indice del numero 4

 

 

 

 

Rifiuti tossici? Non nel mio cortile (nel loro sì, però).
Un’analisi del razzismo ambientale.

di Serenella Iovino


Un ambiente sano e pulito. Aspirazione legittima, e anzi necessaria, di ogni società evoluta. Una società che si è sviluppata, che produce per crescere ancora, e che consuma. Consuma risorse (talora rinnovabili, tal'altra — più spesso — no), beni necessari alla sopravvivenza umana, beni necessari alla sopravvivenza del mercato, e tutto quanto può entrare nel circolo della produzione di ricchezza e della soddisfazione dei bisogni. Ogni consumo, va da sé, ha i suoi residui: organici, inorganici, e tossici. Coi primi e i secondi, ci si prova, si può ricavare altra energia. Gli ultimi, purtroppo, non li vuole proprio nessuno. Ne sappiamo qualcosa in Italia: dove, mentre i rilievi del Ministero dell’Ambiente garantivano sulla sicurezza pressoché assoluta del sito (ipotesi poi smentita in seguito), tutti noialtri abbiamo solidarizzato con gli abitanti di Scanzano Jonico. Salvo raggelare di fronte alla domanda: “E ora, questa roba chi se la piglia?” Sospiro di sollievo, quando i treni carichi di scorie radioattive sono partiti verso la Francia e la Germania, paesi che le centrali ce le hanno, e i rifiuti tossici, con le buone o con le cattive, li sanno trattare.
Certo, chi può, questa “roba” può pensare di mandarla nello spazio (e magari anche di qui l’interesse statunitense per il programma di viaggi su Marte). Ma, a conti fatti, forse la spesa non sempre vale l’impresa. Specialmente quando si può far passare lo smaltimento di inquinanti come il fio da pagare per una (falsa) integrazione economica e sociale, facendo credere alle comunità che li accettano che, anziché danneggiarle per un paio di millenni, si sta loro facendo un favore: tu mi dai il permesso di scaricare i residui di fabbricazione dell’uranio nel tuo territorio comunale, e io (multinazionale, industria locale o stato) in cambio ti creo cinquecento posti di lavoro, alloggi popolari e un bel campo di pallone. Quando poi si nota che in queste stesse comunità spesso il disagio sociale si accompagna al fattore etnico, si può parlare di una nuova frontiera della discriminazione: il razzismo ambientale.

Costi e benefici. Uno sguardo globale.
Confinare i rifiuti nei territori meno “pregiati” dal punto di vista turistico o abitativo, o dirottarli verso luoghi già avviati verso un certo degrado, è una cosa che avviene in tutti i paesi industrializzati. Su scala globale, però, questa prassi si fa ancora più massiccia. E spesso il confine tra Nord e Sud del mondo passa proprio per la distinzione tra chi produce ricchezza e chi ne smaltisce i rifiuti.
In un’ottica generale, i meccanismi sono chiari: vige la logica dell’analisi costi-benefici. Fuori dal gergo economico, si inquina dove è più conveniente smaltire i rifiuti, e cioè dove non solo il lavoro costa meno, ma costa meno anche pagare le spese alle persone che subiscono i danni delle contaminazioni. Per capire come funziona questo sistema basta dare uno sguardo a un memorandum fatto circolare negli ambienti della Banca Mondiale, e attribuito al suo capo-economista Lawrence Summers (poi segretario al Tesoro sotto l’amministrazione Clinton):

Data: 12 Dicembre 1991
A: Distribuzione
Da: Lawrence H. Summers
Soggetto: GEP [sigla non definita: probabilmente “Global Environmental Pollution”: “Inquinamento ambientale globale”]
Industrie “sporche”: detto tra noi, non dovrebbe la Banca Mondiale incoraggiare di PIU’ la migrazione delle industrie sporche verso i PMS [paesi meno sviluppati]? [...]
Le stime dei costi dell’inquinamento nocivo alla salute dipendono dai guadagni perduti a causa delle aumentate condizioni di mortalità e malattia. Da questo punto di vista una data quantità di inquinamento nocivo alla salute dev’essere destinata al paese con i costi minori, che sarà il paese con i salari più bassi. Ritengo che la logica economica implicita nello smaltire rifiuti tossici nel paese con i salari più bassi sia impeccabile, e che sia qualcosa con cui dobbiamo fare i conti.
1)
[leggi il testo completo del memorandum]

Se consideriamo che il costo di smaltimento di una tonnellata di rifiuti tossici nei paesi africani è di 2,5 dollari, contro i 250 dell’Europa, è innegabile che l’applicazione al mercato dell’analisi costi-benefici dia i suoi frutti.2) Il primo è lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze. Secondo stime recenti, infatti, l’1% dei ricchi della terra ha un reddito pari al 57% di quello dei poveri. Un quinto della popolazione mondiale consuma quattro quinti delle risorse naturali, mentre i quattro quinti devono accontentarsi del rimanente quinto.3)
Gli alti standards di vita raggiunti nei paesi sviluppati dipendono proprio dalla possibilità di questa sperequazione. È facile intuire che l’acquisto di risorse e lo smaltimento di rifiuti a basso costo in paesi del Terzo Mondo consenta il fiorire dell’industria e dei consumi nel Primo. Questa forma di discriminazione è un’evidente eredità del colonialismo. Per secoli i paesi del Terzo Mondo, in veste di colonie o protettorati, sono stati considerati dagli imperi europei e occidentali come serbatoi di risorse da sfruttare senza restrizioni. Il loro sfruttamento, di fatto funzionale alla crescita economica e politica dell’Europa e degli Stati Uniti, è stato spesso mascherato da progresso. Si è anzi cristallizzata, ancor di più a partire dal secondo Dopoguerra, un’immagine degli equilibri geopolitici in cui “sviluppo” è divenuto sinonimo di “civiltà” ed “economia” sinonimo di “società”.4) Se, come sostiene Pierre Bourdieu, le parole non restituiscono un’immagine neutrale della realtà, ma sono un’invenzione sociale tesa a costruire linearità artificiali,5) proprio questa “normalizzazione” linguistica ha, di fatto, accompagnato l’accrescersi del divario tra Nord e Sud del mondo, allo stesso tempo giustificando, in nome del “progresso”, l’atteggiamento predatorio del primo sul secondo. In realtà, tuttavia, per i paesi del Terzo Mondo questo “progresso” (il più delle volte perseguito con l’“aiuto” dei grandi gruppi industriali) ha significato il declino di forme di economia tradizionali, di autosussistenza ed eco-compatibili, da secoli in vigore in quei territori.6) Questo giustifica chi, rovesciando le retoriche globalistiche della società del benessere, parla di un “maldevelopment”, un “cattivo sviluppo”: il modello occidentale di crescita economica, e le dinamiche di produzione e consumo che esso implica, non hanno avuto effetti benefici per tutti i soggetti in gioco. In realtà, spesso i nuovi modelli economici creano povertà proprio mentre pretendono di creare ricchezza, cancellando stili di vita sostenibili e portando miseria materiale a coloro che ne sono investiti.7)
Questo ha un ulteriore risvolto: nei paesi del Terzo Mondo è in atto una vera e propria “crisi di sovranità”.8) Lo sfruttamento sistematico è infatti avvenuto nella più totale mancanza di considerazione per le esigenze delle comunità locali, escluse dalla fruizione delle loro stesse terre e delle loro stesse risorse: Winona LaDuke, per esempio, riporta che nel mondo “oltre cento milioni di persone, appartenenti a popolazioni indigene, dovranno essere trasferite per permettere lo sviluppo di progetti idroelettrici nel prossimo decennio. E oltre cinquanta milioni di indigeni abitano nei luoghi in cui si concentrano le risorse del mondo”.9)
È superfluo qui sottolineare che a questa crisi di sovranità si accompagna irrimediabilmente una crisi di democrazia. E non penso solo, com’è ovvio, alle guerre per le risorse e ai regimi autoritari che (spesso con il benestare di alcuni stati “democratici”) opprimono i paesi del Sud del mondo. Anche le stesse politiche che coinvolgono questi paesi in programmi di supporto economico o di tutela ambientale sono infatti gestite in maniera pressoché autonoma da quelle realtà che, scrive Vandana Shiva, sono le uniche protagoniste della “sfera d’azione globale”: entità nazionali e organismi trans-nazionali come l’ONU, le maggiori ONG, grandi corporations e istituzioni come la Banca Mondiale. Anche la ricerca ecologica è condotta da piccoli gruppi di scienziati connessi a entità politiche globali, ben lontano quindi dalle esigenze che emergono dal basso.10)
È inoltre di questi giorni la notizia che lo tsunami del 26 dicembre 2004 ha disseppellito dal fondo dell’Oceano Indiano fusti con tonnellate di rifiuti tossici europei (uranio, cadmio, mercurio, rifiuti ospedalieri e dell’industria farmaceutica), finendo col contaminare in modo grave le coste della Somalia, paese in cui il traffico di rifiuti tossici è già da alcuni anni tristemente noto.11)

