Rifiuti
tossici? Non nel mio cortile (nel loro sì, però).
Un’analisi del razzismo ambientale.
di
Serenella Iovino
Un
ambiente sano e pulito. Aspirazione legittima, e anzi necessaria, di
ogni società evoluta. Una società che si è sviluppata,
che produce per crescere ancora, e che consuma. Consuma risorse (talora
rinnovabili, tal'altra — più spesso — no), beni necessari
alla sopravvivenza umana, beni necessari alla sopravvivenza del mercato,
e tutto quanto può entrare nel circolo della produzione di ricchezza
e della soddisfazione dei bisogni. Ogni consumo, va da sé, ha
i suoi residui: organici, inorganici, e tossici. Coi primi e i secondi,
ci si prova, si può ricavare altra energia. Gli ultimi, purtroppo,
non li vuole proprio nessuno. Ne sappiamo qualcosa in Italia: dove,
mentre i rilievi del Ministero dell’Ambiente garantivano sulla
sicurezza pressoché assoluta del sito (ipotesi poi smentita in
seguito), tutti noialtri abbiamo solidarizzato con gli abitanti di Scanzano
Jonico. Salvo raggelare di fronte alla domanda: “E ora, questa
roba chi se la piglia?” Sospiro di sollievo, quando i treni carichi
di scorie radioattive sono partiti verso la Francia e la Germania, paesi
che le centrali ce le hanno, e i rifiuti tossici, con le buone o con
le cattive, li sanno trattare.
Certo, chi può,
questa “roba” può pensare di mandarla nello spazio
(e magari anche di qui l’interesse statunitense per il programma
di viaggi su Marte). Ma, a conti fatti, forse la spesa non sempre vale
l’impresa. Specialmente quando si può far passare lo smaltimento
di inquinanti come il fio da pagare per una (falsa) integrazione economica
e sociale, facendo credere alle comunità che li accettano che,
anziché danneggiarle per un paio di millenni, si sta loro facendo
un favore: tu mi dai il permesso di scaricare i residui di fabbricazione
dell’uranio nel tuo territorio comunale, e io (multinazionale,
industria locale o stato) in cambio ti creo cinquecento posti di lavoro,
alloggi popolari e un bel campo di pallone. Quando poi si nota che in
queste stesse comunità spesso il disagio sociale si accompagna
al fattore etnico, si può parlare di una nuova frontiera della
discriminazione: il razzismo ambientale.
Costi e benefici. Uno sguardo
globale.
Confinare i rifiuti
nei territori meno “pregiati” dal punto di vista turistico
o abitativo, o dirottarli verso luoghi già avviati verso un certo
degrado, è una cosa che avviene in tutti i paesi industrializzati.
Su scala globale, però, questa prassi si fa ancora più
massiccia. E spesso il confine tra Nord e Sud del mondo passa proprio
per la distinzione tra chi produce ricchezza e chi ne smaltisce i rifiuti.
In un’ottica generale,
i meccanismi sono chiari: vige la logica dell’analisi costi-benefici.
Fuori dal gergo economico, si inquina dove è più conveniente
smaltire i rifiuti, e cioè dove non solo il lavoro costa meno,
ma costa meno anche pagare le spese alle persone che subiscono i danni
delle contaminazioni. Per capire come funziona questo sistema basta
dare uno sguardo a un memorandum fatto circolare negli ambienti della
Banca Mondiale, e attribuito al suo capo-economista Lawrence Summers
(poi segretario al Tesoro sotto l’amministrazione Clinton):
Data:
12 Dicembre 1991
A: Distribuzione
Da: Lawrence H. Summers
Soggetto: GEP [sigla non definita: probabilmente “Global Environmental
Pollution”: “Inquinamento ambientale globale”]
Industrie “sporche”: detto tra noi, non dovrebbe la Banca
Mondiale incoraggiare di PIU’ la migrazione delle industrie sporche
verso i PMS [paesi meno sviluppati]? [...]
Le stime dei costi dell’inquinamento nocivo alla salute dipendono
dai guadagni perduti a causa delle aumentate condizioni di mortalità
e malattia. Da questo punto di vista una data quantità di inquinamento
nocivo alla salute dev’essere destinata al paese con i costi minori,
che sarà il paese con i salari più bassi. Ritengo che
la logica economica implicita nello smaltire rifiuti tossici nel paese
con i salari più bassi sia impeccabile, e che sia qualcosa con
cui dobbiamo fare i conti.
1)
[leggi il testo completo
del memorandum]
Se
consideriamo che il costo di smaltimento di una tonnellata di rifiuti
tossici nei paesi africani è di 2,5 dollari, contro i 250 dell’Europa,
è innegabile che l’applicazione al mercato dell’analisi
costi-benefici dia i suoi frutti.2)
Il primo è lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze.
Secondo stime recenti, infatti, l’1% dei ricchi della terra ha
un reddito pari al 57% di quello dei poveri. Un quinto della popolazione
mondiale consuma quattro quinti delle risorse naturali, mentre i quattro
quinti devono accontentarsi del rimanente quinto.3)
Gli alti standards
di vita raggiunti nei paesi sviluppati dipendono proprio dalla possibilità
di questa sperequazione. È facile intuire che l’acquisto
di risorse e lo smaltimento di rifiuti a basso costo in paesi del Terzo
Mondo consenta il fiorire dell’industria e dei consumi nel Primo.
Questa forma di discriminazione è un’evidente eredità
del colonialismo. Per secoli i paesi del Terzo Mondo, in veste di colonie
o protettorati, sono stati considerati dagli imperi europei e occidentali
come serbatoi di risorse da sfruttare senza restrizioni. Il loro sfruttamento,
di fatto funzionale alla crescita economica e politica dell’Europa
e degli Stati Uniti, è stato spesso mascherato da progresso.
