificheranno fino all’esplosione.
è in questo contesto che
compare nell’argomentazione di Milner il riferimento alle Tesi
sul concetto di storia e in particolare alla IX, quella appunto
segnata dall’immagine dell’Angelo della storia davanti al
quale si accumula un immenso ammasso di macerie (Trümmer).
Chi è l’Angelo e che cosa sono queste macerie presso le
quali egli vorrebbe trattenersi per «destare i morti e riconnettere
i frantumi»(8?
Nell’Angelo, scrive Milner, «che contempla volto all’indietro
un ammasso di rovine», «si riconosce Benjamin rivolto verso
le rovine metonimiche di un solo oggetto, innominato: la persistenza
del nome ebraico, con lo studio per supporto»(9.
Per comprendere questo difficile enunciato, proviamo a partire dalla
fine: dal momento in cui uno stato ebraico cessò di esistere
definitivamente, si pose il problema del modo con cui un’identità
ebraica avrebbe potuto sopravvivere in una situazione caratterizzata,
non solo dalla perdita di un potere politico autonomo, ma anche dalla
dispersione territoriale, cioè dalla diaspora. La risposta che
risultò vincente fu quella farisaica consistente nella sostituzione,
nella metonimia appunto, dell’identità politica con quella
religioso-culturale, della sovranità politica con lo studio della
Torah. Il nome ebraico sarebbe sopravvissuto nascosto sotto lo
studio. Successivamente quando comincia il processo dell’emancipazione
che culmina nell’assimilazionismo allo studio farisaico della
Legge si sostituisce quello della cultura europea: il nome ebraico si
confonde con la tradizione umanistica e l’emancipazione politica
dell’ebreo fa tutt’uno, stando al Marx della Questione
ebraica, con l’emancipazione dell’uomo dal dominio borghese
del denaro. Alla fine sembra che l’ebreo non esista più:
si è dissolto nell’umanità generica che nel momento
in cui ne è la tomba ne è anche la resurrezione. Il vero
ebreo è il non più ebreo(10.
Da
questo punto di vista, Benjamin sembra, almeno in parte, un perfetto
esempio di questo processo di rimozione, operato attraverso spostamento,
del proprio nome ebraico: politica rivoluzionaria e letteratura, impegno
e studio, Brecht e Scholem, Marx e Baudelaire, Unione Sovietica e Francia,
sono i termini di una sintesi che Benjamin ha incessantemente tentato
di raggiungere nel corso della sua vita e del suo lavoro intellettuale,
dovendone constatare a più riprese lo scacco fino al crollo rovinoso
testimoniato dalle Tesi. Contro una tesi storiografica ampiamente
accreditata che vede in Benjamin un conflitto non risolto fra teologia
(Scholem) e politica (Brecht), la posizione di Milner situa più
correttamente il dissidio fra le soluzioni immaginarie offerte dalla
politica e dallo studio filosofico-letterario e il reale di un nome:
il nome ebraico di Walter Benjamin(11.
La cui persistenza metonimica finisce per imporsi mandando in rovina
tutti i tentativi di occultarlo, farlo dimenticare, o definitivamente
estirparlo, che gli stessi ebrei, colti anche loro alle volte dalla
sindrome dell’antisemitismo(12,
hanno potuto mettere in atto lungo il corso della loro storia. In questo
senso il nome ebraico è una rovina per colui che lo porta, manda
in rovina le formazioni di compromesso, le metafore e le metonimie,
con cui si cerca di coniugare reale e immaginario, e infine è
esso stesso una rovina, un rifiuto della storia.
A
trasformare definitivamente in rovine quelle costruzioni che agli occhi
dell’ebreo berlinese nato intorno al 1900 erano sembrate delle
nicchie perfette per proteggersi dal destino iscritto nel suo nome sono
due eventi di cui le Tesi rappresentano la registrazione e il
tentativo di risposta: il patto di non aggressione stipulato fra Stalin
e von Ribbentropp che sancisce il completo abbandono delle residue speranze
che un intellettuale comunista poteva riporre ancora alla fine degli
anni trenta nella Russia come patria dei soviet, la cui involuzione
era stata tuttavia denunciata da Benjamin già nel 1925 nel Diario
moscovita; e subito dopo, la sconfitta della Francia e la costituzione
del governo collaborazionista di Vichy che trasformano la patria di
Baudelaire e Proust, di Valery e dei surrealisti – il lato dello
studio - in un’appendice della Germania nazista, costringendo
il già esule Benjamin ad una nuova fuga bruscamente interrotta
su di un valico dei Pirenei dalla morte per suicidio. Quel che accadde
a Benjamin è ciò che colpì tutti gli ebrei europei,
nessuno escluso, dal 1933 in poi fino alla caduta del regime e alla
liberazione dai campi di concentramento dei pochi sopravvissuti: l’essere
apostrofato come ‘ebreo’, chiamato per e col nome, col suo
nome ebraico, indipendentemente da tutte le differenze, fossero esse
di ceto, di classe, di cultura, di sesso e professionali, che potevano
distinguere lui come ogni altro ebreo da tutti gli altri, ebrei e non
ebrei. Di più: di essere richiamato violentemente al suo essere
niente altro che un ebreo, solo un ebreo, niente di più che un
ebreo, anche e soprattutto quando egli si fosse del tutto dimenticato
di essere un ebreo, non andasse più al tempio, non santificasse
il sabato, e non solo si ritenesse in perfetta buona fede un tedesco,
un polacco, un francese e un italiano, ma anche professasse l’ateismo
o fosse divenuto semplicemente indifferente.
A
nulla è valso essere divenuti un professore universitario, un
medico importante, un banchiere di successo: si è solamente ebrei.
A nulla vale aver cambiato religione o non averne alcuna: si è
sempre e solo ebrei. Vale solo il nome, il nome ebraico(13.
Ma se vale solo il nome, ossia la brutale datità di nome e patronimico,
di nome e Nome-del-padre, ciò vuol dire che, facendo tutt’uno
con l’avere un nome ebraico, l’essere ebreo è solo
una faccenda generazionale, coincide con l’iscrizione in una catena
genealogica, con ciò che con Lacan (e con Levi-Strauss) chiameremo
le strutture elementari della parentela e che Milner chiama invece,
con un richiamo heideggeriano, la ‘quadruplicità’,
la quadratura cioè formata dalle coppie maschile/femminile e
genitori/figli. Un ebreo si definisce solamente per il fatto che discende
da genitori ebrei ed è l’effetto della differenza sessuale.
La persistenza del suo nome «non dice nient’altro, scrive
Milner, che la quadruplicità stessa»(14.
Da
ciò l’odio antiebraico che la persistenza del nome rinfocola
e riproduce incessantemente. Giacché nulla è più
specifico dell’identità europea, formata da secoli di onto-teo-logia
greca, di cristianesimo, di liberalismo e socialismo(15,
vale a dire di idealismo, del tentativo, la cui origine affonda d’altronde
in una domanda immemoriale, antica quanto la stessa «umanità
parlante», di «disgiungere la perpetuazione della specie
umana e il contatto sessuale; affrancarla dalla costrizione dell’Altro
sesso per farne un puro passaggio dallo Stesso allo Stesso; togliere
ogni senso alla possibilità che il bambino possa nominare i propri
genitori; fare in modo che il padre non possa nominare fra le donne
quella che porta il bambino che egli ha generato; fare in modo che la
madre non possa nominare tra gli uomini quello di cui ella porta il
bambino, fare in modo che i nomi di padre e di madre perdano ogni senso
diverso da quello contrattuale, se non convenzionale»(16.
L’aspetto delirante della sindrome idealistica sta nella pretesa
di sostituire integralmente la provenienza bassa e materiale della specie
umana, quella che passa per il reale della differenza sessuale e per
il simbolico della catena delle generazioni, con l’origine alta
e spirituale, del tutto depurata dalle scorie dell’alterità
e della differenza. Il fatto che questa origine una e identica a sé
possa a sua volta definirsi come una forma di paternità ideale
e/o divina non smentisce ma semmai conferma il collasso che essa fa
subire alla funzione logico-esistenziale del Nome-del-padre. Giacché,
come hanno mostrato la psicoanalisi e Lacan, la paternità cosiddetta
‘ideale’ è piuttosto quella costruita dal registro
immaginario per il quale l’edificazione di un dio amorevole e
provvidenziale cui si deve la creazione di tutto quel che esiste secondo
un disegno, non solo intelligente, ma soprattutto volto al bene, è
la premessa per la querimonia risentita, anticipo del vero e proprio
odio, con cui lo rimproveriamo di averci fatto male, di averci privato
di quella perfezione cui come suoi figli, fatti a immagine e somiglianza
sua, non potevamo non aver diritto(17.
Ben
diverso il ruolo della paternità simbolica, del Nome-del-padre
o, secondo la dizione del tardo Lacan, dei Nomi-del-padre(18.