Razzismo ambientale: case-studies.
I problemi della giustizia ambientale investono, dunque, tanto questioni di giustizia distributiva (equa distribuzione delle ricchezze naturali, equa fruizione di beni primari: acqua, aria, cibo non contaminati, ecc.), quanto questioni di giustizia partecipativa: non sempre coloro che subiscono i danni ambientali sono coinvolti nell’elaborazione di quelle linee politiche di cui sopportano gli effetti.12)
Ciò non avviene solo su scala globale, ma anche all’interno dei singoli paesi, e in questo gli Stati Uniti sono senz’altro l’osservatorio eco-sociale più interessante. Negli USA, infatti, tra gli effetti collaterali dell’industrializzazione, inquinamento da rifiuti tossici e discriminazione razziale, sociale ed economica sono spesso due facce della stessa medaglia. Ciò si esprime in forme di abuso (il più delle volte, da parte di grandi gruppi industriali), classificate come “razzismo ambientale” sin dagli anni ’80.
Anche qui siamo di fronte a una crisi di sovranità: esistono, cioè, fasce della popolazione, per lo più connotate da fattori etnici (nativi americani, ispanici, afro-americani, e altre minoranze), che vedono ridotto il proprio diritto a gestire i territori in cui vivono e lavorano. Per citare solo alcuni esempi: il fatto che in una città come Houston, Texas, dagli anni ’20 alla fine degli anni ’70, tutti gli impianti per il trattamento dei rifiuti solidi fossero situati in quartieri abitati da afro-americani (28% della popolazione);13) o che, nel 1975, il 100% dell’uranio prodotto nel paese provenisse da territori abitati da nativi, e che in questi stessi territori venisse per lo più lavorato;14) o ancora, che vi siano posti come Odessa, Texas, Love Canal, Stato di New York, o Time Beach, Missouri, in cui la popolazione (in prevalenza afro-americana) lotta da anni per vedersi riconosciuto il diritto a un ambiente non contaminato, rimettono in questione la reale validità del diritto di cittadinanza delle minoranze, evidenziando drammaticamente una presenza del Terzo Mondo nel cuore stesso di una delle società più ricche ed evolute. Pure emblematico è il caso degli scarichi industriali nelle acque dei fiumi maggiori: ad esempio, stati che si trovano a valle, lungo il corso del Missouri, sono sovraccarichi dei rifiuti industriali degli stati a monte; il basso Mississippi, altra area a popolazione per lo più afro-americana, è talmente contaminato da essere noto come “Cancer Alley” (“viale del cancro”): 130 chilometri di fiume (e territori circostanti) tra New Orleans e Baton Rouge, inquinati da oltre cento impianti, tra raffinerie petrolifere e stabilimenti petrolchimici.15)
Nella maggior parte dei casi si verifica una ovvia sovrapposizione tra minoranze etniche e strati sociali disagiati. Questo spiega perché a essere colpite siano, in genere, le fasce più “ricattabili”: non deve stupire che i nativi americani considerino economicamente vantaggioso accogliere nei propri territori la costruzione di discariche per le scorie delle centrali nucleari del paese. O che comunità povere possano essere messe nella condizione di dover accettare “pacchetti” che prevedono posti di lavoro e supporto finanziario, a patto però di ospitare siti per rifiuti tossici, della cui effettiva pericolosità spesso non sono neanche informate. Un esempio: come compenso per il sito della “Cadillac delle discariche radioattive” a Emelle, Alabama, la Chemical Waste Management aveva assicurato quattrocento posti di lavoro e il sostegno a progetti di sviluppo per diversi milioni di dollari. Nonostante ciò, tuttavia, la comunità non era stata coinvolta nei negoziati che avevano portato a questo “scambio”. Al contrario, i cittadini non erano neanche a conoscenza che la discarica esistesse, ed erano state messe in giro voci secondo cui si trattava solo di una fabbrica di mattoni.16)
Infine, occorre ricordare che un’ulteriore forma di “inquinamento” su base socio-razziale è quella legata alle prigioni di stato. Aldilà del valore simbolico (come scrive Zygmunt Bauman, la prigione “è un laboratorio della ‘società globalizzata’” in cui “si mettono a punto le tecniche con cui confinare nello spazio i rifiuti e la feccia della globalizzazione”17)), le prigioni di stato sono un grande business: 147 miliardi di dollari all’anno. Negli ultimi vent’anni il governo USA ha costruito più carceri che in tutta la storia americana. Il loro impatto socio-ambientale è analogo, per la vita di una comunità, a quello degli impianti di smaltimento dei rifiuti tossici. Questo perché, anzitutto, la scelta del sito (spesso accompagnata dalla promessa di favorire l’indotto economico) cade su comunità con le stesse caratteristiche etniche e sociali di quelle fin qui esaminate; e poi perché la prigione cancella il volto del territorio, assorbendone le risorse (acqua, energia elettrica, ecc.) e ricadendo sulla comunità sotto forma di esternalità (costi per strade, per fognature, e servizi vari). A ciò si aggiunge l’inquinamento atmosferico dovuto al flusso automobilistico dei pendolari e favorito dalla costruzione di più fitte reti stradali, la devastazione delle aree locali, e spesso un’ulteriore frammentazione del tessuto sociale: tutti elementi, questi, che portano a considerare le prigioni di stato come veri e propri “disastri sociali e ambientali”.18)

Razzismo ambientale: indagini sociologiche e caratteri generali.
Quando si è cominciato a parlare di razzismo ambientale? La prima indagine ad ampio raggio sui rapporti tra la dislocazione di siti di smaltimento per rifiuti tossici e la composizione etnica e socio-economica delle comunità prescelte risale al 1987, ed è il Report della Commissione per la Giustizia Razziale della United Church of Christ (Rifiuti tossici e razza negli Stati Uniti. Rapporto nazionale sulle caratteristiche razziali e socio-economiche delle comunità con siti di smalitimento per rifiuti tossici). Si tratta di un documento di estrema importanza, non solo per il rigore dell’analisi, ma anche perché ha avuto il merito di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica e delle parti sociali sul tema che affronta. Il Rapporto evidenza, in generale, una realtà drammatica: “più della metà della popolazione degli Stati Uniti [vive] in aree di residenza locali con uno o più siti tossici non protetti”. Ma ancor più grave è il fatto che “su cinque afro- o ispano-americani, tre [vivono] in comunità con siti tossici non protetti”. E non si tratta di casualità, ma piuttosto di sistematiche scelte economico-politiche: la ricerca ha infatti provato che “rispetto ad altri fattori esaminati, la razza [è] un fattore di gran lunga predominante nella collocazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali”. A conferma di ciò, “[a]ssociazioni statistiche tra la razza e la collocazione di questi impianti si sono dimostrate più consistenti delle altre associazioni testate. La probabilità che si tratti di un’associazione puramente casuale è meno di una su diecimila”.19) [leggi un estratto del Report]
Di qui, la definizione di razzismo ambientale come “discriminazione razziale nelle politiche ambientali, e ineguale applicazione di leggi e misure in materia ambientale; [...] il colpire deliberatamente la popolazione di colore per la collocazione di discariche per rifiuti tossici; [...] l’autorizzare ufficialmente la presenza di veleni e di inquinanti mortali nei siti di smaltimento di rifiuti tossici collocati presso comunità di colore; [...] la storica esclusione di persone afro-americane dalla leadership del movimento ambientalista”.20) Alla negazione di entrambi i livelli fondamentali della giustizia, quello distributivo e quello partecipativo, si unisce pertanto, come vedremo meglio, anche la negazione di un’equa applicazione di misure legislative.
Il Report della United Church of Christ nasce in seno a un’istituzione nota per il forte impegno sociale a favore delle minoranze. Tuttavia, a conclusioni analoghe erano pervenute già alcuni anni prima ricerche meno “filantropiche”. Un rapporto dell’Ufficio Contabile Generale del governo degli Stati Uniti, per esempio, aveva evidenziato sin dal 1983 la stretta correlazione tra i luoghi preposti allo smaltimento dei rifiuti tossici e le connotazioni razziali e socio-economiche degli abitanti.21) E nel 1985, una ricerca del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, il cosiddetto Rapporto Heckler, era stato esplicito sull’eccessivo indice di mortalità nelle comunità etniche.22) Non si era parlato, in quei casi, di razzismo. Ma, pure, la corrispondenza tra inquinamento e gruppi etnici era una delle costanti che si imponevano con maggiore evidenza.
La verità è che non si può denunciare il fenomeno senza rivendicare una chiara presa di posizione politica. La stessa premessa del Rapporto della United Church of Christ si basa infatti su una definizione di razzismo espressa in termini nettamente politici: razzismo è infatti “l’uso intenzionale o non intenzionale del potere per isolare, separare e sfruttare altre persone [...] rafforzato e sostenuto da istituzioni legali, culturali, religiose, educative, economiche, politiche, ambientali e militari di una società”.23) Ancora più deciso nelle sue denunce è, allora, il sociologo afro-americano Robert D. Bullard, lo studioso più accreditato del fenomeno, e insieme attivista nei movimenti per la giustizia ambientale [leggi il testo di un’intervista a Bullard].24) Bullard mette in evidenza la profonda continuità tra i movimenti contro il razzismo ambientale e le battaglie per i diritti civili delle minoranze. Per lui “razzismo ambientale” equivale infatti a “ogni politica, pratica o direttiva ambientale i cui effetti (intenzionalmente o meno) investano in maniera differente o svantaggino individui, gruppi o comunità basate sulla razza o sul colore della pelle”25). Le condizioni ricorrenti nei casi di razzismo ambientale includono in genere i punti che seguono:

  1. applicazione diseguale di leggi a tutela dell’ambiente, dei diritti civili e della salute pubblica;
  2. diverso grado di esposizione di talune popolazioni ad agenti chimici dannosi, pesticidi e altre tossine, nelle abitazioni, nelle scuole, nei quartieri di residenza, nei luoghi di lavoro;
  3. assunti di base fallaci nella previsione, nella valutazione e nella gestione dei rischi;
  4. scelta del sito e uso del territorio basati su parametri discriminatori;
  5. pratiche di esclusione che limitano la partecipazione di individui e di gruppi ai processi decisionali.26)

Dalle parole di Bullard emerge un ulteriore elemento. È interessante, infatti, che nelle informazioni date alle comunità scelte per i siti, non solo vengano esagerati i vantaggi, ma soprattutto siano minimizzati i rischi (emblematico il caso di Emelle); e ciò è una prassi sistematica, come dimostrano anche gli studi di Daniel Wigley e Kristin Shrader-Frechette.27)
Alla sottovalutazione dei rischi corrisponde, come si accennava, una inadeguata sanzione delle pratiche inquinanti. Così riferisce, ad esempio, un articolo apparso sul National Law Journal: “C’è una distinzione razziale nel modo in cui il governo degli Stati Uniti bonifica i siti tossici e punisce gli inquinatori. Le comunità bianche vedono un’azione più rapida, risultati migliori e pene più severe delle comunità in cui vivono neri, ispanici e altre minoranze. Questa tutela diseguale spesso si manifesta indipendentemente dal fatto che le comunità siano ricche o povere”.28) Anche il fatto che le sanzioni siano minori è un segno di discriminazione sociale. In questo modo, infatti, i reati contro l’ambiente sono sì puniti, ma non massicciamente scoraggiati. Come a dire: a parità di reato ambientale, nelle comunità ricche, chi inquina fa un danno grave, e paga di più; nelle comunità povere, fa un danno meno grave, e paga di meno. Ossia: nelle comunità più povere, all’ambiente e ai diritti ambientali (salute, protezione del paesaggio, ecc.) è attribuito un valore inferiore rispetto alle comunità più ricche. Questo contribuisce a una “protezione diseguale” dei cittadini, a vantaggio degli interessi delle industrie che scaricano i loro rifiuti nei territori discriminati. È quanto è avvenuto, per esempio, a Odessa, Texas, tra il 1998 e il 2000. A causa di danni a un impianto petrolchimico, la popolazione è stata sottoposta per settimane a esalazioni di tonnellate di benzene, etilene, propilene e butadiene, riportando una serie di disturbi poi riuniti sotto la definizione di “sindrome di Odessa” (gravi patologie croniche, tra cui problemi respiratori, infiammazioni oculari, emorragie; è superfluo osservare che tutte le sostanze esalate erano cancerogene). Nonostante le battaglie legali, non si è riuscito a ottenere per il petrolchimico altra sanzione che una multa di 4500 dollari, né un’assunzione di responsabilità da parte dell’allora governatore George W. Bush.29)

Visibilità del dissenso. Da NIMBY a PIBBY.
Appellarsi a principi di giustizia ambientale, si diceva, equivale già di per sé a prendere una posizione politica. Tuttavia, quando si tratta del razzismo ambientale, e dei diritti di minoranze spesso escluse dalla pratica partecipativa (il decision-making) di quella giustizia, il discorso si fa più spinoso. Occorre, perciò, fare un passo indietro, e analizzare separatamente le forme di dissenso e le denunce di razzismo ambientale.
Ogni volta che si parla di movimenti di dissenso verso le politiche economiche che danneggiano l’ambiente e minacciano le condizioni di vita, viene in mente un acronimo: “NIMBY”. È, questo, un tema spesso oggetto di discussioni trasversali e contro-informazione: già da alcuni anni, infatti, si ironizza su una “sindrome NIMBY”. Tale “sindrome” è descritta come un atteggiamento di paura e ferma resistenza di fronte al rischio che l’area in cui si vive sia contaminata da impianti di smaltimento di rifiuti. “NIMBY” è infatti l’acronimo di “Not In My Backyard”, “non nel mio cortile”. È evidente che parlare di una “sindrome”, e definire quasi una forma di paranoia sociale quelli che sono legittimi atti di dissenso per scelte ambientali spregiudicate, è frutto di una precisa linea politico-economica. Si fa passare per egoisti coloro che rifiutano di rendere un servigio alla comunità dando il loro contributo alla realizzazione del benessere comune: un benessere che passerebbe proprio, in certi casi, per la costruzione di impianti industriali dall’impatto ecologico non proprio innocuo, ma tuttavia utilissimi per la crescita economica del territorio.
In realtà, le proteste NIMBY sono fondamentali per mobilitare l’opinione pubblica sulle condizioni ecologiche di una regione, su politiche economiche spesso ciniche, e su questioni di giustizia ambientale. Ciò nonostante, questo tema fornisce lo spunto per una riflessione ulteriore. Anche nella consapevolezza intorno a certe tematiche (e nella possibilità di sottrarsi al ricatto del miglioramento economico) sta infatti un’altra linea di demarcazione sociale. È allora lecito supporre che il residente medio di Manhattan o di Beverly Hills, per lo più bianco, ben scolarizzato, con un reddito individuale medio-alto, abbia una “coscienza ecologica” più sviluppata e un grado di “ricattabilità” inferiore rispetto all’abitante dei territori industriali della Lousiana o del Missouri, per lo più nero o ispanico, poco scolarizzato, e con un reddito inferiore alla media nazionale.30) Quindi, paradossalmente, spesso i movimenti NIMBY finiscono involontariamente per fare il gioco dei gruppi industriali e delle lobbies che decidono di andare a inquinare laddove è più facile vincere le resistenze locali.
Questa distinzione sociale nel cuore stesso dei movimenti di protesta, e il fatto che siano più recenti e rare le forme di dissenso dagli strati bassi della popolazione, vengono ironicamente sottolineati da un altro acronimo: “PIBBY”, ovvero, “Put it in blacks backyard” (“Mettetelo nei cortili dei neri”).31)
È ovvio che se le manifestazioni di protesta, all’interno delle comunità di colore, appaiono meno forti, ciò non significa che i problemi dell’ambiente siano meno avvertiti ma, piuttosto, che non sussiste, in quel tessuto sociale, la possibilità concreta di esprimersi ai livelli più elevati della vita politica. Spesso, infatti, capovolgendo la realtà di un’esclusione sociale e culturale, il fatto che ci siano pochi neri e/o ispanici rappresentati nei movimenti di protesta è stato addirittura additato come un segno di cronico disinteresse.32) Più in generale, l’effetto derivante dall’esclusione (bassa autostima, apatia, passività, ecc.) viene colpevolmente indicato da chi esclude come la causa dell’esclusione stessa.
Questo ci dice anche un’altra cosa. E cioè che, nelle comunità discriminate, la prima lotta dei movimenti per la giustizia ambientale è, esattamente come nei casi di razzismo ambientale, una lotta per la visibilità.