Si è anzi cristallizzata, ancor di più a partire dal secondo
Dopoguerra, un’immagine degli equilibri geopolitici in cui “sviluppo”
è divenuto sinonimo di “civiltà” ed “economia”
sinonimo di “società”.4)
Se, come sostiene Pierre Bourdieu, le parole non restituiscono un’immagine
neutrale della realtà, ma sono un’invenzione sociale tesa
a costruire linearità artificiali,5)
proprio questa “normalizzazione” linguistica ha, di fatto,
accompagnato l’accrescersi del divario tra Nord e Sud del mondo,
allo stesso tempo giustificando, in nome del “progresso”,
l’atteggiamento predatorio del primo sul secondo. In realtà,
tuttavia, per i paesi del Terzo Mondo questo “progresso”
(il più delle volte perseguito con l’“aiuto”
dei grandi gruppi industriali) ha significato il declino di forme di
economia tradizionali, di autosussistenza ed eco-compatibili, da secoli
in vigore in quei territori.6)
Questo giustifica chi, rovesciando le retoriche globalistiche della
società del benessere, parla di un “maldevelopment”,
un “cattivo sviluppo”: il modello occidentale di crescita
economica, e le dinamiche di produzione e consumo che esso implica,
non hanno avuto effetti benefici per tutti i soggetti in gioco. In realtà,
spesso i nuovi modelli economici creano povertà proprio mentre
pretendono di creare ricchezza, cancellando stili di vita sostenibili
e portando miseria materiale a coloro che ne sono investiti.7)
Questo ha
un ulteriore risvolto: nei paesi del Terzo Mondo è in atto una
vera e propria “crisi di sovranità”.8)
Lo sfruttamento sistematico è infatti avvenuto nella più
totale mancanza di considerazione per le esigenze delle comunità
locali, escluse dalla fruizione delle loro stesse terre e delle loro
stesse risorse: Winona LaDuke, per esempio, riporta che nel mondo “oltre
cento milioni di persone, appartenenti a popolazioni indigene, dovranno
essere trasferite per permettere lo sviluppo di progetti idroelettrici
nel prossimo decennio. E oltre cinquanta milioni di indigeni abitano
nei luoghi in cui si concentrano le risorse del mondo”.9)
È superfluo qui
sottolineare che a questa crisi di sovranità si accompagna irrimediabilmente
una crisi di democrazia. E non penso solo, com’è ovvio,
alle guerre per le risorse e ai regimi autoritari che (spesso con il
benestare di alcuni stati “democratici”) opprimono i paesi
del Sud del mondo. Anche le stesse politiche che coinvolgono questi
paesi in programmi di supporto economico o di tutela ambientale sono
infatti gestite in maniera pressoché autonoma da quelle realtà
che, scrive Vandana Shiva, sono le uniche protagoniste della “sfera
d’azione globale”: entità nazionali e organismi trans-nazionali
come l’ONU, le maggiori ONG, grandi corporations e istituzioni
come la Banca Mondiale. Anche la ricerca ecologica è condotta
da piccoli gruppi di scienziati connessi a entità politiche globali,
ben lontano quindi dalle esigenze che emergono dal basso.10)
È inoltre di questi
giorni la notizia che lo tsunami del 26 dicembre 2004 ha disseppellito
dal fondo dell’Oceano Indiano fusti con tonnellate di rifiuti
tossici europei (uranio, cadmio, mercurio, rifiuti ospedalieri e dell’industria
farmaceutica), finendo col contaminare in modo grave le coste della
Somalia, paese in cui il traffico di rifiuti tossici è già
da alcuni anni tristemente noto.11)
Razzismo ambientale:
case-studies.
I problemi
della giustizia ambientale investono, dunque, tanto questioni di giustizia
distributiva (equa distribuzione delle ricchezze naturali, equa fruizione
di beni primari: acqua, aria, cibo non contaminati, ecc.), quanto questioni
di giustizia partecipativa: non sempre coloro che subiscono i danni
ambientali sono coinvolti nell’elaborazione di quelle linee politiche
di cui sopportano gli effetti.12)
Ciò non avviene
solo su scala globale, ma anche all’interno dei singoli paesi,
e in questo gli Stati Uniti sono senz’altro l’osservatorio
eco-sociale più interessante. Negli USA, infatti, tra gli effetti
collaterali dell’industrializzazione, inquinamento da rifiuti
tossici e discriminazione razziale, sociale ed economica sono spesso
due facce della stessa medaglia. Ciò si esprime in forme di abuso
(il più delle volte, da parte di grandi gruppi industriali),
classificate come “razzismo ambientale” sin dagli anni ’80.
Anche qui siamo di fronte
a una crisi di sovranità: esistono, cioè, fasce della
popolazione, per lo più connotate da fattori etnici (nativi americani,
ispanici, afro-americani, e altre minoranze), che vedono ridotto il
proprio diritto a gestire i territori in cui vivono e lavorano. Per
citare solo alcuni esempi: il fatto che in una città come Houston,
Texas, dagli anni ’20 alla fine degli anni ’70, tutti gli
impianti per il trattamento dei rifiuti solidi fossero situati in quartieri
abitati da afro-americani (28% della popolazione);13)
o che, nel 1975, il 100% dell’uranio prodotto nel paese provenisse
da territori abitati da nativi, e che in questi stessi territori venisse
per lo più lavorato;14)
o ancora, che vi siano posti come Odessa, Texas, Love Canal, Stato di
New York, o Time Beach, Missouri, in cui la popolazione (in prevalenza
afro-americana) lotta da anni per vedersi riconosciuto il diritto a
un ambiente non contaminato, rimettono in questione la reale validità
del diritto di cittadinanza delle minoranze, evidenziando drammaticamente
una presenza del Terzo Mondo nel cuore stesso di una delle società
più ricche ed evolute. Pure emblematico è il caso degli
scarichi industriali nelle acque dei fiumi maggiori: ad esempio, stati
che si trovano a valle, lungo il corso del Missouri, sono sovraccarichi
dei rifiuti industriali degli stati a monte; il basso Mississippi, altra
area a popolazione per lo più afro-americana, è talmente
contaminato da essere noto come “Cancer Alley” (“viale
del cancro”): 130 chilometri di fiume (e territori circostanti)
tra New Orleans e Baton Rouge, inquinati da oltre cento impianti, tra
raffinerie petrolifere e stabilimenti petrolchimici.15)
Nella maggior parte dei
casi si verifica una ovvia sovrapposizione tra minoranze etniche e strati
sociali disagiati. Questo spiega perché a essere colpite siano,
in genere, le fasce più “ricattabili”: non deve stupire
che i nativi americani considerino economicamente vantaggioso accogliere
nei propri territori la costruzione di discariche per le scorie delle
centrali nucleari del paese. O che comunità povere possano essere
messe nella condizione di dover accettare “pacchetti” che
prevedono posti di lavoro e supporto finanziario, a patto però
di ospitare siti per rifiuti tossici, della cui effettiva pericolosità
spesso non sono neanche informate. Un esempio: come compenso per il
sito della “Cadillac delle discariche radioattive” a Emelle,
Alabama, la Chemical Waste Management aveva assicurato quattrocento
posti di lavoro e il sostegno a progetti di sviluppo per diversi milioni
di dollari. Nonostante ciò, tuttavia, la comunità non
era stata coinvolta nei negoziati che avevano portato a questo “scambio”.