Qualunque cosa si dica o si faccia in ‘Nome-del-padre’,
questa stessa formulazione contiene in modo implicito le tesi che 1)
il padre che s’invoca non lo si è, non lo si è mai
stato e neppure lo si sarà mai; 2) che in realtà egli
non è mai stato o, per dirla in altro modo, che è già
da sempre morto; 3) che un padre già da sempre morto non può
essere quell’uno o quel principio da cui tutto deriva e cui ogni
cosa viene ricondotta. In base all’argomentazione precedente sugli
insiemi inconsistenti, il Nome-del-padre è il significante del
pastout, dell’insieme cioè i cui elementi possono
solo essere contati uno per uno, come le donne, e mai per uno. ‘Di
generazione in generazione’ si srotola la storia degli ebrei,
di padre in figlio, per via di differenza sessuale: la persistenza del
nome ebraico non ha altra base materiale che la ‘quadruplicità’.
Basta d’altra parte aprire l’Antico testamento a
caso e leggere ad esempio una parte della genealogia di Adamo:
«E
Chenan visse settan’anni e generò Maalaleel, e dopo aver
generato Maalaleel, Chenan visse ancora ottecentotrent’anni e
generò figli e figlie. Così, tutto il tempo in cui visse
Chenan fu di novecentodieci anni, poi morì. E Maalaleel visse
sessantacinque anni e generò Iared, e dopo aver generato Iared
visse ancora ottocentotrent’anni e generò figli e figlie.
Così tutto il tempo in cui visse Malaaleel fu di ottocentonovantacinque,
poi morì. E Iared visse centossentadue anni e generò Enoc
e dopo aver generato Enoc visse ancora ottocento anni e generò
figli e figlie»(Genesi 5-6).
Che
si voglia andare in su verso l’origine o ci si proietti a capofitto
verso l’avvenire, le generazioni si possono solo enumerare una
per una e una dopo l’altra e ogni generazione si autorizza a perpetuare
il proprio nome, ossia a generare a propria volta, solo in nome del
padre precedente, e così è ogni volta, qualunque sia il
segmento, in avanti o all’indietro, che si sceglie lungo la catena.
Se tutto questo è vero, che cosa può impedire allora che
questa concatenazione in linea di diritto illimitata che lega gli avi
ai pronipoti, che questa storia senza origine né fine dell’‘umanità
parlante’, non appaia, una volta cadute tutte le illusioni, nient’altro
che come «un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente
macerie su macerie»(19?
III)
Nel
saggio del 1936 intitolato allo scrittore russo Nikolaj Leskov e dedicato
alla crisi dell’arte della narrazione databile a partire dall’esperienza
inenarrabile della prima guerra mondiale, Benjamin cita un passo di
un racconto di Johann Peter Hebel, Insperato incontro, per far
vedere non solo come la morte, del tutto espulsa dallo spazio percettivo
dei moderni, sia la fonte da cui il narratore trae la propria autorità,
ma anche come essa, con il suo periodico ripresentarsi nella vita degli
uomini, il suo scandire l’ordine delle generazioni, faccia da
«storia naturale», ossia da sfondo strutturale, su cui situare
le singole storie che capitano agli uomini. Un giovane apprendista che
lavora nelle miniere di Falun – così inizia il racconto
di Hebel – si fidanza. Alla vigilia delle nozze è vittima
del crollo della miniera. La fidanzata gli resta fedele oltre la morte
e vive abbastanza per riconoscere un giorno, già vecchissima,
nel cadavere che viene riportato alla luce dalla galleria abbandonata,
e che, saturo di vetriolo, è rimasto intatto dalla disgregazione,
il corpo del fidanzato. Dopo il ritrovamento muore anch’essa.
A questo punto Hebel deve rendere palese la lunga serie degli anni trascorsi
e lo fa con queste frasi:
«Nel
frattempo la città di Lisbona fu distrutta da un terremoto, e
passò la guerra dei Sette Anni, e mori l'imperatore Francesco
I; fu soppresso l'ordine dei Gesuiti, e fu divisa la Polonia, e mori
l'imperatrice Maria Teresa, e fu giustiziato Struensee. L'America si
liberò, e la forza unita dei francesi e degli spagnoli non poté
occupare Gibilterra. I Turchi circondarono il generale Stein nella fossa
dei veterani in Ungheria, e mori anche l'imperatore Giuseppe. Il re
Gustavo di Svezia conquistò la Finlandia russa, e cominciò
la Rivoluzione francese e la lunga guerra, e anche l'imperatore Leopoldo
II scese nella tomba. Napoleone conquistò la Prussia, e gli inglesi
bombardarono Copenaghen, e i contadini seminarono e mieterono. Il mugnaio
macinò, i fabbri martellarono, e i minatori scavarono in cerca
di vene metallifere nella loro officina sotterranea. Ma quando i minatori
a Falun nell'anno 1809…»(20.
è impressionante
la somiglianza ai limiti del plagio fra questa sequenza ‘storica’
e quella ‘mitica’ e ‘favolosa’ delle genealogie
di Adamo: come la morte degli imperatori scandisce il corso degli eventi
storici, rende discreto il continuum temporale e permette di
‘contare’ e quindi di ‘raccontare’ i fatti,
così quella dei patriarchi ritma il passare delle generazioni.
Lo ‘storico di professione’, lo storico forgiato dalla disciplina
della storiografia come scienza, attribuirà, non senza ragione,
questo accostamento alla confusione imperdonabile fra cronaca e ‘storia’.
Ma il punto è proprio lì: infatti, come scrive Benjamin,
«il cronista è il narratore della storia»(21.
In altri termini, mentre la cronaca è una delle forme del genere
epico, ossia dell’arte della narrazione, la storiografia rappresenta
«il punto d’indifferenza creativa di tutte le forme dell’epica.
In questo caso la storia scritta starebbe alle forme epiche come la
luce bianca ai colori dell’iride»(22.
La storiografia spiega, la cronaca racconta: allo storico spetta il
compito di «spiegare, in un modo o nell’altro, gli eventi
di cui si occupa», interpretare «il modo in cui s’inseriscono
nel grande e imperscrutabile corso del mondo», al cronista quello
di occuparsi della loro «esatta concatenazione» limitandosi
a «presentarli come esempi del corso del mondo»(23.
C’è una differenza sostanziale fra lo ‘spiegare’
come gli eventi s'iscrivano nel corso del mondo e il narrare un evento
perché valga come esempio di come va il corso del mondo, cioè
di quale sia il suo schema costitutivo, la sua struttura di fondo. Da
questo punto di vista non ha alcuna importanza che l’idea complessiva
che si ha della storia umana sia di tipo provvidenziale come nel caso
della cultura medievale o profano come nella modernità: il cronista
medievale continuerà a raccontare gli eventi come esempi del
piano divino e il narratore moderno, almeno fino alla prima guerra mondiale,
di un piano immanente e mondano. Per essere più chiari: proprio
perché ponevano «alla base della loro narrazione storica
il piano imperscrutabile della salvezza», i cronisti medievali
erano «liberati in anticipo dell’onere di una spiegazione»(24.
Nella caratterizzazione
dello storico come di colui che spiega, si vede delinearsi la critica
che nelle Tesi Benjamin farà dell’Historismus,
ossia dell’ideologia, intesa nel senso tutto marxiano di falsa
coscienza, della scienza storica, la quale infatti potrebbe, e secondo
Benjamin deve, essere presa in carico dal materialismo. L’errore
dello storicismo, che replica d’altronde la realtà fantasmagorica,
vale a dire feticistica, della società moderna, sta infatti nel
porre come scopo della storiografia la spiegazione del singolo fatto
storico così ‘come esso è autenticamente stato’,
senza curarsi del carattere complessivo del corso del mondo, un interesse
giudicato sorpassato e proprio di vecchie e decadute filosofie della
storia. Tale è anzi il disinteresse dello storicismo per il ‘corso
del mondo’ che esso viene ridotto a mero continuum temporale,
ad una forma del tempo omogenea e vuota fatta di istanti tutti uguali
fra di loro, in cui, accanto alla comprensione del disegno complessivo
secondo il quale si srotolano gli eventi, scompare anche ogni possibilità
di invertirne la direzione e il senso, sospendendone il decorso e scardinandone
le sequenze.
Va chiarito,
infatti, che di fronte ai fenomeni propri della modernità quali
la decadenza della narrazione, come anche dello studio o ancora dell’aura
nel campo delle arti figurative, l’atteggiamento di Benjamin non
è mai di rassegnazione o di nostalgia, tanto meno di risentimento
o di accidia. Quello che occorre è trovare i sostituti che, nelle
mutate condizioni storiche, di fronte ad una nuova configurazione del
corso del mondo, svolgano le funzioni dei loro corrispondenti antichi:
al posto della tragedia subentra il Trauerspiel, a quello del
poema epico il romanzo moderno, la Recherche a esempio, alle
odi di Pindaro le liriche di Baudelaire, all’unicità dell’opera
d’arte la riproducibilità tecnica della fotografia e del
cinematografo. Lo stesso deve accadere nel campo della conoscenza storica:
la risposta alla perdita della memoria del passato non va cercata in
quell’eccesso di sapere storico che è lo storicismo, ma
nel carattere discontinuo, intermittente, a salti, del materialismo
storico. Non si tratta di opporre alla catastrofe del mondo la fede
nel progresso, al pessimismo l’ottimismo, al conflitto l’intesa.