Diritti civili e giustizia ambientale. La manifestazione del dissenso nelle comunità discriminate.
Il movimento di giustizia ambientale ha una storia piuttosto recente, ma le sue radici ci sospingono indietro di qualche decennio. Infatti, prima degli studi specialistici e dei reports sociologici, ad attrarre l’attenzione su questi problemi sono stati principalmente movimenti popolari e forme di protesta non violente nate in seno alla società civile, che hanno visto unirsi sotto lo stesso fronte le battaglie per l’ambiente e quelle per i diritti fondamentali.33) Il tema del razzismo ambientale, per esempio, ha una sua preistoria nelle proteste che, negli anni sessanta e settanta, molti leaders del movimento dei diritti civili, da Martin Luther King a Cesar Chavez e gli United Farm Workers, avevano messo in atto per denunciare che afro-americani e ispanici erano sottoposti a livelli superiori di inquinamento e di degrado.34
Per la nascita ufficiale dell'Environmental Justice Movement bisogna però aspettare il 1982. Il caso della comunità di Afton, nella contea di Warren (North Carolina), rappresenta infatti la prima forma di mobilitazione pubblica contro una situazione di razzismo ambientale. All’inizio degli anni ’80, l’84% della popolazione di Afton era di colore, con una piccola minoranza costituita da nativi americani. La contea di Warren aveva la più alta percentuale di abitanti di colore dell’intero stato del North Carolina, ed era la seconda per livello di povertà, con un tasso di disoccupazione del 13,3%. Nel 1982, a seguito della presentazione di un progetto ad alto impatto per un sito di smaltimento per policlorurato di difenile, Charles E. Cobb, uno dei responsabili della Commissione per la Giustizia Razziale della United Church of Christ, denunciò le condizioni di inquinamento dei luoghi abitati dalla comunità di colore. Le manifestazioni non violente e le campagne di informazione promosse da Cobb fecero emergere abusi industriali e ambientali che, se pure non impedirono del tutto la costruzione della discarica, portarono all’arresto di più di cinquecento persone.
Un altro caso significativo è quello, più recente, della Claiborne Parish, in Lousiana.35) Sin dal 1989 la Nuclear Regulatory Commission [Commissione regolatrice per l’energia nucleare] aveva autorizzato la Lousiana Energy Services a costruire il primo impianto privato per l’arricchimento dell’uranio (avrebbe dovuto produrre il 17% dell’uranio arricchito statunitense. E di lì a poco, con la prima guerra nel Golfo alle porte, questa produzione avrebbe senz’altro potuto tornare utile). Dopo molte ricerche, si decise di situare l’impianto nell’area della Claiborne Parish. Ma stavolta le resistenze furono potenti: i residenti si organizzarono in un comitato (il CANT, Citizens Against Nuclear Trash [Cittadini Contro l’Immondizia Nucleare]) che, con il supporto economico e legale del Sierra Club, intentò una causa ai danni della Lousiana Energy Services. Dopo otto anni di processo, i giudici conclusero che “pregiudizi razziali avevano influito sui criteri di selezione”.36) E i dati erano chiari: a fronte di una media nazionale del 13%, gli afro-americani nella Claiborne Parish erano il 46%; in particolare, nel raggio di un miglio dall’impianto, la percentuale cresceva fino al 97,1 %. Altri dati riguardavano il reddito: contro una media nazionale di 12800 dollari annui pro capite, nel sito prescelto la media era di 5800 dollari, e oltre il 58% della popolazione afro-americana viveva sotto la soglia della povertà.37) Nel 1998, il CANT vinse la causa. I territori dove doveva sorgere l’impianto sono stati restituiti alla loro destinazione originaria: la produzione di legname.
La nascita del movimento per la giustizia ambientale, e gli esempi di Afton e della Claiborne Parish, dimostrano come sia stato possibile, benché non semplice, che le rivendicazioni sulla qualità ambientale fuoriuscissero dal dominio esclusivo delle classi medio-alte. In casi come questi, il fatto che l’opinione pubblica potesse essere sensibilizzata attraverso conferenze, proteste, pubblicazioni accademiche e mobilitazioni popolari, ha condotto anche a risultati significativi sul piano politico. Non a caso, il rapporto dell’Ufficio Contabile Generale (1983) e quello della United Church of Christ (1987) ricevono un impulso decisivo proprio dai fatti di Afton.
Tutto ciò ha contribuito a rafforzare la coscienza del potenziale politico delle minoranze etniche. Un passo importante in questa direzione è il Primo Summit Nazionale della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente (1991), in cui si elabora una piattaforma di diciassette Principi di Giustizia Ambientale. Si afferma qui la necessità che “le politiche pubbliche siano basate sul reciproco rispetto e sulla giustizia per ogni cittadino, aldilà di ogni forma di discriminazione o preconcetto” (principio 2), il richiamo “a una protezione universale contro i test nucleari, contro l’estrazione, la produzione e la discarica di rifiuti tossici e nocivi” (principio 4), “il diritto fondamentale all’autodeterminazione politica, economica, culturale e ambientale di ogni cittadino” (principio 5), “il diritto delle vittime di casi ingiustizia ambientale a ricevere pieno risarcimento per i danni subiti, nonché cure mediche di qualità” (principio 9) [leggi il testo completo dei Principi di Giustizia Ambientale].38) L’eco dei Principi (alla cui stesura collabora anche Bullard) si avverte anche nella Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, elaborata a seguito del summit ONU sull’ambiente nel 1992, e nell’importante e più recente Carta della Terra (2000), altro documento patrocinato dall’ONU e sottoscritto da cinquantatré paesi.39)
Fondamentale è che queste proteste abbiano avuto notevoli ripercussioni sul piano politico-normativo. Nel 1990, infatti, l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA) [Environmental Protection Agency: equivalente statunitense del nostro Ministero dell’Ambiente], ha pubblicato Environmental Equity: Reducing Risk for All Communities [Equità ambientale. La riduzione del rischio in tutte le comunità], un rapporto finalmente focalizzato sulla gestione politica e amministrativa dei casi concreti di giustizia ambientale, e nel 1993 ha istituito una Commissione di Equità Ambientale (ora Commissione di Giustizia Ambientale).
L’atto culminante di questa nuova linea è stato però l’Ordine Esecutivo 12898, Federal Actions to Address Environmental Justice in Minority Populations and Low-Income Populations [Azioni federali volte a perseguire la giustizia ambientale presso le minoranze etniche e le fasce meno abbienti della popolazione], emanato dal presidente Bill Clinton l’undici febbraio 1994: un provvedimento legislativo che impone la formazione di commissioni federali, la cooperazione tra ministeri, un adattamento delle linee di politica ambientale, l’applicazione di leggi sul diritto dei cittadini all’informazione, revisione giudiziaria dei processi, e sostegno a ricerche in materia socio-ambientale. Dalla promulgazione dell’Ordine Esecutivo 12898, molti casi di giustizia ambientale sono stati classificati dall’EPA sotto il Titolo VI dell’Atto Federale per i Diritti Civili del 1964. Provvedimenti come questo sono indispensabili per una riconsiderazione politica del problema, anche se è evidente che in molti casi (uno per tutti: Odessa) non vi è stata un’adeguata corrispondenza nelle misure applicative, né sempre una vera coerenza legislativa. Bisogna infatti ricordare che nell’aprile 2001 (sotto l’amministrazione Bush: la stessa che, sul versante ambientale, ha disconosciuto gli accordi di Kyoto) la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che i privati cittadini non possono citare in giudizio stati dell’Unione, appellandosi al Civil Right Act del 1964. Si presume che questa decisione rappresenterà alla lunga un limite per le cause di giustizia ambientale.40) Ma gli effetti di queste politiche sono ancora, per il momento, in fase di studio.

Conclusioni. Rifiutare un paradigma culturale.
Da quanto si è appena detto, sono due gli elementi che si impongono alla riflessione. Il primo è che esiste la possibilità di una reazione a pratiche discriminatorie sociali e razziali; questa reazione sta nel progressivo farsi visibile dei movimenti di giustizia ambientale, le cui rivendicazioni vengono talora accolte dal legislatore. Il secondo, invece, ci risospinge a un livello più profondo del problema: un livello meno facilmente attaccabile, fatto di resistenze culturali, e a fortiori politiche, le quali tendono a perpetuare lo status quo, confidando nel fatto che le leggi sono consegnate, per la loro applicazione, alla società, e che questa le applica non senza filtrarle attraverso gli atteggiamenti mentali e i modelli culturali di cui è profondamente intrisa. In altre parole, perché vi sia un’autentica effettività nella lotta alle discriminazioni (e una valida sanzione giuridica dei comportamenti che le esprimono) non è sufficiente che vi sia un incontro occasionale tra le richieste “dal basso” e i provvedimenti “dall’alto”: è necessario, piuttosto, un cambiamento culturale profondo, che investa la società nel suo complesso e che generi, direbbe Thomas Kuhn, un vero e proprio mutamento di “visione del mondo”.41) Occorre, cioè, una “rivoluzione culturale” che parta dai nodi della società e dell’ambiente. In una società evoluta, infatti, il rispetto dell’ambiente e la messa in discussione delle gerarchie sociali sono due fattori essenziali e interdipendenti. Da questo punto di vista, un atteggiamento anti-classistico (e anti-razzistico) richiama l’idea di un valore comunitario della differenza, di un’egualitarismo che trasformi le discriminazioni nella dialettica tra diverse funzioni sociali e culturali.42) Segnali molto incoraggianti in questo senso vengono, tra l’altro, dagli studi di Ronald Inglehart e dalle stime delle World Values Surveys. Vi si evidenzia come, calato in forme che non passano attraverso le strutture tradizionali della politica, stia progressivamente prendendo piede un modello alternativo di “cittadinanza sociale”, in cui, contro l’individualismo materialistico del XX secolo, prevalgano valori legati alla vita collettiva, all’ambiente, all’azione condivisa. È questa la “rivoluzione silenziosa” della società e dei suoi modelli culturali che, secondo Inglehart, caratterizza lo scenario del XXI secolo.43)
In Le parole e le cose, Michel Foucault insiste sul fatto che l’uomo “non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere”.44) Vero è che le pratiche di esclusione sociale, ci fanno pensare come in realtà questa stessa nozione sia lungi dall’essere universale. Anzi, sembra quasi che tale “figura dello spirito”, nel suo chiudersi su se stessa, cospiri all’autodistruzione, a lasciarsi cancellare, “come sull’orlo del mare un volto di sabbia”.45)
Tra le pratiche di esclusione sociale, che sono forse più antiche del concetto di uomo, il razzismo è l’istituzionalizzazione culturale di una forma di gerarchia sociale. Un atteggiamento ideologico, basato su costrutti linguistici artificiali come “tradizione”, “etnicità”, “razza”:46) parti di un discorso che s’impone come un modo normativo di presentare le dicotomie, mentre in realtà legittima pratiche di sfruttamento legate alla crescita del profitto economico (favorita, dovunque vi sia la possibilità di ottenere manodopera sottopagata o non pagata affatto: e in questo senso, la schiavitù è la forma più redditizia di razzismo).47) Il razzismo ambientale, proprio perché esprime un’ideologia del rifiuto di un gruppo dominato, attraverso la pratica “orientata” di smaltimento dei rifiuti da parte di un gruppo dominante, è un’eloquente metafora dell’esclusione, della “tendenza ad associare persone che sono diverse con la degradazione”.48) Se coloro che sono discriminati per motivi razziali sono respinti, relegati ai margini, rifiutati dal gruppo dominante, è quasi legittimo, per questo stesso gruppo dominante, scaricar loro addosso, fisicamente, i propri rifiuti. Ancor di più, se si può ricavare da ciò un profitto economico.
Questo atteggiamento rispecchia, però, anche una visione “razzistica” nei confronti dell’ambiente e della natura. Tra le innumerevoli forme di sopraffazione (che si possono sintetizzare nel predominio del bianco sul nero, del colonizzatore sul colonizzato, delle classi più ricche su quelle più povere, del maschile sul femminile ecc.),49) il dominio della natura è quello le cui conseguenze ricadono in maniera più distruttiva su chi lo esercita. Non occorre scomodare Barry Commoner e la sua prima legge dell’ecologia (“ogni cosa è connessa a tutte le altre”),50) per capire che nell’ambiente vale il principio del domino: la natura è lo scenario comune della vita di tutti gli esseri umani e non umani, e come non è pensabile tener soggiogata gran parte dell’umanità perché smaltisca i rifiuti del mondo industrializzato e favorisca così la sua crescita economica, così non è pensabile che si continui a infliggere danni all’ambiente globale senza che siano tutti, ma proprio tutti, a pagare.51)
In una società che si vuole avviata al superamento delle categorie tradizionali, e che chiama se stessa “complessa”, “post-moderna”, “post-industriale”,52) è necessario, come scrive Cornel West, legare “la vita della mente al cambiamento sociale”.53) Questo significa lasciare che la società parli linguaggi alternativi, che discuta e superi i “valori della tradizione”, se questi valori santificano atteggiamenti usurpatori.54) Significa avere chiara l’esigenza che, anche dal punto di vista economico, lo sviluppo di strategie sostenibili è l’unica forma di crescita auspicabile; che il diritto a un ambiente non inquinato deve poter rientrare nelle costituzioni dei singoli paesi e tra i fondamentali diritti umani;55) e soprattutto significa creare i mezzi per dare alle risoluzioni in materia socio-ambientale una forza giuridica che le renda effettivamente esecutive e vincolanti. Tutto questo con un’idea di fondo: se non si procederà a mettere in evidenza che il dominio dell’uomo sull’uomo è strettamente connesso a quello dell’uomo sull’ambiente, e che la prima forma di razzismo è proprio nella nostra ignoranza degli equilibri ecologici, allora sarà difficile che l’umanità non finisca, in un senso più radicale di quello inteso da Foucault, tra i rifiuti della storia. E, soprattutto, senza troppi problemi di smaltimento.