Al contrario, i cittadini non erano neanche a conoscenza che la discarica
esistesse, ed erano state messe in giro voci secondo cui si trattava
solo di una fabbrica di mattoni.16)
Infine, occorre ricordare
che un’ulteriore forma di “inquinamento” su base socio-razziale
è quella legata alle prigioni di stato. Aldilà del valore
simbolico (come scrive Zygmunt Bauman, la prigione “è un
laboratorio della ‘società globalizzata’” in
cui “si mettono a punto le tecniche con cui confinare nello spazio
i rifiuti e la feccia della globalizzazione”17)),
le prigioni di stato sono un grande business: 147 miliardi di dollari
all’anno. Negli ultimi vent’anni il governo USA ha costruito
più carceri che in tutta la storia americana. Il loro impatto
socio-ambientale è analogo, per la vita di una comunità,
a quello degli impianti di smaltimento dei rifiuti tossici. Questo perché,
anzitutto, la scelta del sito (spesso accompagnata dalla promessa di
favorire l’indotto economico) cade su comunità con le stesse
caratteristiche etniche e sociali di quelle fin qui esaminate; e poi
perché la prigione cancella il volto del territorio, assorbendone
le risorse (acqua, energia elettrica, ecc.) e ricadendo sulla comunità
sotto forma di esternalità (costi per strade, per fognature,
e servizi vari). A ciò si aggiunge l’inquinamento atmosferico
dovuto al flusso automobilistico dei pendolari e favorito dalla costruzione
di più fitte reti stradali, la devastazione delle aree locali,
e spesso un’ulteriore frammentazione del tessuto sociale: tutti
elementi, questi, che portano a considerare le prigioni di stato come
veri e propri “disastri sociali e ambientali”.18)
Razzismo ambientale: indagini
sociologiche e caratteri generali.
Quando si è
cominciato a parlare di razzismo ambientale? La prima indagine ad ampio
raggio sui rapporti tra la dislocazione di siti di smaltimento per rifiuti
tossici e la composizione etnica e socio-economica delle comunità
prescelte risale al 1987, ed è il Report della Commissione
per la Giustizia Razziale della United Church of Christ (Rifiuti
tossici e razza negli Stati Uniti. Rapporto nazionale sulle caratteristiche
razziali e socio-economiche delle comunità con siti di smalitimento
per rifiuti tossici). Si tratta di un documento di estrema importanza,
non solo per il rigore dell’analisi, ma anche perché ha
avuto il merito di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica
e delle parti sociali sul tema che affronta. Il Rapporto evidenza,
in generale, una realtà drammatica: “più della metà
della popolazione degli Stati Uniti [vive] in aree di residenza locali
con uno o più siti tossici non protetti”. Ma ancor più
grave è il fatto che “su cinque afro- o ispano-americani,
tre [vivono] in comunità con siti tossici non protetti”.
E non si tratta di casualità, ma piuttosto di sistematiche scelte
economico-politiche: la ricerca ha infatti provato che “rispetto
ad altri fattori esaminati, la razza [è] un fattore di gran lunga
predominante nella collocazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti
tossici commerciali”. A conferma di ciò, “[a]ssociazioni
statistiche tra la razza e la collocazione di questi impianti si sono
dimostrate più consistenti delle altre associazioni testate.
La probabilità che si tratti di un’associazione puramente
casuale è meno di una su diecimila”.19)
[leggi un estratto
del Report]
Di qui, la definizione
di razzismo ambientale come “discriminazione razziale nelle politiche
ambientali, e ineguale applicazione di leggi e misure in materia ambientale;
[...] il colpire deliberatamente la popolazione di colore per la collocazione
di discariche per rifiuti tossici; [...] l’autorizzare ufficialmente
la presenza di veleni e di inquinanti mortali nei siti di smaltimento
di rifiuti tossici collocati presso comunità di colore; [...]
la storica esclusione di persone afro-americane dalla leadership
del movimento ambientalista”.20)
Alla negazione di entrambi i livelli fondamentali della giustizia, quello
distributivo e quello partecipativo, si unisce pertanto, come vedremo
meglio, anche la negazione di un’equa applicazione di misure legislative.
Il Report della
United Church of Christ nasce in seno a un’istituzione nota per
il forte impegno sociale a favore delle minoranze. Tuttavia, a conclusioni
analoghe erano pervenute già alcuni anni prima ricerche meno
“filantropiche”. Un rapporto dell’Ufficio Contabile
Generale del governo degli Stati Uniti, per esempio, aveva evidenziato
sin dal 1983 la stretta correlazione tra i luoghi preposti allo smaltimento
dei rifiuti tossici e le connotazioni razziali e socio-economiche degli
abitanti.21)
E nel 1985, una ricerca del Dipartimento della Salute e dei Servizi
Umani, il cosiddetto Rapporto Heckler, era stato esplicito sull’eccessivo
indice di mortalità nelle comunità etniche.22)
Non si era parlato, in quei casi, di razzismo. Ma, pure, la corrispondenza
tra inquinamento e gruppi etnici era una delle costanti che si imponevano
con maggiore evidenza.
La verità è
che non si può denunciare il fenomeno senza rivendicare una chiara
presa di posizione politica. La stessa premessa del Rapporto della United
Church of Christ si basa infatti su una definizione di razzismo espressa
in termini nettamente politici: razzismo è infatti “l’uso
intenzionale o non intenzionale del potere per isolare, separare e sfruttare
altre persone [...] rafforzato e sostenuto da istituzioni legali, culturali,
religiose, educative, economiche, politiche, ambientali e militari di
una società”.23)
Ancora più deciso nelle sue denunce è, allora, il sociologo
afro-americano Robert D. Bullard, lo studioso più accreditato
del fenomeno, e insieme attivista nei movimenti per la giustizia ambientale
[leggi il testo di un’intervista
a Bullard].24)
Bullard mette in evidenza la profonda continuità tra i movimenti
contro il razzismo ambientale e le battaglie per i diritti civili delle
minoranze. Per lui “razzismo ambientale” equivale infatti
a “ogni politica, pratica o direttiva ambientale i cui effetti
(intenzionalmente o meno) investano in maniera differente o svantaggino
individui, gruppi o comunità basate sulla razza o sul colore
della pelle”25).