Giacché in fin dei conti che il corso del mondo sia quello adombrato
dal mito arcaico di cui la tragedia rappresenta il deragliamento consapevole
o dalla catena delle generazioni riscattata dall’alleanza colla
divinità o dalla cronaca del monotono alternarsi di re e imperatori
cui dà senso l’arte del racconto, o infine dalla storia
universale cui risponde il materialismo storico, in ogni caso esso,
una volta che sia guardato senza i veli immaginari, rivela il suo tratto
catastrofico, il suo ridursi ad un ammasso di macerie. Il problema insomma
non è negare ad ogni costo la realtà della rovina, far
finta di non vederla, illudersi che non esista o non abbia effetti,
ma stabilire quale uso farne, come trattarla, in che contesto inserirla,
secondo quale direzione trasformarla.
Tutta, o quasi,
la produzione benjaminiana degli anni trenta, compreso qualche sconfinamento
anche in quelli immediatamente precedenti, si pone, se così si
può dire, sotto l’insegna del primato della politica, primato
della politica che, come si sa, fa tutt’uno con l’adesione
al materialismo storico. Ciò non farebbe che confermare la tesi
di Milner che attribuisce all’eccesso di fiducia nelle virtù
della politica rivoluzionaria, oltre che in quelle dello studio, l’esito
rovinoso della vita e dell’opera di Benjamin attestato dalle Tesi.
Tuttavia, a guardar meglio, l’idea della politica che Benjamin
elabora già a partire dal saggio sul surrealismo, e poi in quello
sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, passando per L’autore come produttore e Eduard
Fuchs, il collezionista e lo storico, e per molti altri ancora,
fino a giungere alle stesse Tesi, non ha niente delle illusioni
ideologiche che caratterizzano la socialdemocrazia da un lato e lo stalinismo
dall’altro. Allora lo scoramento spinto fino alla scelta del suicidio,
scelta estrema fatta, non lo si dimentichi, per sfuggire all’aguzzino,
non dipende tanto dalla politica in sé quanto dalla difficoltà
di far diventare egemone nel movimento operaio una posizione inizialmente
minoritaria senza d’altronde arretrare di un passo rispetto all’ideologia
che di per sé raccoglie sempre il plauso delle maggioranze ed
esiste, infatti, esclusivamente a questo scopo: quello che era accaduto
alla frazione bolscevica del movimento rivoluzionario russo era diventato
difficile se non impossibile solo vent’anni dopo. Se a questo
si aggiunge la sorpresa per un evento che per essere previsto avrebbe
richiesto il possesso almeno dell’onniscienza divina e non è
detto che sarebbe stata sufficiente, e cioè che il paese uscito
dalla prima rivoluzione comunista vincente della storia umana si sarebbe
alleato con il peggior nemico dell’umanità, il quadro risulterà
completo.
Nella
prospettiva appena delineata, il saggio sul surrealismo è addirittura
lapidario: la politica comunista consiste nell’ «organizzare
il pessimismo», la sua situazione emotiva fondamentale non è
né l’angoscia né la noia, ma la sfiducia. Che cosa
significa comunismo? Comunismo «significa pessimismo su tutta
la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte della letteratura,
sfiducia nella sorte della libertà, sfiducia nella sorte dell’umanità
europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma
di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli»(25.
Il politico materialista sa che la letteratura, la libertà e
l’umanità europea, così come tutte le forme di intesa
e compromesso, se invocate come risposte alte e spirituali ai conflitti
bassi e materiali che attraversano la società moderna, si rivelano
essere alla fine nulla di più che palliativi, se non veri e propri
inganni. E quand’anche fossero perseguite in buona fede, del tutto
fiduciosi nelle loro ‘magnifiche sorti e progressive’, esse
lascerebbero, una volta giunte a compimento, nient’altro che un
ammasso di rovine. Se non si vuole cedere alla rassegnazione, non resta
allora che organizzare politicamente le rovine, sfiduciando preventivamente
qualunque tentativo di calmarne l’infiammazione rivoluzionaria
attraverso l’emolliente morale, e laddove questo non bastasse,
ricorrendo a quello estetico.
La diagnosi di Benjamin sulla malattia
di cui soffre il mondo moderno nei primi decenni del secolo XX è,
come è noto, di estetizzazione della politica; la prognosi è
riservata e la terapia proposta: la politicizzazione dell’arte.
Lo sviluppo accelerato dei nuovi media – fotografia, radio, cinematografo,
telegrafo, telefono – non solo trasforma gli spazi percettivi
e le forme di vita, ma soprattutto permette, almeno come precondizione
materiale, l’emancipazione delle masse da ogni rapporto di dominio.
La riproducibilità tecnica libera i fruitori dalla tirannia del
‘qui e ora’ e soprattutto li emancipa dalla sottomissione
al carattere arcano, cioè auratico, dell’immagine, che
cessa in questo modo di essere solidale col potere. I nuovi media comportano
più ancora di un rivolgimento nel campo della produzione materiale,
una vera e propria rivoluzione culturale per il fatto di permettere
da parte delle masse una riappropriazione, senza precedenti nella storia,
della cultura complessivamente prodotta dall’umanità, la
quale, nonostante potenzialmente appartenesse a tutti, veniva confiscata
ogni volta dalle classi dominanti, diventando il più potente
strumento della loro legittimazione. Di fonte a questa situazione l’unico
modo per schivare il carattere oggettivamente rivoluzionario dell’avvento
dei media della riproducibilità tecnica delle immagini, si rivelava
essere non quello, ormai impossibile, di spoliticizzare l’arte,
bensì quello, esattamente inverso, di estetizzare la politica:
se quest’ultima è divenuta ormai immagine – Benjamin
parla già dell’esposizione pubblica, nei parlamenti, oltre
che al cinema, della figura del politico, l’esposizione del politico
alla percezione distratta delle masse – essa allora dovrà
essere trattata come se fosse un’arte, l’arte della produzione,
attraverso i mezzi della riproducibilità tecnica, di immagini
che replichino, nelle mutate condizioni storiche, le prestazioni politiche
di quelle del passato, di custodire cioè gli arcana imperi.
Il
fascismo non è altro che questo per Benjamin: «il fascismo
cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però
intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione».
Pertanto «il fascismo vede la propria salvezza nel consentire
alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti).
Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà;
il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione
delle stesse; il fascismo tende conseguentemente a una estetizzazione
della vita politica»(26.
Le masse diventano esse stesse immagini infinitamente riproducibili,
occupano la scena come delle merci, si espongono nella vetrina cine-televisiva,
sono trasformate in immagini cultuali, servono a riprodurre quei rapporti
di produzione da cui vorrebbero emanciparsi. Invece di emanciparsi dall’immagine
le masse diventano a loro volta immagini, immagini paradossalmente auratiche
in un mondo senz’aura.
Se
la rovina è l’esito inevitabile dei processi naturali e
di quelli storici, soprattutto di quella ‘storia naturale’
che fa da sfondo alle vicende umane, anch’essa allora si polarizzerà
fra gli estremi dell’estetizzazione e della politicizzazione.
Il saggio di Simmel del 1911 intitolato Die Ruine rappresenta
bene il primo lato della dicotomia: la rovina considerata dal punto
di vista estetico è una forma in cui è posto in stato
di quiete il rapporto conflittuale e squilibrato fra le spinte distruttive
della natura e quelle, al contrario, costruttive della cultura. Nella
contemplazione della rovina, i due ambiti che si contendono l’esistenza
umana, se non raggiungono l’equilibrio, tuttavia si placano, producendo
sul fruitore uno stato d’animo pacifico. La presenza della rovina,
che per Simmel è esclusivamente quella architettonica, non significa
altro «che le forze meramente naturali prendono a impadronirsi
dell’opera umana» e che di conseguenza «l’equazione
fra natura e spirito rappresentata dall’edificio si sposta a favore
della natura»(27.
Rivendicando violentemente i suoi diritti, la natura, attraverso la
rovina della costruzione, si vendica «per la violenza che lo spirito
le ha arrecato formandola a propria immagine»(28.
Se il discorso sulla rovina terminasse
qui, tutto il moderno processo di estetizzazione fallirebbe il proprio
scopo: quel che conta nella rovina architettonica, infatti, è
che, a differenza di «un quadro dal quale si siano staccate delle
particelle di colore» o di «una statua con dei membri mutili»
o ancora di «un antico testo poetico dal quale siano andati perduti
parole e versi», i quali producono un effetto solo in base a quanto
ancora sussiste in essi della forma artistica originaria o di quella
che l’immaginazione può ricostruire, ma che nel loro aspetto
immediato non costituiscono un’unità estetica restando
opere d’arte monche ed incomplete, nella rovina invece viene in
evidenza come «nella scomparsa e nella distruzione dell’opera
d’arte siano cresciute altre forze e altre forme, quelle della
natura, e così da ciò che in lei vive ancora dell’arte
e da ciò che in lei vive già della natura, sia scaturito
un nuovo intero, una unità caratteristica»(29.