Razzismo ambientale. documenti.

Memorandum di Lawrence H. Summers, capo-economista della Banca Mondiale (1991)

Il memorandum fu fatto girare alla fine del 1991, presumibilmente come direttiva riservata, negli ambienti della Banca Mondiale dal suo capo-economista. Esso è diventato di dominio pubblico dopo essere stato consegnato alla stampa da una fonte interna alla Banca Mondiale stessa.

Data: 12 Dicembre 1991
A: Distribuzione
Da: Lawrence H. Summers
Soggetto: GEP [sigla non definita: probabilmente “Global Environmental Pollution”: “Inquinamento ambientale globale”]
Industrie “sporche”: detto tra noi, non dovrebbe la Banca Mondiale incoraggiare di PIU’ la migrazione delle industrie sporche verso i PMS [paesi meno sviluppati]? Mi vengono in mente tre ragioni:

1. Le stime dei costi dell’inquinamento nocivo alla salute dipendono dai guadagni perduti a causa delle aumentate condizioni di mortalità e malattia. Da questo punto di vista una data quantità di inquinamento nocivo alla salute dev’essere destinata al paese con i costi minori, che sarà il paese con i salari più bassi. Ritengo che la logica economica implicita nello smaltire rifiuti tossici nel paese con i salari più bassi sia impeccabile, e che sia qualcosa con cui dobbiamo fare i conti.
2. È verosimile che i costi dell’inquinamento seguano un andamento non lineare, mentre l’incremento iniziale dei livelli di inquinamento ha, probabilmente, costi molto bassi. Ho sempre pensato che paesi sottopopolati dell’Africa siano di gran lunga SOTTOinquinati; certo, paragonata a Los Angeles o a Città del Messico, la qualità dell’aria, in questi paesi, è probabilmente molto bassa, e improduttivamente. Il fatto che molta parte dell’inquinamento sia generata [in Occidente] da industrie non esportabili (trasporti, produzione di energia elettrica) e che i costi del trasporto dei rifiuti solidi siano tanto alti, impedisce al benessere mondiale di crescere, favorendo un mercato dell’inquinamento ambientale e dello smaltimento dei rifiuti.
3. L’esigenza di un ambiente pulito per ragioni estetiche e sanitarie è verosimilmente soggetta ad avere profitti molto elastici. La preoccupazione per un agente inquinante che causi una minima variazione statistica nell’eventualità di cancro alla prostata è ovviamente destinata a essere molto più elevata in paesi dove la gente vive più a lungo, che non in un paese dove la mortalità sotto i cinque anni è di 200 casi su 1000. Quindi, molte delle preoccupazioni sugli scarichi atmosferici industriali riguardano la visibilità degli effetti dei particolati nocivi. L’impatto diretto di questi scarichi sulla salute può essere lieve. Mentre la produzione è mobile, il consumo di aria pulita non è commerciabile. Il problema con gli argomenti contro tutte queste proposte per incrementare l’inquinamento nei PMS (diritti intrinseci a determinati beni, ragioni morali, preoccupazioni sociali, mancanza di mercati adeguati, ecc.) potrebbe essere aggirato e usato più o meno vantaggiosamente nei confronti di ogni proposta bancaria di liberalizzazione.

[Fonte: Citato in Joseph DesJardin, Environmental Ethics. An Introduction to Environmental Philosophy, Toronto: Wadsworth-Thomson Learning, 3a ed. 2001, pp. 232-33. Trad. it. di Serenella Iovino]

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Rapporto della Commissione per la Giustizia Razziale, United Church of Christ (1987)

Dopo anni di ricerche, in parte sollecitate dai fatti di Afton (1982), la Commissione per la Giustizia Razziale della United Church of Christ stila il primo rapporto completo sulle inter-relazioni tra razza, status sociale e inquinamento ambientale negli USA. Si tratta ancora, a tutt’oggi, di uno dei punti di partenza indispensabili per chiunque affronti il problema del razzismo ambientale.

[...] Fino alla fine degli anni ’70, la maggior parte dei rifiuti tossici era smaltito senza nessuna considerazione dei rischi che ciò comportava. Non vi era, inoltre, alcuna cura specifica nei processi di produzione, conservazione e trasporto degli elementi tossici di origine chimica. La chiara mancanza di regole nella gestione dei rifiuti tossici ha determinato un’atmosfera permissiva per la creazione di discariche di rifiuti alle condizioni economicamente più vantaggiose. L’EPA [Environmental Protection Agency: equivalente del Ministero per l’Ambiente] ha riconosciuto che, fino a questo momento, dall’80 al 90% dei rifiuti tossici sono stati smaltiti senza adeguata salvaguardia della salute umana e dell’ambiente. [...] Lo studio descrittivo [...] ha trovato che più della metà della popolazione degli Stati Uniti viveva in aree di residenza locali con uno o più siti tossici non protetti. Lo studio ha anche trovato che, su cinque afro- o ispano-americani, tre vivevano in comunità con siti tossici non protetti. Il risultato dello studio suggerisce che il numero sproporzionato di persone di una particolare razza o gruppo etnico residenti in comunità con impianti per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali non è una eventualità casuale, ma un modello ricorrente. Associazioni statistiche tra la razza e la collocazione di questi impianti si sono dimostrate più consistenti delle altre associazioni testate. La probabilità che si tratti di un’associazione puramente casuale è meno di una su diecimila. È significativo che, rispetto ad altri fattori esaminati, la razza sia un fattore di gran lunga predominante nella collocazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali. Questo avviene chiaramente nel caso dello status socio-economico. La relazione più stringente tra lo status socio-economico e la collocazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali si è evidenziata dopo accurati controlli sulle differenze regionali e sull’urbanizzazione. Il bilancio familiare e il valore delle case erano notevolmente più bassi quando le comunità con siti di smaltimento dei rifiuti tossici venivano paragonate a comunità della stessa area geografica prive di questi siti. Il bilancio familiare medio e il valore medio delle abitazioni [...] erano inferiori, rispettivamente, di 2745 dollari, e di 17301 dollari. [...] È chiaro da queste ricerche che, aumentando in una comunità il numero dei residenti di razza e etnia diversa, aumenta anche la probabilità che si verifichi una qualche forma di attività legata allo smaltimento dei rifiuti nocivi. Le implicazioni di questa conclusione sono serie. Il Rapporto Heckler56) ha fornito i dettagli sulle morti eccessive di afro-americani e di altri gruppi razziali o etnici in questo paese. La presenza di siti di smaltimento per rifiuti tossici serve solo a rendere più complesso il problema. Poiché molti impianti e siti senza salvaguardia sono di solito collocati in quelle aree urbane dove risiede un gran numero di americani di diversa razza ed etnia, i rischi potenziali causati da perdite durante il trasporto, da esplosioni, da emissioni tossiche e da contaminazioni delle falde acquifere colpiscono nella maniera più dura quegli stessi gruppi razziali ed etnici che sono considerati “a rischio” quando si parla di salute e benessere. [...]

[Fonte: Commission for Racial Justice, United Church of Christ, Toxic Wastes and Race in the United States: A National Report on the Racial and Socio-Economic Characteristics of Communities with Hazardous Waste Sites, New York, Public Data Access, 1987, pp. 3, 13, 15-16, 17. Trad. it. di Serenella Iovino]

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Giustizia e razzismo ambientale. Intervista a Robert D. Bullard [*] (1999)

Intervista di Errol Schweizer per la rivista ambientalista “Earth First! Journal” – luglio 1999

Errol Schweizer (ES): Che cos’è il movimento di giustizia ambientale?