Le condizioni ricorrenti nei casi di razzismo ambientale includono in
genere i punti che seguono:
- applicazione diseguale
di leggi a tutela dell’ambiente, dei diritti civili e della
salute pubblica;
- diverso grado di esposizione
di talune popolazioni ad agenti chimici dannosi, pesticidi e altre
tossine, nelle abitazioni, nelle scuole, nei quartieri di residenza,
nei luoghi di lavoro;
- assunti di base fallaci
nella previsione, nella valutazione e nella gestione dei rischi;
- scelta del sito e uso del
territorio basati su parametri discriminatori;
- pratiche di esclusione
che limitano la partecipazione di individui e di gruppi ai processi
decisionali.26)
Dalle
parole di Bullard emerge un ulteriore elemento. È interessante,
infatti, che nelle informazioni date alle comunità scelte per
i siti, non solo vengano esagerati i vantaggi, ma soprattutto siano
minimizzati i rischi (emblematico il caso di Emelle); e ciò è
una prassi sistematica, come dimostrano anche gli studi di Daniel Wigley
e Kristin Shrader-Frechette.27)
Alla sottovalutazione
dei rischi corrisponde, come si accennava, una inadeguata sanzione delle
pratiche inquinanti. Così riferisce, ad esempio, un articolo
apparso sul National Law Journal: “C’è una
distinzione razziale nel modo in cui il governo degli Stati Uniti bonifica
i siti tossici e punisce gli inquinatori. Le comunità bianche
vedono un’azione più rapida, risultati migliori e pene
più severe delle comunità in cui vivono neri, ispanici
e altre minoranze. Questa tutela diseguale spesso si manifesta indipendentemente
dal fatto che le comunità siano ricche o povere”.28)
Anche il fatto che le sanzioni siano minori è un segno di discriminazione
sociale. In questo modo, infatti, i reati contro l’ambiente sono
sì puniti, ma non massicciamente scoraggiati. Come a dire: a
parità di reato ambientale, nelle comunità ricche, chi
inquina fa un danno grave, e paga di più; nelle comunità
povere, fa un danno meno grave, e paga di meno. Ossia: nelle comunità
più povere, all’ambiente e ai diritti ambientali (salute,
protezione del paesaggio, ecc.) è attribuito un valore inferiore
rispetto alle comunità più ricche. Questo contribuisce
a una “protezione diseguale” dei cittadini, a vantaggio
degli interessi delle industrie che scaricano i loro rifiuti nei territori
discriminati. È quanto è avvenuto, per esempio, a Odessa,
Texas, tra il 1998 e il 2000. A causa di danni a un impianto petrolchimico,
la popolazione è stata sottoposta per settimane a esalazioni
di tonnellate di benzene, etilene, propilene e butadiene, riportando
una serie di disturbi poi riuniti sotto la definizione di “sindrome
di Odessa” (gravi patologie croniche, tra cui problemi respiratori,
infiammazioni oculari, emorragie; è superfluo osservare che tutte
le sostanze esalate erano cancerogene). Nonostante le battaglie legali,
non si è riuscito a ottenere per il petrolchimico altra sanzione
che una multa di 4500 dollari, né un’assunzione di responsabilità
da parte dell’allora governatore George W. Bush.29)
Visibilità del dissenso.
Da NIMBY a PIBBY.
Appellarsi a principi
di giustizia ambientale, si diceva, equivale già di per sé
a prendere una posizione politica. Tuttavia, quando si tratta del razzismo
ambientale, e dei diritti di minoranze spesso escluse dalla pratica
partecipativa (il decision-making) di quella giustizia, il discorso
si fa più spinoso. Occorre, perciò, fare un passo indietro,
e analizzare separatamente le forme di dissenso e le denunce di razzismo
ambientale.
Ogni volta che si parla
di movimenti di dissenso verso le politiche economiche che danneggiano
l’ambiente e minacciano le condizioni di vita, viene in mente
un acronimo: “NIMBY”. È, questo, un tema spesso oggetto
di discussioni trasversali e contro-informazione: già da alcuni
anni, infatti, si ironizza su una “sindrome NIMBY”. Tale
“sindrome” è descritta come un atteggiamento di paura
e ferma resistenza di fronte al rischio che l’area in cui si vive
sia contaminata da impianti di smaltimento di rifiuti. “NIMBY”
è infatti l’acronimo di “Not In My Backyard”,
“non nel mio cortile”. È evidente che parlare di
una “sindrome”, e definire quasi una forma di paranoia sociale
quelli che sono legittimi atti di dissenso per scelte ambientali spregiudicate,
è frutto di una precisa linea politico-economica. Si fa passare
per egoisti coloro che rifiutano di rendere un servigio alla comunità
dando il loro contributo alla realizzazione del benessere comune: un
benessere che passerebbe proprio, in certi casi, per la costruzione
di impianti industriali dall’impatto ecologico non proprio innocuo,
ma tuttavia utilissimi per la crescita economica del territorio.
In realtà, le
proteste NIMBY sono fondamentali per mobilitare l’opinione pubblica
sulle condizioni ecologiche di una regione, su politiche economiche
spesso ciniche, e su questioni di giustizia ambientale. Ciò nonostante,
questo tema fornisce lo spunto per una riflessione ulteriore. Anche
nella consapevolezza intorno a certe tematiche (e nella possibilità
di sottrarsi al ricatto del miglioramento economico) sta infatti un’altra
linea di demarcazione sociale. È allora lecito supporre che il
residente medio di Manhattan o di Beverly Hills, per lo più bianco,
ben scolarizzato, con un reddito individuale medio-alto, abbia una “coscienza
ecologica” più sviluppata e un grado di “ricattabilità”
inferiore rispetto all’abitante dei territori industriali della
Lousiana o del Missouri, per lo più nero o ispanico, poco scolarizzato,
e con un reddito inferiore alla media nazionale.30)
Quindi, paradossalmente, spesso i movimenti NIMBY finiscono involontariamente
per fare il gioco dei gruppi industriali e delle lobbies che decidono
di andare a inquinare laddove è più facile vincere le
resistenze locali.