La rovina insomma non è ciò che resta di un’opera
passata su cui esercitare una meditazione malinconica intorno al carattere
caduco di ogni impresa umana; è al contrario un’opera nuova,
diversa per essenza da quella di cui comunque attesta l’esistenza,
e quindi autonoma. Ed è nuova e diversa perché rispetto
all’opera che era, prodotto di uno solo dei lati dell’esistenza
umana, quello spirituale, essa è stata lavorata dall’azione
di quello naturale modificando in tal modo la propria costituzione complessiva.
La rovina non è ciò che sopravvive di un’opera in
via di decomposizione, ma un’opera a sé, una forma completamente
nuova, la cui prestazione consiste nel permettere al fruitore la percezione
di un diverso rapporto fra le forze naturali e quelle spirituali.
Se
la rovina esercita un suo fascino speciale, ciò dipende dal fatto
che in essa «un’opera dell’uomo viene percepita in
ultima analisi come un prodotto della natura», ossia attraverso
la rovina può mostrarsi il fatto che la natura non è soltanto
«la struttura, la materia ovvero il mezzo prodotto», mentre
lo spirito è «l’elemento definitivamente formativo,
che pone un suggello», ma al contrario «che quanto lo spirito
aveva innalzato diviene oggetto di quelle medesime forze che hanno formato
i contorni della montagna e la riva del fiume»(30.
La rovina mostra insomma che la natura non si riduce né a mero
materiale da costruzione, né a sola furia distruttrice, ma è
anche e soprattutto formativa, produttiva. In tal modo «la distruzione
della forma spirituale grazie all’azione delle forze naturali,
quel rovesciamento dell’ordine consueto, viene percepito quale
un ritorno alla “buona madre” come Goethe definisce la natura»(31.
Incomincia in tal modo a delinearsi il senso del carattere estetico
che Simmel vuole attribuire alla rovina: la contemplazione estetica
della rovina, nonostante il sentimento tragico che costantemente l’accompagna,
è in realtà pacificatrice, rappacifica il fruitore con
la distruzione. La rovina infatti testimonia che in un’opera dell’ingegno
umano, per quanto essa sia stata formata dallo spirito, tuttavia «non
sia mai svanita del tutto una pretesa giuridica della mera natura»(32;
in se stessa «l’opera è sempre rimasta natura e allorché
quest’ultima ora se ne riappropria non fa che realizzare in tal
modo un diritto, fino ad allora sospeso, al quale essa però non
rinuncia mai»(33.
Da ciò deriva una conseguenza importante per Simmel, e cioè
che «la distruzione non è alcunché che provenga
dall’esterno, bensì è la realizzazione di un indirizzo
collocato nello strato d’esistenza più profondo di ciò
che è distrutto»(34.
La distruzione è parte integrante, perché legittima, dell’opera,
e di più produce opere, quali appunto le rovine, che nulla hanno
da invidiare a quelle che sono il risultato della sola forza costruttiva
dello spirito. Concludendo, Simmel individua la prestazione della rovina
architettonica, vale a dire quella «pace profonda che come un
sacro incanto» la circonda, nel fatto che «l’oscuro
antagonismo che condiziona la forma di ogni esistenza» nella rovina
«non è conciliato in un equilibrio», bensì
«lascia prevalere l’una parte e annientare l’altra,
offrendo tuttavia in quest’azione un’immagine sicura della
forma, capace di persistere in quiete»(35.
Invece di essere ciò che distrugge la forma nella misura in cui
quest’ultima funziona come fonte di legittimazione del dominio,
la rovina, per Simmel, è la forma o, più esattamente,
la messa in forma della distruzione.
IV)
Anche Simmel - la riflessione sulla
rovina ne è la chiara dimostrazione - fa parte, come Benjamin
e Riegl, della schiera di quelli per i quali non esistono epoche di
decadenza, per i quali cioè la decadenza, di cui la rovina è
la categoria principe, non obblighi soltanto a guardare con tristezza
verso un passato grande ma purtroppo irripetibile, ma abbia la propria
legittimità e produca, anche se solo nella modalità del
frammento e del torso, opere altrettanto valide e significative di quelle
del passato(36.
In altri termini, sostenere che non esistano epoche di decadenza significa
attribuire al lato distruttivo o negativo dei processi storico-culturali
un valore positivo e costruttivo. Con la differenza però che
mentre in Simmel la prospettiva con la quale si guarda ai prodotti culturali
resta pur sempre quella del mantenimento del rapporto fra i due lati
della dicotomia – naturale-spirituale, negativo-positivo, distruttivo-costruttivo
– mentre ciò che si abbandona è soltanto la pretesa
ad ogni costo della loro riconciliazione, del superamento dell’inimicizia,
per Benjamin al contrario l’atteggiamento da assumere davanti
alla dicotomia consiste nel lasciar perdere del tutto il lato positivo,
costruttivo, vivo e fertile dei processi storico-culturali, e puntare
esclusivamente sull’altro, quello negativo, distruttivo, morto
e sterile. Riprendendo il modello logico della diariesi platonica e
collegandolo arditamente all’apocatastasi origeniana(37,
per Benjamin si tratta di portare fino in fondo il lavoro della distruzione,
continuando a dividere sul solo lato negativo, per estrarre da quest’ultimo,
ad ogni nuovo gradino dello sprofondamento, quel granello di vita che
vi era conservato come in una cripta, affinché, liberato, possa
anch’esso partecipare alla redenzione(38.
L’attuazione
di un simile programma comporta, quindi, non solo l’incremento
nella produzione di rovine, favorendo e accelerando i processi di distruzione
e di decomposizione che colpiscono i fenomeni storico-culturali, ma
anche e soprattutto l’allargamento senza limiti dell’arco
di ciò che può cadere sotto la categoria della rovina.
Benjamin abbandona quella declinazione alta e aristocratica che in Simmel
ancora caratterizzava l’approccio alla rovina e accanto all’edificio
architettonico, nobile ma decaduto, valorizza il torso, il frammento,
l’incompiuto che era tale già prima della gestazione, e,
in un crescendo che non si ferma davanti a quel che oggi chiameremmo
il politically correct, gli scarti di lavorazione e i materiali
di risulta, gli stracci ed i rifiuti, in una parola l’immondizia.
Si configura così da parte di Benjamin una teoria generale dei
rifiuti che coincide in gran parte con quel metodo di una storiografia
materialistica che viene elaborato nella sezione N del Passagen Werk,
nel saggio su Eduard Fuchs e infine nelle Tesi(39.
Mentre la storiografia borghese, ossia lo storicismo, valorizza il detto
e il visibile, il pienamente realizzato e soprattutto l’appartenenza
ad una tradizione culturale la cui capacità di riproduzione funziona
come istanza di legittimazione, il materialismo storico lavora col non
detto e il non visibile, l’incompiuto e il sospeso, e soprattutto
con quei materiali che quella stessa tradizione abbandona all’oblio
e alla distruzione ritenendoli spuri e inutili. Da questo punto di vista
le Jetztzeiten, ossia i ‘tempi-ora’, le attualità,
che si oppongono per Benjamin a quel presente storico concepito come
mera via di facilitazione per lo scorrimento senza scosse del processo
storico, funzionano come veri e propri rifiuti della storia, come l’immenso
ammasso di macerie in cui si trasforma l’altrettanto immenso ammasso
delle merci.
Ma
questo è solo un lato del lavoro del materialista storico: il
lavoro della distruzione, un lavoro instancabile e mai finito, un esercizio
critico costante. Resta da definire il lato costruttivo, ciò
che Benjamin a più riprese ha indicato col termine ‘montaggio’,
traendolo molto probabilmente dal linguaggio cinematografico nonché
dall’ambiente letterario surrealista, ma anche dall’impostazione
marxista del problema dell’esposizione e infine dall’organizzazione
capitalistica del lavoro. Due sono i frammenti della sezione N del Passagen
Werk in cui, alla fine, come se fosse un’etichetta sotto cui
rubricarli, compare, incastonato fra due quadratini neri, il sintagma
“rifiuti della storia”, e che tematizzano il montaggio come
metodo della storiografia materialistica. Il primo recita:
Metodo di
questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare
(Zeigen). Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò
di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per
farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico
modo possibile: usandoli(40.
In forma compendiata il frammento
rimanda ad alcuni capisaldi del pensiero benjaminiano: in primo luogo
al problema dell’esposizione. L’approccio, infatti, a ciò
che in questo contesto Benjamin chiama con i nomi di ‘stracci
e rifiuti’ (Lumpen e Abfall) è lo stesso
che la premessa dell’Ursprung riservava al fenomeno: qui
come là il fenomeno, ciò che appare e si mostra, si pone
in relazione diretta con l’idea, e se la coppia fenomeno-idea
ha anche un tenore linguistico quest’ultimo riguarderà
la sfera dei nomi propri con cui l’idea alla fine s’identifica
e non quella delle generalità logiche in cui la singolarità
del fenomeno si perde. La rete dell’enunciabile, che nella premessa
dell’Ursprung era indicata dalla dimensione del concetto,
non solo non deve sovrapporsi a quella del visibile, ma deve anzi essere
preliminarmente disfatta, affinché il fenomeno, restituito in
tal modo alla sua reale consistenza, si relazioni direttamente alla
propria verità iscritta nell’idea, accedendo contemporaneamente
all’espressione linguistica resa possibile dal nome. Quindi non
si tratta di dire, bensì di indicare, far segno, mostrare a dito:
esporre il fenomeno in quanto tale, quasi in carne ed ossa. Allo stesso
tempo però nessuna visione eidetica: l’idea è il
risultato di un montaggio, di una costruzione. Nulla che si offra ad
una visione originaria. In altri termini, l’idea non si esibisce
nel fenomeno, ma l’analisi intensiva del singolo fenomeno contribuisce
alla costruzione dell’idea.