Robert Bullard (RB): Il movimento di giustizia ambientale ha sostanzialmente ridefinito gli obiettivi dell’ambientalismo. Esso ci dà la definizione primaria di quel che è ambiente: il luogo in cui viviamo, lavoriamo, giochiamo, andiamo a scuola, e insieme il mondo fisico e naturale. Per questo, è impossibile separare l’ambiente fisico dall’ambiente culturale. Occorre discutere sull’opportunità di assicurarsi che criteri di giustizia siano parte integrante di tutto ciò che facciamo.

ES: Come si sono organizzati i gruppi di giustizia ambientale?

RB: Per la maggior parte, un gran numero di organizzazioni di cittadini opera secondo un modello di azione popolare. Queste organizzazioni non hanno veri e proprie cabine di comando, grossi budgets e ampio staff, ma operano con l’idea che ognuno abbia un ruolo, e che, uniti in questo progetto, tutti noi siamo uguali. I gruppi di giustizia ambientale sono più egualitari, e la maggior parte di essi è guidata da donne, il che ne fa istituzioni più democratiche. Non dico che si tratti di organizzazioni perfette, ma alla loro base c’è l’idea che il potere debba essere nelle mani di tutti, e che quando agiamo come un corpo collettivo, questo potere si accresca. Avanziamo uniti, come un organismo, non necessariamente con una gerarchia. Ma penso che gran parte di ciò dipenda dalla possibilità di sollevare questioni in grado di mobilizzare, organizzare e catalizzare migliaia di persone in una manifestazione. Ciò ci spinge a lottare per i nostri obiettivi, e a non recedere prima di averli raggiunti.
Ritengo inoltre che questo elemento faccia del movimento di giustizia ambientale un movimento di azione popolare formato da gente comune, persone che magari non si identificano con gli ambientalisti tradizionali, ma che sono impegnate nella difesa dell’ambiente esattamente come un membro del Sierra Club o della Audubon Society.

ES: Come è è arrivato il movimento di giustizia ambientale a confliggere con queste organizzazioni ambientalistiche, tradizionali e “bianche”?

RB: C’è stata una lunga serie di conflitti e malintesi su quale fosse il ruolo di alcuni gruppi verdi, in relazione alla giustizia ambientale, specie lavorando in comunità di colore. E quel che stiamo dicendo è che c’è solo un ambiente. Parlo della terra, dove viviamo; e in effetti, se ci stiamo muovendo verso la costituzione di un movimento globale di giustizia ambientale, dobbiamo capire che cosa significa “ambiente” e quali sono le priorità da mettere in agenda. Numerosi movimenti popolari e comunità di colore sostengono che dobbiamo lavorare nelle nostre comunità, e farci carico di dare educazione e forza politica alla nostra gente, prima di poter parlare di avere altre persone che facciano qualcosa per conto nostro. Penso che, in generale, molte organizzazioni popolari siano arrivate a confrontarsi con diversi gruppi più grandi, che non avevano esattamente compreso che cosa si intende per giustizia ambientale.
Noi diciamo che la giustizia ambientale incorpora l’idea che ci si preoccupi, certo, per il destino di paludi, uccelli e aree incontaminate, ma anche per gli habitat urbani, le condizioni dei quartieri in cui la gente vive, le riserve, le vicende che accadono lungo il confine tra USA e Messico, i bambini avvelenati dal piombo nelle loro case, e i ragazzi che giocano fuori casa, in spazi contaminati. Dobbiamo quindi lottare affinché tali questioni siano visibili anche per i grandi gruppi ambientalisti. Abbiamo fatto notevoli progressi dal 1990, quando, guardando ai loro staff e ai loro quadri dirigenti, abbiamo pubblicamente accusato questi gruppi di razzismo ambientale, di elitismo, e li abbiamo invitati a un confronto. Da allora si sono avute occasioni di dialogo, scambio e collaborazione. Abbiamo fatto progressi, ma c’è ancora molto da fare, poiché il movimento ambientalista in senso lato, e cioè il movimento volto per lo più alla tutela dell’ambiente naturale, rispecchia davvero la società nel suo complesso. E la società è razzista. Perciò, non possiamo aspettarci che le nostre organizzazioni non siano anch’esse influenzate da questo stato di cose. Non stiamo dicendo che le persone sono malvage e che queste organizzazioni sono state messe in piedi per danneggiarci, ma stiamo dicendo che dobbiamo educare noi stessi e imparare a conoscerci reciprocamente. Dobbiamo varcare i confini e andare dall’altro lato della strada, uscire dalle periferie e partecipare alle manifestazioni cittadine, imparare gli uni dagli altri. È quello che stiamo cercando di fare da vent’anni: cercare un piattaforma comune su cui lavorare insieme, dandoci dei principi. Nel 1991 abbiamo avuto il Primo Summit Nazionale della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente, e abbiamo sviluppato 17 principi di giustizia ambientale. Il problema fondamentale è questo: come possiamo noi, in quanto gente di colore, appartenenti alla classe operaia e poveri, lavorare su agende d’azione politica che nello stesso tempo possono entrare in conflitto con le agende più ampie dei grandi gruppi. E quello che stiamo dicendo è che possiamo non essere d’accordo su tutto, ma certo sono più le cose su cui siamo d’accordo, che quelle su cui non lo siamo. E penso che questo accordo vada rafforzato, per poter tanto lavorare su ciò che ci unisce, quanto superare ciò che ci divide.

ES: Qual è stato il ruolo della razza nella collocazione dei siti di smaltimento per rifiuti tossici, negli Stati Uniti?

RB: La razza continua a essere il fattore dominante per predire dove verranno destinati i siti per gli Usi del Territorio Localmente Indesiderati (LULUs: Locally Unwanted Land Uses). Molti sostengono che pesi di più la classe sociale, ma razza e classe sono fattori interdipendenti. Proprio perché la società è così razzista e perché il razzismo tocca ogni istituzione (impieghi, alloggi, formazione, dislocazione dei servizi, destinazione d’uso del territorio), non è realmente possibile eliminare il fattore razziale dalle decisioni prese da persone che hanno il potere di farlo. Gli accordi di potere sono, da questo punto di vista, iniqui. Il razzismo esiste “istituzionalmente” nelle politiche ambientali, nell’applicazione della legge, nella gestione del territorio, nella distribuzione delle aree urbane, e così via. Sono tutte questioni legate all’ambiente, e dobbiamo assicurarci che ciò venga compreso dai nostri fratelli e sorelle che lavorano nei gruppi ambientalisti.
La giustizia ambientale non è un programma sociale, non è affirmative action [misura che garantisce pari opportunità ai gruppi etnici], ma è una questione di giustizia. E finché non avremo giustizia nella protezione dell’ambiente, giustizia in termini di applicazione delle leggi, non potremo neanche iniziare a parlare di sviluppo sostenibile o sollevare questioni sulla sostenibilità. I tanti gruppi che cercano di sollevare tali questioni senza un reale confronto con il problema razziale si ingannano da soli. Quando parliamo di quanto succede lungo il confine con il Messico, delle colonias e delle maquilas, della devastazione che colpisce quei luoghi, delle condizioni di salute dei bambini e dei lavoratori [Bullard si riferisce agli effetti del NAFTA, North American Free Trade Agreement], non comprendiamo che tutto ciò è collegato ai nostri modelli di consumo, e al fatto che chi ha più soldi consuma di più. Queste sono questioni che possono apparire impopolari, quando siamo seduti in una stanza a fare conversazione, ma io penso che questo sia esattamente il modo in cui il movimento di giustizia ambientale sta spingendo questi problemi sul tappeto, costringendo moltissime persone a riflettere su come si possa iniziare a denunciare le disuguaglianze e le iniquità, e insieme la posizione privilegiata che alcuni occupano solo in virtù del colore della loro pelle. È qui che occorre fare i conti con le questioni della giustizia. Ora, tutte le problematiche legate al razzismo e alla giustizia ambientale non riguardano solo ed esclusivamente persone di colore. Noi ci preoccupiamo allo stesso modo, per esempio, delle iniquità ambientali nella regione dei monti Appalachi, dove i bianchi sono colpiti dall’inquinamento, essenzialmente perché non hanno alcun peso sul piano economico e politico, e perché non hanno alcuna voce per esprimere il proprio dissenso: e questa è ingiustizia ambientale. Stiamo quindi cercando di lavorare con gruppi che attraversano l’intero spettro politico: democratici, repubblicani, indipendenti, siano essi nelle riserve, nei barrios, nei ghetti, dentro e fuori i confini nazionali, per vedere di affrontare tali questioni nella maniera più ampia possibile. [...]

[Fonte: Earth First! Journal, luglio 1999, on-line: http://www.ejnet.org/ej/bullard.html (consultato il 10 marzo 2005). Il testo dell’intervista non è coperto da copy-right. Trad. it. di Serenella Iovino]

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Primo Summit Nazionale della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente (1991): Principi di Giustizia Ambientale.

I diciassette Principi di Giustizia Ambientale sono stati sottoscritti dai delegati al Primo Summit Nazionale della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente, tenutosi dal 24 al 27 ottobre 1991 a Washington DC. Da allora, i Principi sono stati assunti come documento fondamentale da tutti i movimenti di giustizia ambientale.