Questa distinzione sociale
nel cuore stesso dei movimenti di protesta, e il fatto che siano più
recenti e rare le forme di dissenso dagli strati bassi della popolazione,
vengono ironicamente sottolineati da un altro acronimo: “PIBBY”,
ovvero, “Put it in blacks backyard” (“Mettetelo nei
cortili dei neri”).31)
È ovvio che se
le manifestazioni di protesta, all’interno delle comunità
di colore, appaiono meno forti, ciò non significa che i problemi
dell’ambiente siano meno avvertiti ma, piuttosto, che non sussiste,
in quel tessuto sociale, la possibilità concreta di esprimersi
ai livelli più elevati della vita politica. Spesso, infatti,
capovolgendo la realtà di un’esclusione sociale e culturale,
il fatto che ci siano pochi neri e/o ispanici rappresentati nei movimenti
di protesta è stato addirittura additato come un segno di cronico
disinteresse.32)
Più in generale, l’effetto derivante dall’esclusione
(bassa autostima, apatia, passività, ecc.) viene colpevolmente
indicato da chi esclude come la causa dell’esclusione stessa.
Questo ci dice anche
un’altra cosa. E cioè che, nelle comunità discriminate,
la prima lotta dei movimenti per la giustizia ambientale è, esattamente
come nei casi di razzismo ambientale, una lotta per la visibilità.
Diritti civili e giustizia
ambientale. La manifestazione del dissenso nelle comunità discriminate.
Il movimento di giustizia
ambientale ha una storia piuttosto recente, ma le sue radici ci sospingono
indietro di qualche decennio. Infatti, prima degli studi specialistici
e dei reports sociologici, ad attrarre l’attenzione su
questi problemi sono stati principalmente movimenti popolari e forme
di protesta non violente nate in seno alla società civile, che
hanno visto unirsi sotto lo stesso fronte le battaglie per l’ambiente
e quelle per i diritti fondamentali.33)
Il tema del razzismo ambientale, per esempio, ha una sua preistoria
nelle proteste che, negli anni sessanta e settanta, molti leaders
del movimento dei diritti civili, da Martin Luther King a Cesar Chavez
e gli United Farm Workers, avevano messo in atto per denunciare che
afro-americani e ispanici erano sottoposti a livelli superiori di inquinamento
e di degrado.34
Per
la nascita ufficiale dell'Environmental Justice
Movement bisogna però aspettare il 1982. Il caso della
comunità di Afton, nella contea di Warren (North Carolina), rappresenta
infatti la prima forma di mobilitazione pubblica contro una situazione
di razzismo ambientale. All’inizio degli anni ’80, l’84%
della popolazione di Afton era di colore, con una piccola minoranza
costituita da nativi americani. La contea di Warren aveva la più
alta percentuale di abitanti di colore dell’intero stato del North
Carolina, ed era la seconda per livello di povertà, con un tasso
di disoccupazione del 13,3%. Nel 1982, a seguito della presentazione
di un progetto ad alto impatto per un sito di smaltimento per policlorurato
di difenile, Charles E. Cobb, uno dei responsabili della Commissione
per la Giustizia Razziale della United Church of Christ, denunciò
le condizioni di inquinamento dei luoghi abitati dalla comunità
di colore. Le manifestazioni non violente e le campagne di informazione
promosse da Cobb fecero emergere abusi industriali e ambientali che,
se pure non impedirono del tutto la costruzione della discarica, portarono
all’arresto di più di cinquecento persone.
Un altro caso significativo
è quello, più recente, della Claiborne Parish, in Lousiana.35)
Sin dal 1989 la Nuclear Regulatory Commission [Commissione regolatrice
per l’energia nucleare] aveva autorizzato la Lousiana Energy Services
a costruire il primo impianto privato per l’arricchimento dell’uranio
(avrebbe dovuto produrre il 17% dell’uranio arricchito statunitense.
E di lì a poco, con la prima guerra nel Golfo alle porte, questa
produzione avrebbe senz’altro potuto tornare utile). Dopo molte
ricerche, si decise di situare l’impianto nell’area della
Claiborne Parish. Ma stavolta le resistenze furono potenti: i residenti
si organizzarono in un comitato (il CANT, Citizens Against Nuclear Trash
[Cittadini Contro l’Immondizia Nucleare]) che, con il supporto
economico e legale del Sierra Club, intentò una causa ai danni
della Lousiana Energy Services. Dopo otto anni di processo, i giudici
conclusero che “pregiudizi razziali avevano influito sui criteri
di selezione”.36)
E i dati erano chiari: a fronte di una media nazionale del 13%, gli
afro-americani nella Claiborne Parish erano il 46%; in particolare,
nel raggio di un miglio dall’impianto, la percentuale cresceva
fino al 97,1 %. Altri dati riguardavano il reddito: contro una media
nazionale di 12800 dollari annui pro capite, nel sito prescelto la media
era di 5800 dollari, e oltre il 58% della popolazione afro-americana
viveva sotto la soglia della povertà.37)
Nel 1998, il CANT vinse la causa. I territori dove doveva sorgere l’impianto
sono stati restituiti alla loro destinazione originaria: la produzione
di legname.
La nascita del movimento
per la giustizia ambientale, e gli esempi di Afton e della Claiborne
Parish, dimostrano come sia stato possibile, benché non semplice,
che le rivendicazioni sulla qualità ambientale fuoriuscissero
dal dominio esclusivo delle classi medio-alte. In casi come questi,
il fatto che l’opinione pubblica potesse essere sensibilizzata
attraverso conferenze, proteste, pubblicazioni accademiche e mobilitazioni
popolari, ha condotto anche a risultati significativi sul piano politico.
Non a caso, il rapporto dell’Ufficio Contabile Generale (1983)
e quello della United Church of Christ (1987) ricevono un impulso decisivo
proprio dai fatti di Afton.
Tutto ciò ha contribuito
a rafforzare la coscienza del potenziale politico delle minoranze etniche.
Un passo importante in questa direzione è il Primo
Summit Nazionale della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente
(1991), in cui si elabora una piattaforma di diciassette Principi
di Giustizia Ambientale. Si afferma qui la necessità che
“le politiche pubbliche siano basate sul reciproco rispetto e
sulla giustizia per ogni cittadino, aldilà di ogni forma di discriminazione
o preconcetto” (principio 2), il richiamo
“a una protezione universale contro i test nucleari, contro l’estrazione,
la produzione e la discarica di rifiuti tossici e nocivi” (principio
4), “il diritto fondamentale all’autodeterminazione
politica, economica, culturale e ambientale di ogni cittadino”
(principio 5), “il diritto delle vittime di casi ingiustizia ambientale
a ricevere pieno risarcimento per i danni subiti, nonché cure
mediche di qualità” (principio 9) [leggi
il testo completo dei Principi di Giustizia Ambientale].38)
L’eco dei Principi (alla cui stesura
collabora anche Bullard) si avverte anche nella Dichiarazione di
Rio sull’ambiente e lo sviluppo, elaborata a seguito del summit
ONU sull’ambiente nel 1992, e nell’importante e più
recente Carta della Terra (2000), altro documento patrocinato
dall’ONU e sottoscritto da cinquantatré paesi.39)
Fondamentale è
che queste proteste abbiano avuto notevoli ripercussioni sul piano politico-normativo.