Il secondo punto cui il frammento
accenna e che è d’altronde una conseguenza dell’impostazione
ultrafenomenologica e paraplatonica che Benjamin nella premessa dell’Ursprung
ha dato al problema della conoscenza (e che la sezione N del Passagen
Werk riprende e rielabora in chiave storico-materialistica), è
la scomparsa di ogni criterio gerarchico e di valore nella scelta e
nell’uso dei materiali: non ci saranno preferenze, non verrà
occultato nulla e nulla verrà privilegiato. Per la storiografia
materialistica vanno bene anche gli stracci e l’immondizia: tratterà
in forma egualitaria i più alti prodotti culturali e i più
bassi detriti della vita. Ma, aggiunge Benjamin, non per farne l’inventario,
bensì per render loro giustizia nell’unico modo possibile:
usandoli. Nel momento in cui affronta il terzo punto chiave, ossia quello
dell’uso politico delle rovine, il frammento s’interrompe:
se è più o meno chiaro il significato della prima parte
dell’affermazione, quella che esclude le tecniche dell’inventario
e dell’elenco, in una parola l’approccio empirico-descrittivo,
o tout court positivista, alla comprensione degli stracci e dei
rifiuti, come esito della pratica teorica del materialista storico,
meno chiaro è in che cosa consista nei loro riguardi l’uso
che rende giustizia, quindi politico, che d’altro canto non può
che coincidere con ciò che l’attacco del frammento definiva
il ‘montaggio letterario’.
Il
secondo frammento, rubricato sotto l’etichetta «ð¾Rifiuti
della storiað¾»,
chiarisce in che senso si debba intendere il principio del montaggio
una volta che esso sia applicato alla comprensione della storia. Dal
momento che la questione principale della scienza storica è quella
della perspicuità della storia stessa, del riuscire a vederci
chiaro nel groviglio degli eventi storici che si presentano all’occhio
esperto dello storiografo come a quello ‘ingenuo’ dell’agente
storico, sovrainterpretati non solo, ma anche intrisi dell’ideologia
dei dominanti, ogni racconto o ricostruzione delle sequenze degli avvenimenti
‘così come si sono effettivamente svolte’ sarà
sempre sospettabile di falsificazione. Una volta che i fatti storici
siano stati liberati da questa camicia di nesso, una volta cioè,
come dice Benjanim, che nella considerazione storica sia stata annichilita
l’idea del progresso, ossia quella bufera che spira dal Paradiso
e che trascina l’Angelo della storia che vorrebbe al contrario
sostare presso le macerie, allora la perspicuità della storia
non sarà l’effetto di una ricostruzione, bensì di
una vera e propria costruzione, cioè di una connessione dei fatti
storici ottenuta in base a un disegno o uno schema che non sono immediatamente
leggibili in essi, ma che si ottengono attraverso il montaggio. A sua
volta però il disegno, lo schema, in una parola l’idea,
in base ai quali si costruisce la storia, non saranno nulla di precostituito:
essi infatti verranno ricavati dall’analisi intensiva del singolo
evento.
Con
le parole del frammento il principio del montaggio consiste
nell’erigere,
insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi,
ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi, nell’analisi
del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale.
Nel rompere, dunque, con il naturalismo storico popolare. Nel cogliere
la costruzione della storia in quanto tale. Nella struttura del commento(41.
Nella
premessa dell’Ursprung, così spesso richiamata perché
è Benjamin stesso a istituire la corrispondenza fra i fondamenti
conoscitivi di una storia della modernità e quelli elaborati
per il libro sul Trauerspiel, il principio metodologico qui indicato
attraverso il rinvio al montaggio letterario e/o cinematografico era
espresso dalla metafora del mosaico e le forme dell’esposizione,
che ora vengono individuate nella costruzione della storia e nel commento
al testo, erano focalizzate nel trattato teologico e nel saggio esoterico.
Come le tessere del mosaico non annunciano in nulla l’immagine
totale pur contribuendo a costituirla – e una sola tessera mancante
renderebbe il mosaico incompiuto –, così attraverso i singoli
momenti della storia si riflette prismaticamente l’accadere totale
e la sua destinazione. Parallelamente le forme dell’esposizione
devono assicurare la doppia prestazione dell’analisi intensiva
della singolarità – saggio esoterico e commento –
da un lato e la struttura discontinua della verità – trattato
teologico e montaggio – dall’altro.
Ciò
che forse si modifica, se non nella sensibilità umana e esistenziale
di Benjamin, sicuramente nella scelta degli oggetti della riflessione
teorica, nel passaggio dai primi lavori sul linguaggio e sulla critica
romantica fino al libro sul Barocco alle ricerche su Baudelaire, Proust,
il surrealismo, i passages di Parigi e in generale sulla storiografia
materialistica, è l’attenzione sempre più crescente
alle attitudini soggettive e alle forme di vita che presiedono alle
pratiche teoriche. Non basta più l’affidamento spontaneo
e acritico alle forme tradizionali in cui si rappresenta il soggetto
conoscitivo e che sono essenzialmente quella del professore universitario
che, almeno in Europa, è un dipendente-funzionario dello stato,
da un lato, e quella dello scrittore free lance, capace cioè
di vivere del proprio lavoro intellettuale, dall’altro: a parte
il fatto che entrambe sono in decadenza, e come Benjanim l’ha
provato sulla propria pelle non sono altro che rovine, l’elemento
decisivo è che esse non permettono più né il reperimento
dei materiali né l’elaborazione delle categorie necessari
alle nuove forme del sapere(42.
Quale
tratto soggettivo, per esempio, può spingere un individuo qualunque,
un generico esponente della specie, qualora non ve lo costringa il semplice
bisogno di sopravvivenza, a passare tutta la sua vita nella ricerca
di ciò che la confraternita dei sani e dei normali giudicherebbe
soltanto cianfrusaglie, oggetti desueti(43se
non addirittura inutili, insomma roba da buttare, spazzatura? Ad investire,
in altri termini, la propria libido come le proprie capacità
intellettuali compresi il gusto, la sensibilità e l’esperienza
accumulata, su oggetti che in sé hanno uno scarsissimo valore,
se non addirittura nessuno, che non hanno un significato né determinato
e univoco, né alto e nobile, che tendono soltanto a fare serie
e che per dirla tutta sono dei veri e propri insiemi inconsistenti come
la catena delle generazioni di cui si è parlato all’inizio
di questo saggio?
Di
questi tipi umani Benjamin ne individua, mi sembra, essenzialmente due:
il flâneur e il collezionista. Affiancate anche tipograficamente
nell’exposé del 1935 su Parigi, capitale del
XIX secolo, primo compendio del lavoro sui passages –
del collezionista parla il quinto paragrafo intitolato Luigi Filippo
o l’«interieur», del flâneur il sesto
dedicato a Baudelaire o le strade di Parigi -, le due figure
sono accomunate in primo luogo dall’essere entrambe degli abitanti
delle soglie, dall’essere appunto i prodotti dei passages,
cioè di luoghi o non luoghi la cui caratteristica è quella
di non essere né un dentro né un fuori, ma di mantenersi
in uno spazio indecidibile. Il collezionista ed il flâneur
si ripartiscono, come Benjanim d’altronde, dai ‘due lati
di una linea di frattura’, non appartenendo né al vecchio
mondo dei valori d’uso né al nuovo della fantasmagoria
del valore di scambio, a quello cioè della grande città
e del trionfo della classe borghese. Sono da questo punto di vista dei
disadattati, il loro sguardo è quello dell’estraniato,
di colui che non appartiene a nessuna cerchia sociale stabile e identificabile.
Sono degli outsiders, al limite dell’anomia, tendenzialmente
conservatori, se non esplicitamente reazionari.
Non
causalmente ad una prima lettura il giudizio di Benjamin su di essi
può apparire fortemente negativo. Del collezionista per esempio
si mette in evidenza la posizione ambigua che assume di fronte all’universo
delle merci: invece di riconoscerlo senza infingimenti cogliendo in
esso anche la presenza di una strana merce, la merce forza-lavoro, capace,
per la sua sola posizione all’interno dei rapporti di produzione,
di essere la leva della loro trasformazione rivoluzionaria, il collezionista
s’impegna nel lavoro di Sisifo di «togliere alle cose, mediante
il possesso di esse, il loro carattere di merce», dando loro però
«solo un valore d’amatore invece del valore d’uso»
(44.
Il collezionista, aggiunge Benjamin, «si trasferisce idealmente,
non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo
migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti
del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono
libere dalla schiavitù di essere utili»(45.