Preambolo

noi, cittadini di colore, riuniti insieme in questo Summit multi-nazionale della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente, al fine di iniziare a costruire un movimento nazionale e internazionale di tutta la popolazione di colore che combatta la distruzione e il saccheggio delle nostre terre e delle nostre comunità, ribadiamo con questo documento la nostra interdipendenza spirituale con la sacralità della Madre Terra. Per rispettare e celebrare ognuno dei nostri linguaggi, delle nostre culture e delle nostre fedi intorno al mondo naturale, e il nostro ruolo nella salvezza di tutto quanto ci appartiene; per assicurare la giustizia ambientale; per promuovere alternative economiche che possano contribuire allo sviluppo di forme economiche sostenibili per l’ambiente; e per assicurare una liberazione politica, economica e culturale che ci è stata negata da oltre cinquecento anni di colonizzazione e oppressione, culminando con l’avvelenamento delle nostre comunità e dei nostri territori, e con il genocidio della nostra gente, noi affermiamo questi Principi di Giustizia Ambientale:

1. la Giustizia Ambientale sostiene la sacralità della Madre Terra, l’unità ecologica e l’interdipendenza di tutte le specie, e il diritto a non essere fatti oggetto di distruzione ecologica;
2. la Giustizia Ambientale esige che le politiche pubbliche siano basate sul reciproco rispetto e sulla giustizia da garantire a tutti i cittadini, aldilà di ogni forma di discriminazione o preconcetto;
3. la Giustizia Ambientale dispone il diritto a usi etici, equilibrati e responsabili della terra e delle risorse rinnovabili nell’interesse di un pianeta sostenibile per gli esseri umani e per le altre forme di vita;
4. la Giustizia Ambientale invoca una protezione universale contro i test nucleari, contro l’estrazione, la produzione e la discarica di rifiuti tossici e nocivi e di altri veleni che minaccino il diritto fondamentale ad avere aria, terra, acqua e cibo non contaminati;
5. la Giustizia Ambientale afferma
il diritto fondamentale all’autodeterminazione politica, economica, culturale e ambientale di ogni cittadino;
6. la Giustizia Ambientale esige la cessazione della produzione di tossine, rifiuti nocivi e materiali radioattivi, e richiede che tutti coloro che, adesso o in passato, abbiano prodotto tali sostanze, debbano rendere rigorosamente conto alla popolazione, e impegnarsi a bonificare e controllare i luoghi contaminati;
7. la Giustizia Ambientale esige il diritto di ognuno a partecipare come interlocutore a qualsiasi livello dei processi decisionali, incluse la stima delle necessità locali, la pianificazione, l’attuazione, l’applicazione e la valutazione di qualsivoglia misura;
8. la Giustizia Ambientale afferma il diritto di tutti i lavoratori a un ambiente di lavoro sano e sicuro, e a non essere costretti a scegliere tra la disoccupazione e un impiego che non garantisca le necessarie condizioni di sicurezza. Essa afferma altresì il diritto di coloro che lavorano in casa propria a essere al riparo da rischi ambientali;
9. la Giustizia Ambientale tutela il diritto delle vittime di casi ingiustizia ambientale a ricevere pieno risarcimento per i danni subiti, nonché cure mediche di qualità;
10. la Giustizia Ambientale considera gli atti governativi di ingiustizia ambientale una violazione del diritto internazionale, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e della Convenzione ONU sul Genocidio;
11. la Giustizia Ambientale impone il riconoscimento di uno speciale vincolo legale e naturale delle Popolazioni Native con il Governo degli Stati Uniti attraverso l’istituzione di trattati, di accordi, di patti e convenzioni tesi a tutelare la sovranità e l’autodeterminazione di tali popolazioni;
12. la Giustizia Ambientale afferma la necessità per le politiche ecologiche urbane e rurali di bonificare e ricostruire le nostre aree urbane e rurali in equilibrio con la natura, onorando l’integrità culturale di tutte le nostre comunità, e provvedendo per ciascuno un equo accesso a tutte le risorse disponibili;
13. la Giustizia Ambientale invoca la stretta applicazione di principi di consenso informato, e la fine dell’uso della popolazione di colore come cavia per le somministrazioni sperimentali di procedure riproduttive e mediche e di nuovi vaccini;
14. la Giustizia Ambientale si oppone all’operato distruttivo delle multinazionali;
15. la Giustizia Ambientale si oppone all’occupazione militare, alla repressione armata e allo sfruttamento di territori, persone e culture, e di altre forme di vita;
16. la Giustizia Ambientale invoca un’educazione delle generazioni presenti e future che ponga al centro problematiche sociali e ambientali, sulla base della nostra esperienza e in considerazione delle nostre diverse prospettive culturali;
17. la Giustizia Ambientale richiede che noi, come individui, facciamo la nostra scelta personale di consumare al minimo le risorse della Madre Terra e di produrre minore quantità possibile di rifiuti non riciclabili; e che prendiamo consciamente la decisione di mettere seriamente in discussione il nostro stile di vita, così da assicurare la salute del mondo naturale per le generazioni presenti e future.

[Fonte: R. Hofrichter (cur.), Toxic Struggles: The Theory and Practice of Environmental Justice, Philadelphia: New Society Publisher, 1993, pp. 237-39. Testo disponibile on-line all’indirizzo: http://www.ejnet.org/ej/principles.html (consultato il 20 dicembre 2004). Trad. it. di Serenella Iovino]

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Note

1 Citato in Joseph DesJardin, Environmental Ethics. An Introduction to Environmental Philosophy (Toronto: Wadsworth-Thomson Learning, 3a ed. 2001), pp. 232-33. Il memorandum è diventato di dominio pubblico dopo essere stato consegnato alla stampa da una fonte interna alla Banca Mondiale. Quando il documento fu reso noto, Summers si scusò, affermando che in realtà le sue parole volevano essere ironiche.

2 Il dato è tratto da United Nations Environment Programme, After the Tsunami. Rapid Environmental Assessment (UNEP: 2005), p. 135 (disponibile on-line sul sito dell’UNEP: http://www.unep.org/Documents.Multilingual/, sito consultato il 10 marzo 2005). Un’altra fonte (WWF, riportata dalle agenzie il 10 marzo 2005) dà una sproporzione anche più netta: 8 dollari contro 1000 (cfr. per es.: http://italy.peacelink.org/ecologia).

3 Robert Figueroa, Claudia Mills, Environmental Justice, in Dale Jamieson (cur.), A Companion to Environmental Philosophy (Malden: Blackwell, 2001), pp. 426-38; p. 426.

4 Cfr. Wolfgang Sachs (cur.), Global Ecology: A New Arena of Political Conflict (Atlantic Highlands: Zed Books, 1993).

5 Cfr. Pierre Bourdieu, Langage et pouvoir symbolique (Paris: Éditions du Seuil, 2001).

6 Cfr. Vandana Shiva, The Impoverishment of the Environment, in Maria Mies, Vandana Shiva (curr.), Ecofeminism (London: Zed Books, 1993); e Id., Waterwars: Privatisation, Pollution and Profit (Cambridge, MA: South End Press, 2002). L’introduzione delle monoculture e dei fertilizzanti chimici è un semplice esempio di questa trasformazione e di questo progressivo impoverimento dei territori e dei loro ecosistemi.

7 Vandana Shiva, Staying Alive: Women, Ecology and Development (London: Zed Books, 1989). Un’altra questione spinosa è quella del “costo” di questo sviluppo, in termini di debito pubblico dei paesi del Terzo Mondo verso quelli del Primo: su questo si veda Dale Jamieson, Global Environmental Justice, in Robin Attfield, Andrew Belsey (curr.), Philosophy and the Natural Environment (Cambridge: Cambridge University Press, 1994), pp. 199-210.

8 T.B.K. Goldtooth, Indigenous Nations: A Summary of Sovereignty Implications for Environmental Protection, in Bunyan Bryant (cur.), Environmental Justice: Issues, Policies, and Solutions, (Washington DC: Island Press), pp. 138-50.

9 Winona LaDuke, A Society Based on Conquest Cannot Be Sustained: Native People and the Environmental Crisis, in R. Hofrichter (cur.), Toxic Struggles: The Theory and Practice of Environmental Justice, Philadelphia: New Society Publisher, 1993, pp. 98-106; p. 99.

10 Cfr. Vandana Shiva, The Greening of the Global Reach, in Sachs, Global Ecology, cit., pp. 149-56.

11 Anche su questo riferisce il report dell’UNEP, After the Tsunami, cit. On-line sono disponibili molti articoli sul tema. Si vedano, per esempio, Emanuela Giordano, Lo tsunami ha dissotterrato i rifiuti tossici (“il manifesto”, 6 marzo 2005), testo su PeaceLink (http://italy.peacelink.org/ecologia/articles/art_9989.html); News Ambiente ANSA.it, Rifiuti: Tsunami; WWF, Allarme chimico-nucleare in Somalia, http://www.arpalombardia.it/new/live/ (siti consultati il 10 marzo 2005). Ricordo, per inciso, che la commissione di indagine UNEP sui rifiuti tossici in Somalia è intitolata alla giornalista Ilaria Alpi, assassinata a Mogadiscio proprio mentre indagava sullo smaltimento illegale dei rifiuti tossici.

12 Cfr. Peter S. Wenz, Environmental Justice (Buffalo: SUNY Press, 1988), p. 4.

13 Cfr. Karen Butler, Whose Backyard? The Geography of Environmental Racism, on-line: http://mage.geog.macalester.edu/APGeogDemo/Lessons/political/Butler,_Karen/ (consultato il 3 febbraio 2005).