Nel 1990, infatti, l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente
(EPA) [Environmental Protection Agency: equivalente statunitense del
nostro Ministero dell’Ambiente], ha pubblicato Environmental
Equity: Reducing Risk for All Communities [Equità ambientale.
La riduzione del rischio in tutte le comunità], un rapporto
finalmente focalizzato sulla gestione politica e amministrativa dei
casi concreti di giustizia ambientale, e nel 1993 ha istituito una Commissione
di Equità Ambientale (ora Commissione di Giustizia Ambientale).
L’atto culminante
di questa nuova linea è stato però l’Ordine Esecutivo
12898, Federal Actions to Address Environmental
Justice in Minority Populations and Low-Income Populations [Azioni
federali volte a perseguire la giustizia ambientale presso le minoranze
etniche e le fasce meno abbienti della popolazione], emanato dal
presidente Bill Clinton l’undici febbraio 1994: un provvedimento
legislativo che impone la formazione di commissioni federali, la cooperazione
tra ministeri, un adattamento delle linee di politica ambientale, l’applicazione
di leggi sul diritto dei cittadini all’informazione, revisione
giudiziaria dei processi, e sostegno a ricerche in materia socio-ambientale.
Dalla promulgazione dell’Ordine Esecutivo 12898, molti casi di
giustizia ambientale sono stati classificati dall’EPA sotto il
Titolo VI dell’Atto Federale per i Diritti Civili del 1964.
Provvedimenti come questo sono indispensabili per una riconsiderazione
politica del problema, anche se è evidente che in molti casi
(uno per tutti: Odessa) non vi è stata un’adeguata corrispondenza
nelle misure applicative, né sempre una vera coerenza legislativa.
Bisogna infatti ricordare che nell’aprile 2001 (sotto l’amministrazione
Bush: la stessa che, sul versante ambientale, ha disconosciuto gli accordi
di Kyoto) la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che i privati
cittadini non possono citare in giudizio stati dell’Unione, appellandosi
al Civil Right Act del 1964. Si presume che questa decisione
rappresenterà alla lunga un limite per le cause di giustizia
ambientale.40)
Ma gli effetti di queste politiche sono ancora, per il momento, in fase
di studio.
Conclusioni. Rifiutare un
paradigma culturale.
Da
quanto si è appena detto, sono due gli elementi che si impongono
alla riflessione. Il primo è che esiste la possibilità
di una reazione a pratiche discriminatorie sociali e razziali; questa
reazione sta nel progressivo farsi visibile dei movimenti di giustizia
ambientale, le cui rivendicazioni vengono talora accolte dal legislatore.
Il secondo, invece, ci risospinge a un livello più profondo del
problema: un livello meno facilmente attaccabile, fatto di resistenze
culturali, e a fortiori politiche, le quali tendono a perpetuare
lo status quo, confidando nel fatto che le leggi sono consegnate,
per la loro applicazione, alla società, e che questa le applica
non senza filtrarle attraverso gli atteggiamenti mentali e i modelli
culturali di cui è profondamente intrisa. In altre parole, perché
vi sia un’autentica effettività nella lotta alle discriminazioni
(e una valida sanzione giuridica dei comportamenti che le esprimono)
non è sufficiente che vi sia un incontro occasionale tra le richieste
“dal basso” e i provvedimenti “dall’alto”:
è necessario, piuttosto, un cambiamento culturale profondo, che
investa la società nel suo complesso e che generi, direbbe Thomas
Kuhn, un vero e proprio mutamento di “visione del mondo”.41)
Occorre, cioè, una “rivoluzione culturale” che parta
dai nodi della società e dell’ambiente. In una società
evoluta, infatti, il rispetto dell’ambiente e la messa in discussione
delle gerarchie sociali sono due fattori essenziali e interdipendenti.
Da questo punto di vista, un atteggiamento anti-classistico (e
anti-razzistico) richiama l’idea di un valore
comunitario della differenza,
di un’egualitarismo che trasformi le discriminazioni nella
dialettica tra diverse funzioni sociali
e culturali.42)
Segnali molto incoraggianti in questo senso vengono, tra l’altro,
dagli studi di Ronald Inglehart e dalle stime delle World Values Surveys.
Vi si evidenzia come, calato in forme che non passano attraverso le
strutture tradizionali della politica, stia progressivamente prendendo
piede un modello alternativo di “cittadinanza sociale”,
in cui, contro l’individualismo materialistico del XX secolo,
prevalgano valori legati alla vita collettiva, all’ambiente, all’azione
condivisa. È questa la “rivoluzione silenziosa” della
società e dei suoi modelli culturali che, secondo Inglehart,
caratterizza lo scenario del XXI secolo.43)
In
Le parole e le cose, Michel Foucault insiste sul fatto che l’uomo
“non è che un’invenzione recente, una figura che
non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere”.44)
Vero è che le pratiche di esclusione sociale, ci fanno pensare
come in realtà questa stessa nozione sia lungi dall’essere
universale. Anzi, sembra quasi che tale “figura dello spirito”,
nel suo chiudersi su se stessa, cospiri all’autodistruzione, a
lasciarsi cancellare, “come sull’orlo del mare un volto
di sabbia”.45)
Tra
le pratiche di esclusione sociale, che sono forse più antiche
del concetto di uomo, il razzismo è l’istituzionalizzazione
culturale di una forma di gerarchia sociale. Un atteggiamento ideologico,
basato su costrutti linguistici artificiali come “tradizione”,
“etnicità”, “razza”:46)
parti di un discorso che s’impone come un modo normativo di presentare
le dicotomie, mentre in realtà legittima pratiche di sfruttamento
legate alla crescita del profitto economico (favorita, dovunque vi sia
la possibilità di ottenere manodopera sottopagata o non pagata
affatto: e in questo senso, la schiavitù è la forma più
redditizia di razzismo).47)
Il razzismo ambientale, proprio perché esprime
un’ideologia del rifiuto di un gruppo dominato, attraverso
la pratica “orientata” di smaltimento dei rifiuti
da parte di un gruppo dominante, è un’eloquente metafora
dell’esclusione, della “tendenza ad associare persone
che sono diverse con la degradazione”.48)
Se coloro che sono discriminati per motivi razziali sono respinti,
relegati ai margini, rifiutati dal gruppo dominante, è
quasi legittimo, per questo stesso gruppo dominante, scaricar loro addosso,
fisicamente, i propri rifiuti. Ancor di più, se si può
ricavare da ciò un profitto economico.