Il meno che si possa dire è che il collezionista è un
illuso che crede di poter salvare le cose dall’obbligo dell’utilità
senza dover passare per una rivoluzione dei rapporti sociali, ma solo
in virtù del suo gusto e della sua sensibilità estetiche,
e che per questo diviene complice più o meno consapevole del
dominio che proprio il sistema della merce esercita sulla sfera del
lavoro umano. Il collezionista resta sul lato dell’estetizzazione
della politica e non si sposta su quello della politicizzazione dell’arte.
Ancora
più drastico il giudizio sul flâneur: il modo di
vivere di quest’ultimo riveste di «un’aura conciliante
quello futuro, sconsolato dell’abitante della grande città»,
lo abbellisce e lo edulcora rendendolo accettabile. Per questo, pur
non coincidendo del tutto con ‘l’uomo della folla’
di cui parla Poe, il flâneur cerca in essa un asilo e un
riparo: la folla che fa da velo alla città gli permette, infatti,
di vederla come una fantasmagoria. Ancora una volta è la realtà
della merce che non va guardata in faccia, preferendo il flâneur
come il collezionista fermarsi attonito e stupito davanti al feticcio
che lo guarda, come la merce da dentro la vetrina, e l’ammalia,
promettendo un’ebbrezza che una vita ridotta al bisogno e al solo
valore d’uso delle cose non può che rendere impossibile
o rimandare al giorno in cui ritorneremo in Paradiso. Se con il flâneur,
come dice Benjamin, «l’intelligenza si reca sul mercato»,
ossia se con questa figura si hanno il primo incontro e la prima saldatura
fra i tratti alti, nobili e disinteressati della vita umana da un lato
e quelli bassi, sporchi e materiali dall’altro, ciò accade
in realtà non per impadronirsene nel concetto o nell’espressione
artistica, bensì per «trovare un compratore»(46,
vale a dire per offrirsi come merce. Il flâneur rappresenta
lo stadio in cui l’intelligenza è in bilico fra il mecenatismo
e il mercato. Da qui la natura bohémienne che la funzione
intellettuale deve necessariamente assumere in questa fase storica di
trapasso e che prende la forma antidemocratica e antiproletaria del
cospiratore di professione dopo essere passata per quella del ribelle
anarchico.
A guardare però con più
attenzione, pur restando fermo il giudizio negativo su di essi, pur
essendo flâneur e collezionista figure del passato, momenti
della preistoria della modernità capitalistica, quando il materialista
storico si risveglierà dal sogno della merce e dalla fantasmagoria
della città, sarà spontaneamente attratto per incominciare
il suo lavoro, non dagli intellettuali progressisti e politically
correct, ma da questi disadattati che espulsi dal vecchio mondo
non avevano trovato posto neppure nel nuovo e che però da questa
posizione eccentrica avevano potuto gettare uno sguardo estraniato sugli
effetti della modernità negato ai cantori delle ‘magnifiche
sorti e progressive’, contribuendo anche a far vedere il rovescio
della merce, e cioè la forza-lavoro come resto non trattabile
del processo capitalistico di produzione e il plusvalore come scarto
e rifiuto, immondizia irriciclabile: sottrarre le cose al principio
di utilità non significa soltanto estetizzarle, può voler
dire anche trattarle come spazzatura e la spazzatura è altrettanto,
se non di più, inutile dell’opera d’arte.
In altri termini, flâneur
e collezionista sono anche precursori del materialista storico, momenti
della sua preistoria. Gli preparano il terreno, smantellando e distruggendo
gli apparati ideologici del dominio e liberando i materiali per l’uso
politico rivoluzionario. Soprattutto essi adombrano, l’uno nell’ebbrezza
della merce, l’altro, come si vedrà, nel modo in cui dispone
gli oggetti della sua collezione, la futura società senza classi,
il mondo integralmente redento. Un frammento del Passagen Werk
ci sembra la testimonianza più esplicita di quest’altra
prospettiva, parallela alla prima, da cui Benjamin guarda nel caso specifico
al collezionista ma in realtà a entrambe le figure:
Ciò
che nel collezionismo è decisivo, è che l'oggetto sia
sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto
più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto
è l'esatto opposto dell'utilità, e sta sotto la singolare
categoria della completezza. Cos’è poi questa «completezza»?
Un grandioso tentativo di superare l'assoluta irrazionalità della
semplice presenza dell'oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo
ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista
ogni singola cosa giunge a diventare un'enciclopedia di tutte le scienze
dell'epoca, del paesaggio, dell'industria, del proprietario da cui proviene.
E l'incantesimo più profondo del collezionista quello di inscrivere
il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s'irrigidisce, nell'atto
stesso in cui un ultimo brivido (il brivido dell'essere acquistato)
lo attraversa. Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza,
diviene piedistallo, cornice, basamento, scrigno dei suo possedimento.
Non bisogna credere che proprio al collezionista sia estraneo il ‘topos
iperuranico’ che secondo Platone ospita gli archetipi immutabili
delle cose. Esso, certo, si perde. Ma ha però la forza di risollevarsi
di nuovo reggendosi a un fuscello di paglia, e dal mare di nebbia che
circonda il suo senso si stacca come un'isola l'oggetto appena acquistato.
Il
collezionismo è una forma della memoria pratica, ed è
la più cogente tra le manifestazioni profane della «vicinanza».
Ogni minimo atto della riflessione politica fa dunque in qualche modo
epoca nel commercio dell'antiquariato. Noi costruiamo qui una sveglia
che scuota il kitsch del secolo scorso e lo «chiami a raccolta»(47.
Senza voler
affrontare questioni inerenti alla datazione dei frammenti – questioni
probabilmente senza soluzione date le condizioni del materiale –
questa caratterizzazione del collezionista sembra opporsi a quella appena
citata dell’exposé, nonché al discorso contenuto
nel saggio su Eduard Fuchs (risalente al 1937 ma scritto controvoglia
per ragioni quasi esclusivamente economiche) in cui la preoccupazione
principale di Benjamin sembra quella di prendere distanza dall’ideologia
progressista e moralistica di quest’ultimo. Qui il carattere quasi
maniacale della ricerca del collezionista acquista un senso talmente
positivo fino al punto di confondersi con l’ethos che,
secondo le Tesi, dovrebbe guidare il materialista storico: come
il collezionista anche quest’ultimo strappa l’evento storico
dal suo contesto originario e lo collega con altri eventi il più
possibile simili al primo; così facendo egli supera la sostanziale
irrazionalità degli eventi storici, ossia il loro corso inevitabilmente
rovinoso, la loro consistenza di macerie, malamente nascosto dall’ideologia
storicista, inserendoli di forza in un nuovo ordine storico integralmente
costruito. Si prenda l’esempio delle Tesi: la congiura
di Bruto contro Cesare volta ad impedire lo sbocco imperiale della repubblica
romana è sottratta alla storia dell’antica Roma e messa
in contatto senza alcuna soluzione di continuità con la decapitazione
del re di Francia ordinata da Robespierre e Saint-Just per evitare la
sconfitta della rivoluzione. Al posto della storia così come
è effettivamente stata, ossia un cambio di testimone fra classi
dominanti interessate soltanto alla perpetuazione del dominio, il materialista
storico ha messo l’ordine storico dell’emancipazione.
Anche il
materialista storico è mosso nella ricerca preliminare degli
eventi da inserire nel nuovo ordine storico da quella sindrome del collezionista
che Benjamin chiama ‘categoria della completezza’. Rispetto
alla quale va tuttavia precisato che se la scelta e la messa in rapporto
dei singoli oggetti di una collezione rispondono appunto a quest’ideale
della completezza, ciò non vuol dire che la collezione in sé
possa mai considerarsi finita o diventare una totalità chiusa.
Se è vero che ogni singolo oggetto è di per sé
indispensabile per completare la collezione, è vero anche che
la serie degli oggetti è infinita. Da questo punto di vista l’insieme
costituito da tutti gli elementi della collezione è un insieme
infinito e inconsistente. Tuttavia una collezione non è un semplice
inventario, è un uso che deve render giustizia agli oggetti,
disponendoli secondo un ordine mentale o spaziale che non è una
proiezione del significato che gli oggetti hanno in quanto tali, ma
che al contrario costituisce la costellazione ideale o l’orizzonte
di senso a partire dal quale essi ricevono per la prima volta il loro
vero valore.
Andando ancora
più in profondità bisogna aggiungere che il rapporto che
intercorre fra il singolo oggetto e la collezione di cui è chiamato
a fare parte o fra il singolo evento storico e il nuovo ordine della
storicità in cui si concatena, si presenta in Benjamin come una
certa modalità di 'innalzamento' (Erhebung), non distante,
ci sembra, dal registro del sublime, con cui l’oggetto o l’evento
subiscono quel che si potrebbe chiamare un cambio di rango. Per usare
ancora una terminologia kantiana è come se passassero dall’ambito
del prezzo – carattere utilitario della cosa o funzionale dell’evento
storico – alla sfera della dignità – il valore assoluto,
vale a dire sciolto, emancipato, da qualunque regime di equivalenza,
separato dal valore d’uso come dal valore di scambio, più-valore
e più-che-valore. In verità il frammento del Passagen
Werk in cui, in un modo forse anche troppo rapido, si tematizza
un tal dispositivo, evocando in sovrappiù anche un concetto decisivo
della riflessione benjaminiana quale quello dell’allegoria, si
limita a enunciare un rapporto fra quest’ultima, la merce e la
rovina. Dice infatti: «Materia in rovina (gescheiterte Materie):
è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria. Carattere
di feticcio della merce e allegoria»(48.