14 Cfr. Figueroa, Mills, Environmental Justice, cit., p. 436.

15 Vedi, tra l’altro, La mappa dei costi reali del petrolio: il Mondo, in PeaceLink, on-line: http://italy.peacelink.org/ecologia/articles/art_7987.html (consultato il 3 febbraio 2005).

16 Figueroa, Mills, Environmental Justice, p. 432.

17 Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, tr. it. di Oliviero Pesce (Laterza: Roma-Bari, 1999), p. 124.

18 Cfr. New Forms of Environmental Racism, in “Critical Resistance”, on-line: http://www.criticalresistance.org/index.php?name=environmental_racism (consultato il 3 febbraio 2005).

19 United Church of Christ Commission for Racial Justice, Toxic Wastes and Race in the United States: A National Report on the Racial and Socio-Economic Characteristics of Comminities with Hazardous Waste Sites (New York: Public Data Access, Inc., 1987), pp. 13-17.

20 Così il responsabile dello studio, Benjamin F. Chavis, nella presentazione del Report al National Press Club (Washington US House of Representatives, Environmental Justice: Hearings Before the Subcommittee on Civil and Constitutional Rights, Committee on Judiciary, 103rd Congress, 1st Session, Washington DC: US Government Printing Office, March 3-4, 1993, p. 4).

21 United States General Accounting Office, Siting of Hazardous Waste Landfills and Their Correlation with Racial and Economic Status Surrounding Communities, GAO/RCED, 1983, pp. 83-168.

22 U.S. Department of Health and Human Services, Report on Black and Minority Health (Washington D.C.: U.S. Department of Health and Human Services, 1985). Il rapporto prende il nome dal segretario del dipartimento, Margaret Heckler.

23 Cfr. United Church of Christ Commission for Racial Justice, Toxic Wastes and Race in the United States, cit., p. ix.

24 Da anni Bullard, professore di sociologia alla University of California, Riverdale, mette in luce le connessioni tra tessuto sociale, interessi economici e degrado ambientale. I suoi studi sul razzismo ambientale sono diventati veri e propri classici di sociologia dell’ambiente. Il suo libro più famoso, Dumping in Dixie: Race, Class, and Environmental Quality (Boulder: Westview Press, 1990, 3a ed. 2000) si concentra sugli Stati Uniti del Sud, ed è stato tra i primi a documentare case-studies di razzismo ambientale e a seguire lo sviluppo del movimento di giustizia ambientale. Tra gli altri titoli, i più significativi sono: Confronting Environmental Racism: Voices from the Grassroots (Boston: South End Press, 1993); Unequal Protection: Environmental Justice and Communities of Color (San Francisco: Sierra Club Books, 1996). E inoltre: (curato con J. Eugene Grigsby III e Charles Lee) Residential Apartheid: The American Legacy (Los Angeles: University of California Press, 1994); (curato con Julian Agyeman e Bob Evans) Just Sustainabilities: Development in an Unequal World (Boston: The MIT Press, 2003); (curato con Glenn S. Johnson e Angel O. Torres) Highway Robbery: Transportation Racism and New Routes to Equity (Boston: South End Press, 2004).

25 Robert D. Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, in “Local Enviroment”, vol. 4, n. 1, 1999, pp. 5-18; p. 5.

26 Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, cit.

27 Daniel C. Wigley, Kristin Shrader-Frechette, Environmental Racism and Biased Methods of Risk Assessment, on-line: http://piercelaw.edu/risk/vol7/winter/wigley.htm (consultato il 3 febbraio 2005); e Consent, Equity, and Environmental Justice: A Louisiana Case Study, in Laura Westra, Peter S. Wenz (curr.), Faces of Environmental Racism (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 1995).

28 Marianne Lavelle, Marcia Coyle, Unequal Protection, in “National Law Journal”, 21 settembre 1992.

29 Cfr. The “Odessa Syndrome”: Environmental Racism in Odessa, Texas, in “Toxic Texas”, on-line: http://www.txpeer.org/toxictour/huntsman.html (consultato il 3 febbraio 2005).

30 Cfr. Bullard, Confronting Environmental Racism, cit., e D. Russell, Environmental Racism: Minority Communities and Their Battle Against Toxics, in “Amicus Journal”, 1, 1989, pp. 22-32.

31 Vedi Earl Ofari Hutchinson, Put It In Blacks Backyard, “The Hutchinson Report”, 25 giugno 2001, on-line: http://www.hartford-hwp.com/archives/45/294.html (consultato il 3 febbraio 2005).

32 Contro questa opinione: Robert Emmett Jones, Blacks Just Don’t Care: Unmasking Popular Stereotypes About Concern for the Environment Among African-Americans, in “International Journal of Public Administration”, 2002, vol. 25, nn. 2 e 3.

33 Oltre agli scritti di Bullard (in particolare Confronting Environmental Racism), vedi Melissa Thorme, Establishing Environment as a Human Right, in “Denver Journal of International Law and Policy”, 19, 1991; James W. Nickel, Eduardo Viola, Integrating Environmentalism and Human Rights, in “Environmental Ethics”, 16, 1994, rist. in Andrew Light, Holmes Rolston III (curr.), Environmental Ethics: An Anthology (Malden: Blackwell, 2003), pp. 472-77.

34 Cfr. Bullard, Confronting Environmental Racism, cit.; Figueroa, Mills, Environmental Justice, cit., pp. 428-29.

35 Cfr. gli articoli di Wigley e Shrader-Frechette, Environmental Racism and Biased Methods of Risk Assessment, cit., e Consent, Equity, and Environmental Justice: A Louisiana Case Study, cit.; e Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, cit.

36 Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, cit., p. 15.

37 Per tutti i dati relativi al caso, vedi US Nuclear Regulatory Commission, Final Environmental Impact Statement for the Construction and Operation of Claiborne Enrichment Center (Homer, Lousiana, 1994).

38 Cfr. First National People of Color Environmental Leadership Summit, Principles of Environmental Justice, in Hofrichter, Toxic Struggles, cit., pp. 237-39. Il testo è disponibile anche on-line all’indirizzo: http://www.ejnet.org/ej/principles.html (consultato il 20 dicembre 2004).

39 Cfr. The Rio Declaration, in Louis P. Pojman (cur.), Environmental Ethics. Readings in Theory and Application, (Belmont, CA: Wadsworth, 1998, 2a ed.), pp. 566-68. Per la Carta della Terra, testo e documenti on-line sul sito: www.earthcharter.org (consultato il 12 ottobre 2004).

40 Cfr. Franz Neil, Supreme Court Ruling May Hurt Environmental Justice Claims, in “Chemical Week”, 2 maggio 2001.

41 Il richiamo è a La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Torino: Einaudi, 1962).

42 Cfr. Arne Naess, The Shallow and the Deep. Long-Range Ecology Movement. A Summary, in “Inquiry”, 16, 1973, pp. 95-100; Id., Ecology, Community and Lifeerrore, (Cambridge: Cambridge University Press, 1989); e Murray Bookchin, The Ecology of Freedom: The Emergence and Dissolution of Hierarchy (Palo Alto: Cheshire Books, 1982).

43 Cfr. Ronald Inglehart, Modernization and Postmodernization: Cultural, Economic and Political Change in 43 Societies (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1997); Id., The Silent Revolution: Changing Values and Political errores (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1977).

44 Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. di Emilio Panaitescu (Milano: Bur, 1988), p. 13.

45 Ivi, p. 414.

46 Cfr. Bourdieu, Langage et pouvoir symbolique, cit.

47 Su schiavitù e razzismo, in chiave filosofico-sociale, vedi Tommy L. Lott (cur.), Subjugation and Bondage. Critical Essays on Slavery and Social Philosophy (Lanham: Rowman & Littlefield, 1998).

48 Cornel West, Christian Love and Heterosexism, in The Cornel West Reader (New York: Basic Civitas Books, 1999), p. 402.

49 Cfr. Val Plumwood, Feminism and the Mastery of Nature (London: Routledge, 1993).

50 Barry Commoner, The Closing Circle: Nature, Man and Technology (New York: Knopf, 1971), p. 33.

51 Su questo, si veda Robin Attfield, The Ethics of the Global Environment (Edinburgh: Edinburgh University Press, 1999).

52 Cfr. Inglehart, Modernization and Postmodernization, cit.; Maurizio Valsania, Umanesimo postindustriale. Breve apologia della speranza sociale (Milano: Franco Angeli, 2005).

53 Cfr. Cornel West, Prophetic Christian as Organic Intellectual: Martin Luther King, Jr., in The Cornel West Reader, cit., p. 426.

54 Sulla necessità, per la società post-industriale, di apprezzare i valori della tradizione senza rimanerne imprigionata, e sul concetto di tradizione come “fedeltà ai posteri”, vedi Valsania, Umanesimo post-industriale, cit., p. 111 e ss.

55 Cfr. Nickel, Viola, Integrating Environmentalism and Human Rights, cit.; e Thorme, Establishing Environment as a Human Right, cit. Bisogna ricordare che il diritto all’ambiente è già riconosciuto dalla Carta Costituzionale di diversi stati, tra cui Honduras, Portogallo, Corea del Sud, Brasile: vedi Edith Brown Weiss, In Fairness to Future Generations (Dobbs Ferry, NY: Transnational Publishers 1989).

56 U.S. Department of Health and Human Services, Report on Black and Minority Health (Washington D.C.: U.S. Department of Health and Human Services, 1985). Il rapporto prende il nome dal segretario del dipartimento, Margaret Heckler.

 

 

 

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