Questo atteggiamento
rispecchia, però, anche una visione “razzistica”
nei confronti dell’ambiente e della natura. Tra le innumerevoli
forme di sopraffazione (che si possono sintetizzare nel predominio del
bianco sul nero, del colonizzatore sul colonizzato, delle classi più
ricche su quelle più povere, del maschile sul femminile ecc.),49)
il dominio della natura è quello le cui conseguenze ricadono
in maniera più distruttiva su chi lo esercita. Non occorre scomodare
Barry Commoner e la sua prima legge dell’ecologia (“ogni
cosa è connessa a tutte le altre”),50)
per capire che nell’ambiente vale il principio del domino: la
natura è lo scenario comune della vita di tutti gli esseri umani
e non umani, e come non è pensabile tener soggiogata gran parte
dell’umanità perché smaltisca i rifiuti del mondo
industrializzato e favorisca così la sua crescita economica,
così non è pensabile che si continui a infliggere danni
all’ambiente globale senza che siano tutti, ma proprio tutti,
a pagare.51)
In una società
che si vuole avviata al superamento delle categorie tradizionali, e
che chiama se stessa “complessa”, “post-moderna”,
“post-industriale”,52)
è necessario, come scrive Cornel West, legare “la vita
della mente al cambiamento sociale”.53)
Questo significa lasciare che la società parli linguaggi alternativi,
che discuta e superi i “valori della tradizione”, se questi
valori santificano atteggiamenti usurpatori.54)
Significa avere chiara l’esigenza che, anche dal punto di vista
economico, lo sviluppo di strategie sostenibili è l’unica
forma di crescita auspicabile; che il diritto a un ambiente non inquinato
deve poter rientrare nelle costituzioni dei singoli paesi e tra i fondamentali
diritti umani;55)
e soprattutto significa creare i mezzi per dare alle risoluzioni in
materia socio-ambientale una forza giuridica che le renda effettivamente
esecutive e vincolanti. Tutto questo con un’idea di fondo: se
non si procederà a mettere in evidenza che il dominio dell’uomo
sull’uomo è strettamente connesso a quello dell’uomo
sull’ambiente, e che la prima forma di razzismo è proprio
nella nostra ignoranza degli equilibri ecologici, allora sarà
difficile che l’umanità non finisca, in un senso più
radicale di quello inteso da Foucault, tra i rifiuti della storia. E,
soprattutto, senza troppi problemi di smaltimento.
Razzismo
ambientale. documenti.
Memorandum
di Lawrence H. Summers, capo-economista della Banca Mondiale (1991)
Il memorandum fu fatto girare
alla fine del 1991, presumibilmente come direttiva riservata, negli
ambienti della Banca Mondiale dal suo capo-economista. Esso è
diventato di dominio pubblico dopo essere stato consegnato alla stampa
da una fonte interna alla Banca Mondiale stessa.
Data:
12 Dicembre 1991
A: Distribuzione
Da: Lawrence H. Summers
Soggetto: GEP [sigla
non definita: probabilmente “Global Environmental Pollution”:
“Inquinamento ambientale globale”]
Industrie “sporche”:
detto tra noi, non dovrebbe la Banca Mondiale incoraggiare di PIU’
la migrazione delle industrie sporche verso i PMS [paesi meno sviluppati]?
Mi vengono in mente tre ragioni:
1.
Le stime dei costi dell’inquinamento nocivo alla salute dipendono
dai guadagni perduti a causa delle aumentate condizioni di mortalità
e malattia. Da questo punto di vista una data quantità di inquinamento
nocivo alla salute dev’essere destinata al paese con i costi minori,
che sarà il paese con i salari più bassi. Ritengo che
la logica economica implicita nello smaltire rifiuti tossici nel paese
con i salari più bassi sia impeccabile, e che sia qualcosa con
cui dobbiamo fare i conti.
2. È verosimile che i
costi dell’inquinamento seguano un andamento non lineare, mentre
l’incremento iniziale dei livelli di inquinamento ha, probabilmente,
costi molto bassi. Ho sempre pensato che paesi sottopopolati dell’Africa
siano di gran lunga SOTTOinquinati; certo, paragonata a Los Angeles
o a Città del Messico, la qualità dell’aria, in
questi paesi, è probabilmente molto bassa, e improduttivamente.
Il fatto che molta parte dell’inquinamento sia generata [in Occidente]
da industrie non esportabili (trasporti, produzione di energia elettrica)
e che i costi del trasporto dei rifiuti solidi siano tanto alti, impedisce
al benessere mondiale di crescere, favorendo un mercato dell’inquinamento
ambientale e dello smaltimento dei rifiuti.
3. L’esigenza di
un ambiente pulito per ragioni estetiche e sanitarie è verosimilmente
soggetta ad avere profitti molto elastici. La preoccupazione per un
agente inquinante che causi una minima variazione statistica nell’eventualità
di cancro alla prostata è ovviamente destinata a essere molto
più elevata in paesi dove la gente vive più a lungo, che
non in un paese dove la mortalità sotto i cinque anni è
di 200 casi su 1000. Quindi, molte delle preoccupazioni sugli scarichi
atmosferici industriali riguardano la visibilità degli effetti
dei particolati nocivi. L’impatto diretto di questi scarichi sulla
salute può essere lieve. Mentre la produzione è mobile,
il consumo di aria pulita non è commerciabile. Il problema con
gli argomenti contro tutte queste proposte per incrementare l’inquinamento
nei PMS (diritti intrinseci a determinati beni, ragioni morali, preoccupazioni
sociali, mancanza di mercati adeguati, ecc.) potrebbe essere aggirato
e usato più o meno vantaggiosamente nei confronti di ogni proposta
bancaria di liberalizzazione.
[Fonte:
Citato in Joseph DesJardin, Environmental Ethics.