Dispiegato però, il frammento sembra sostenere che non appena
la merce sia colta per quello che è e non per quel che fa credere
che sia, una volta cioè che sia svelata la sua natura feticistica,
ciò che si mostra è che essa non è altro che materia
rovinata, esistenza fallita, cosa da buttare; ma anche che non appena
questo avviene la merce come materia rovinata è innalzata al
rango dell’allegoria. La merce che nel capitale dispiegato fa
da equivalente generale di ogni oggetto come di ogni evento, di ogni
stato soggettivo come di ogni costrutto culturale – niente sfugge
al dominio del valore di scambio e niente deve sfuggirvi se vogliamo
continuare ad avere negativo da dividere e salvare -, abbassata al ground
zero dell’esser rovinoso, vista come un’immenso ammasso
di macerie, viene per ciò stesso innalzata ad allegoria, ad un’immagine
priva di bellezza, anamorfica forse, distorta e inconciliata certamente,
ma egualmente evocatrice della redenzione. Giacché solo l’allegoria,
a differenza del simbolo, è in grado di portare all’espressione,
e quindi salvare, ciò che resta incompiuto e non finito, quel
negativo che non trapassa in essere, in una parola l’opera inoperosa
della morte. Come Benjamin scriveva nell’Ursprung: «Le
allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno
delle cose»(49.
V)
Durante il
seminario dedicato all’etica della psicoanalisi, Jacques Lacan,
per illustrare il meccanismo della sublimazione, il cui senso complessivo
aveva precedentemente compendiato nella formula: «elevare un oggetto
alla dignità della Cosa», decise di chiudere la lezione
del 20 gennaio 1960 con un apologo. Durante il periodo del governo di
Pétain – lo stesso in cui Benjamin si uccide – si
recò a trovare il suo amico poeta Jacques Prévert e nell’abitazione
di quest’ultimo fu colpito dalla presenza di una strana cosa di
cui ancora adesso conservava nitido il ricordo. Jacques Prévert
era un collezionista e all’epoca in cui c’era ben poco da
collezionare si limitava ad acquistare e conservare scatole di fiammiferi.
Ma il punto decisivo è che le scatole di fiammiferi non erano
semplicemente accatastate alla rinfusa in qualche angolo dell’abitazione
e neppure disposte ordinatamente su di un mobile pronte per essere inventariate
e classificate. Erano invece, grazie ad un leggero spostamento del cassetto
interno, incastrate l’una dentro l’altra in modo da formare
una striscia uniforme che, scrive Lacan, «correva sul bordo del
caminetto, saliva sul muro, passava sulle cimase e ridiscendeva lungo
una porta. Non dico che andasse così all’infinito, ma era
straordinariamente soddisfacente dal punto di vista ornamentale»(50.
Nulla, che
io sappia, più di questo festone o gran pavese formato da scatole
di fiammiferi incastrate l’una dentro l’altra, illustra
meglio, non solo la sublimazione come una delle vicissitudini che possono
capitare alla pulsione, il suo rapporto con la sfera del piacere estetico
condiviso e riconosciuto, ma anche la pratica del collezionista, la
sua caratura etica e politica. Se la Cosa, la Ding an sich –
ancora una referenza kantiana -, la Cosa sciolta da qualunque concatenazione
empirica e intellettuale, la Cosa come puro pensato e che in quanto
tale sfugge a qualunque visibilità diretta, rappresenta però,
in filosofia come in psicoanalisi, la mira della facoltà superiore
del desiderare, essa potrà forzare il passaggio verso un’esibizione
empirica – restando contemporaneamente a distanza per salvaguardare
l’autonomia dell’intelletto discorsivo – soltanto
attraverso un’immagine indiretta, vale a dire un’allegoria.
La striscia formata dalle scatole di fiammiferi è un’allegoria
della Cosa e la formula di Benjamin secondo la quale si tratta d’innalzare
la merce al rango dell’allegoria si sovrappone perfettamente a
quella di Lacan in base alla quale la sublimazione consiste nell’elevazione
di un oggetto alla dignità della Cosa.
Il carattere
sbalorditivo, continua Lacan, «dell’effetto realizzato da
questa raccolta di scatole di fiammiferi vuote era di far apparire un
fatto, su cui ci fermiamo troppo poco, e cioè che una scatola
di fiammiferi non è affatto semplicemente un oggetto, ma che
essa può, nella forma, Erscheinung, in cui era proposta
in una molteplicità veramente imponente, essere una Cosa»(51.
La scatola di fiammiferi è in principio un oggetto, dotato di
una sua utilità e di una sua funzione – il suo valore d’uso
e, una volta che sia messa in vendita, anche il suo valore di scambio.
Usati tutti i fiammiferi, la scatola è vuota e non resta che
buttarla nel secchio della spazzatura. Ma all’occhio del collezionista
la scomparsa contemporanea del valore d’uso e del valore di scambio
della scatola – del suo carattere di merce – è la
premessa per l’emergenza di qualcosa come la forma pura della
scatola presente in essa ma fino a allora non visibile. Questa forma
è appunto il vuoto della scatola e la domanda del collezionista
riguarda l’uso che di questo vuoto è ancora possibile.
Come render giustizia a questo vuoto della scatola di fiammiferi? Mettendolo
in contatto con un altro vuoto di un’altra scatola di fiammiferi
e così all’infinito. Solo che da questo insieme di vuoti
collegati l’uno all’altro emerge una figura complessiva,
priva per un verso di un significato qualsiasi, ma allo stesso tempo
capace di produrre una soddisfazione estetica, quasi fosse un modo per
riscattare l’inservibile dalla discarica cui sarebbe destinato.
Forse che il vuoto non ha anch’esso diritto di sperare nella redenzione?
Le ulteriori
considerazioni di Lacan non fanno che confermare quest’assunto:
la disposizione a festone delle scatole di fiammiferi unite attraverso
il loro vuoto rendeva manifesto che «una scatola di fiammiferi
non è soltanto qualcosa con un certo uso, che non è neppure
un tipo, nel senso platonico, la scatola di fiammiferi astratta(52,
che una scatola di fiammiferi da sola è una cosa, con la sua
coerenza d’essere». E d’altro canto che la mira del
collezionista fosse appunto la cosalità della scatola di fiammiferi
è dimostrato «dal carettere completamente gratuito, proliferante
e superfluo, quasi assurdo di questa collezione»(53.
Ma l’ultima
osservazione di Lacan merita un rilievo a parte ed è per questo
che le affidiamo il compito di chiudere questo saggio sulle rovine di
Benjamin. Non in ogni oggetto sussiste alla stato latente la possibilità
della Cosa: la sua forma non è per niente indifferente. «Se
ci riflettete», dice Lacan rivolgendosi all’uditorio sempre
più stupito, «la scatola di fiammiferi vi si presenta come
una forma vagabonda di ciò che ha per noi tanta importanza da
prendere in certi casi un senso morale, e che si chiama cassetto. Qui,
il cassetto, liberato, e non più preso nella sua ampiezza ventrale,
comoda, si presentava con un potere copulatorio, che l’immagine
tracciata dalla composizione prevertiana era destinata a rendere sensibile
ai nostri occhi»(54.
Non lo si poteva dire più chiaramente: la striscia delle scatole
di fiammiferi era l’allegoria attraverso la quale la spinta copulatoria
che dà origine alla catena delle generazioni veniva strappata
all’insensatezza e alla rovina. L’allegoria di un nome fatto
a pezzi.
1
Per una prima ricognizione del tema in riferimento alla prima produzione
benjaminiana rinvio al mio Allegoria e rovina. Mondializzazione
e redenzione nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, in
Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli
2000.
2
D’altronde in italiano il termine rovina può indicare
insieme sia la caduta o il crollo di qualcosa, sia il suo effetto,
vale a dire i resti, nonché l’agente o causa: ‘Sei
la mia rovina!’
3
M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione
alla ricerca fenomenologica, tr. it. di M. de Carolis, Guida,
Napoli 1990, p. 131. Sul rapporto Heidegger-Benjamin rinvio al mio
Vita fattizia e eros impotente. Heidegger, Benjamin e la questione
universitaria, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani,
cit. Ma sulla questione generale del divenir-soggetto si veda ancora
il mio Anima idiotica. Saggio di stilografia, in AA.VV., Stupidi
e idioti. Undici variazioni sul tema, Sossella, Roma 2000, soprattutto
pp. 170-172.
4
Per la tematizzazione della Ruinanz, cioè del rovinio,
cfr. ivi, p. 161 ss.
5
Cfr. B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno,
Guida, Napoli 1984, p. 418. Nel testo, subito dopo la frase “che
l’Angelo trascina via con sé”, si trova un inciso
che recita “spalle al paradiso” con il quale si attribuisce
all’Angelo una posizione sbagliata rispetto a quanto c’è
nel testo secondo il quale semmai l’Angelo dà le spalle
al futuro verso cui lo trascina, suo malgrado, una bufera che soffia
dal paradiso e che non è altro che il progresso. Il mio errore
d’allora mi appare oggi l’effetto dell’urgenza,
sorella di quella cattiva consigliera che è la fretta, che
avvertivo all’epoca di dover sottoporre ad una critica serrata
un’interpretazione di Benjamin secondo la quale la redenzione
coincide integralmente con un ritorno indietro, ossia con il ripristino
della condizione che precede, fuori di metafora, la modernità.
A mio avviso non esiste in Benjamin il topos nostalgico per un passato
ideologicamente migliore del presente e che andrebbe ricostituito.
6
Sul tema della democrazia rinvio al mio Sovranità e democrazia,
in Chaosmos, Sciogliere legare. Sacrificio democrazia sovranità,
Filema, Napoli 2003, pp. 43-60. Sul problema dell’archè
si veda J. Derrida, Mal d’archive, Galilée, Paris
1995.
7
Il problema per l’Europa di oggi è ovviamente Israele
e, al di là delle denegazioni, la sua esistenza in quanto tale:
ogni buon europeo desidera nel suo cuore la distruzione di Israele.
8
W. Benjamin, Sul concetto di storia, ed. it. a cura di G. Bonola
e M. Ranchetti, Einaudi, Torino1997, p. 37.
9
J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique,
Verdier, Lagrasse 2003, p. 118.
10
Su questo punto si veda J. Derrida, Interpretazioni in guerra.
Kant, l’ebreo, il tedesco, tr. it. di T. Silla, Cronopio,
Napoli 2001, in cui si analizza fra l’altro il paradossale filogermanesimo
del filosofo ebreo Hermann Cohen il quale, all’inizio della
prima guerra mondiale, convinto che la vera patria dell’ebreo
fosse la Germania intesa come patria dello spirito europeo, chiedeva
agli ebrei americani di impedire l’entrata in guerra degli Usa
contro la nazione tedesca.
11
A mitigare solo in parte la durezza di queste tesi è giusto
ricordare che quello del nome è un tema costante nella riflessione
benjaminana e non solo dal punto di vista dello ‘studio’
– la teoria del nome elaborata nel saggio Sulla lingua in
generale e sulla lingua degli uomini – ma anche e soprattutto
da quello analizzato qui del ‘nome ebraico’: mi riferisco
al breve testo ‘autobiografico’ del 1933, anno della presa
del potere da parte del nazional-socialismo, Agesilaus Santander,
in cui Benjamin racconta che i suoi genitori, «ritenendo opportuno
che non tutti s’accorgessero subito che ero ebreo» gli
diedero alla nascita altri due nomi «inusitati, dai quali non
si potesse arguire né ch’era un ebreo a portarli né
che gli appartenessero come nomi». è rilevante notare
che Benjanin, che pure era dedito dalla giovinezza alla pratica dello
pseudonimo, non li abbia mai usati, ma li abbia tenuti per sé,
trattandoli come gli ebrei trattavano il nome segreto che gli veniva
dato alla soglia della pubertà. Questo testo fondamentale di
Benjamin andrebbe finalmente riletto alla luce della posizione di
Milner in modo da sottrarlo definitivamente alla nefasta interpretazione
di Scholem. Sul tema dei nomi si veda di J-C. Milner, Nomi indistinti,
tr. it. di B. Chitussi, Quodlibet, Macerata 2003. Una considerazione
simile andrebbe fatta per la questione dello ‘studio’:
a questo riguardo basta un rimando al saggio su Kafka in cui se per
un verso si riconosce che lo studio «è la porta della
giustizia», ossia che è l’unico modo per rimettere
insieme i frammenti della propria esistenza «nell’epoca
della massima estraneazione degli uomini fra loro», si aggiunge
immediatamente che mai Kafka ha osato «associare a questo studio
le promesse che la tradizione ricollegava a quello della Torah»
e che di conseguenza «i suoi aiutanti sono sagrestani rimasti
senza parrocchia, i suoi studenti, scolari senza scrittura»
(Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka, tr. it. di R. Solmi, in Id.,
Opere complete. VI. Scritti 1934-1937 (a cura di R. Tiedemann
e H. Schweppenhäuser), ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione
di H. Riediger, Einaudi, Torino 2004, pp. 151-152).
12
Come è noto, all’interno del mondo ebraico si può
sviluppare un odio antigiudaico che, a partire dalla Shoah, si manifesta
sotto l’accusa di nazismo. Ultimo caso: la destra israeliana
nei confronti di Sharon, reo di aver voluto lo smantellamento delle
colonie presenti nella striscia di Gaza.
13
La cui persistenza anche dopo la Shoah proclama però, come
nota Milner, anche «lo scacco dello sterminio» (J-C. Milner,
Les penchants criminels de l’Europe démocratique,
cit., p. 114).
14
J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique,
cit., p.120.
15
Se è proprio necessario citare nella costituzione dell’Europa
unita quali siano le radici da cui prende linfa la sua storia, proporrei
di indicarne una sola usando un solo nome: Auschwitz.
16
J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique,
cit., p. 123.
17
Il passo sulla tripartizione della funzione paterna in riferimento
ai registri simbolico, immaginario e reale si trova in J. Lacan, Il
seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960,
tr. it. di M. D. Contri, Einaudi, Torino 1994, pp. 385-386. Il fatto
che la psicoanalisi resti ferma sulla ‘quadruplicità’
spiega l’accusa nazista di essere una ‘scienza ebraica’.
18
Cfr. J. Lacan, Des Noms-du-père, Seuil, Paris 2005.
19
W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., ibidem.
20
W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni su Nikolaj Leskov,
tr. it. di R. Solmi, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937,
cit., p. 330.
25
W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali
europei, tr. it. di A. Marietti Solmi, in Id., Ombre corte.
Scritti 1928-1929, ed. it. a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino
1993, pp. 266-267.
26
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini e
H. Riediger, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937,
cit., p. 301.
27
G. Simmel, La rovina, tr. it. di G. Carchia, in «Rivista
di estetica», n° 8, anno XXI, Rosenberg & Sellier, Torino
1981, p. 121.
36
«Il pathos di questo lavoro: non ci sono epoche di decadenza»:
cfr. W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages»
di Parigi, (a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser),
ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi,
Torino 2000, p. 511.
37
Sul rapporto fra apocatastasi, ruolo del negativo e, come si vedrà
fra poco, collezionismo, si confronti: G. Schiavoni, Walter Benjamin.
Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, pp. 166-167.
38
Cfr. W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages»
di Parigi, cit. p. 513, frammento N 1a, 3.
39
Sulla metodologia storiografica di Benjamin rinvio al mio L’eccedenza
del presente. Sulla metodologia storiografica di Walter Benjamin,
in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, cit.
40
W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi,
cit., p. 514, frammento N 1a, 8.
41
Ivi, p. 515, frammento N 2, 6.
42
L’obsolescenza di entrambe viene vissuta da Benjamin in prima
persona: da un lato il fallimento del tentativo di vincere una cattedra
universitaria con un titolo scientifico come l’Ursprung des
deutschen Trauerspiels; dall’altro le difficoltà
nel sostenersi economicamente con la propria attività di saggista
dimostrate dalle richieste disperate a Adorno e Horkheimer perché
lo facessero pubblicare sulla rivista dell’Istituto di Francoforte
prima e dopo l’esilio negli Stati Uniti, e dal fatto che i contrasti
teorici che talora lo contrapponevano ad Adorno – per esempio
sul saggio su Baudelaire – significavano in realtà un
mancato pagamento.
43
Su questo tema si veda la fondamentale ricerca di Francesco Orlando,
Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi,
Torino 1993.
44
W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi,
cit., p. 12.
46
Per questa e le precedenti ivi, p. 13.
49
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto,
in Id., Opere complete. VI. Scritti 1923-1927, cit., p. 213.
50
J. Lacan, Il seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi.
1959-1960, ed. it. a cura di G. B. Contri, Einaudi, Torino 1994,
p. 144. Il Kant della Critica del giudizio avrebbe rubricato
la striscia prevertiana delle scatole di fiammiferi fra gli esempi
di bellezza libera ponendola accanto ai fiori, a molti uccelli come
il pappagallo, il colibrì e l’uccello del paradiso, alle
conchiglie marine, ai disegni alla greca, al fogliame in cornice,
insomma a tutte le cose che di per sé non significano niente
(cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, ed.
it. a cura di L. Amoruso, Rizzoli, Milano 1995, pp. 217-218).
52
Si confronti a questo proposito il passo del frammento di Benjamin
citato in precedenza in cui si accenna al fatto che al collezionista
non è estraneo il «‘topos iperuranico’ che
secondo Platone ospita gli archetipi immutabili delle cose»,
anche se per dire immediatamente poco che esso si perde, e che, se
ritorna, ritorna «reggendosi a un fuscello di paglia, e dal
mare di nebbia che circonda il suo senso si stacca come un'isola l'oggetto
appena acquistato».
53
Per questa e la precedente cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro VII.
L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, cit. p. 144.