An Introduction to Environmental Philosophy, Toronto: Wadsworth-Thomson
Learning, 3a ed. 2001, pp. 232-33. Trad. it. di Serenella Iovino]
(ritorna
all'inizio)
(ritorna al testo)
Rapporto
della Commissione per la Giustizia Razziale, United Church of Christ
(1987)
Dopo
anni di ricerche, in parte sollecitate dai fatti di Afton
(1982), la Commissione per la Giustizia Razziale della United
Church of Christ stila il primo rapporto completo sulle inter-relazioni
tra razza, status sociale e inquinamento ambientale negli USA. Si tratta
ancora, a tutt’oggi, di uno dei punti di partenza indispensabili
per chiunque affronti il problema del razzismo ambientale.
[...] Fino alla fine
degli anni ’70, la maggior parte dei rifiuti tossici era smaltito
senza nessuna considerazione dei rischi che ciò comportava. Non
vi era, inoltre, alcuna cura specifica nei processi di produzione, conservazione
e trasporto degli elementi tossici di origine chimica. La chiara mancanza
di regole nella gestione dei rifiuti tossici ha determinato un’atmosfera
permissiva per la creazione di discariche di rifiuti alle condizioni
economicamente più vantaggiose. L’EPA [Environmental Protection
Agency: equivalente del Ministero per l’Ambiente] ha riconosciuto
che, fino a questo momento, dall’80 al 90% dei rifiuti tossici
sono stati smaltiti senza adeguata salvaguardia della salute umana e
dell’ambiente. [...] Lo studio descrittivo [...] ha trovato che
più della metà della popolazione degli Stati Uniti viveva
in aree di residenza locali con uno o più siti tossici non protetti.
Lo studio ha anche trovato che, su cinque afro- o ispano-americani,
tre vivevano in comunità con siti tossici non protetti. Il risultato
dello studio suggerisce che il numero sproporzionato di persone di una
particolare razza o gruppo etnico residenti in comunità con impianti
per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali non è una
eventualità casuale, ma un modello ricorrente. Associazioni statistiche
tra la razza e la collocazione di questi impianti si sono dimostrate
più consistenti delle altre associazioni testate. La probabilità
che si tratti di un’associazione puramente casuale è meno
di una su diecimila. È significativo che, rispetto ad altri fattori
esaminati, la razza sia un fattore di gran lunga predominante nella
collocazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali.
Questo avviene chiaramente nel caso dello status socio-economico. La
relazione più stringente tra lo status socio-economico e la collocazione
di impianti per lo smaltimento dei rifiuti tossici commerciali si è
evidenziata dopo accurati controlli sulle differenze regionali e sull’urbanizzazione.
Il bilancio familiare e il valore delle case erano notevolmente più
bassi quando le comunità con siti di smaltimento dei rifiuti
tossici venivano paragonate a comunità della stessa area geografica
prive di questi siti. Il bilancio familiare medio e il valore medio
delle abitazioni [...] erano inferiori, rispettivamente, di 2745 dollari,
e di 17301 dollari. [...] È chiaro da queste ricerche che, aumentando
in una comunità il numero dei residenti di razza e etnia diversa,
aumenta anche la probabilità che si verifichi una qualche forma
di attività legata allo smaltimento dei rifiuti nocivi. Le implicazioni
di questa conclusione sono serie. Il Rapporto Heckler56)
ha fornito i dettagli sulle morti eccessive di afro-americani e di altri
gruppi razziali o etnici in questo paese. La presenza di siti di smaltimento
per rifiuti tossici serve solo a rendere più complesso il problema.
Poiché molti impianti e siti senza salvaguardia sono di solito
collocati in quelle aree urbane dove risiede un gran numero di americani
di diversa razza ed etnia, i rischi potenziali causati da perdite durante
il trasporto, da esplosioni, da emissioni tossiche e da contaminazioni
delle falde acquifere colpiscono nella maniera più dura quegli
stessi gruppi razziali ed etnici che sono considerati “a rischio”
quando si parla di salute e benessere. [...]
[Fonte:
Commission for Racial Justice, United Church of Christ, Toxic Wastes
and Race in the United States: A National Report on the Racial and Socio-Economic
Characteristics of Communities with Hazardous Waste Sites, New York,
Public Data Access, 1987, pp. 3, 13, 15-16, 17. Trad. it. di Serenella
Iovino]
(ritorna
all'inizio)
(ritorna
al testo)
Giustizia
e razzismo ambientale. Intervista a Robert D. Bullard [*]
(1999)
Errol
Schweizer (ES): Che cos’è il movimento di giustizia ambientale?
Robert
Bullard (RB): Il movimento di giustizia ambientale ha sostanzialmente
ridefinito gli obiettivi dell’ambientalismo. Esso ci dà
la definizione primaria di quel che è ambiente: il luogo in cui
viviamo, lavoriamo, giochiamo, andiamo a scuola, e insieme il mondo
fisico e naturale. Per questo, è impossibile separare l’ambiente
fisico dall’ambiente culturale. Occorre discutere sull’opportunità
di assicurarsi che criteri di giustizia siano parte integrante di tutto
ciò che facciamo.
ES:
Come si sono organizzati i gruppi di giustizia ambientale?
RB:
Per la maggior parte, un gran numero di organizzazioni di cittadini
opera secondo un modello di azione popolare. Queste organizzazioni non
hanno veri e proprie cabine di comando, grossi budgets e ampio staff,
ma operano con l’idea che ognuno abbia un ruolo, e che, uniti
in questo progetto, tutti noi siamo uguali. I gruppi di giustizia ambientale
sono più egualitari, e la maggior parte di essi è guidata
da donne, il che ne fa istituzioni più democratiche. Non dico
che si tratti di organizzazioni perfette, ma alla loro base c’è
l’idea che il potere debba essere nelle mani di tutti, e che quando
agiamo come un corpo collettivo, questo potere si accresca. Avanziamo
uniti, come un organismo, non necessariamente con una gerarchia. Ma
penso che gran parte di ciò dipenda dalla possibilità
di sollevare questioni in grado di mobilizzare, organizzare e catalizzare
migliaia di persone in una manifestazione. Ciò ci spinge a lottare
per i nostri obiettivi, e a non recedere prima di averli raggiunti.
Ritengo inoltre che questo
elemento faccia del movimento di giustizia ambientale un movimento di
azione popolare formato da gente comune, persone che magari non si identificano
con gli ambientalisti tradizionali, ma che sono impegnate nella difesa
dell’ambiente esattamente come un membro del Sierra Club o della
Audubon Society.
ES:
Come è è arrivato il movimento di giustizia ambientale
a confliggere con queste organizzazioni ambientalistiche, tradizionali
e “bianche”?
RB:
C’è stata una lunga serie di conflitti e malintesi su quale
fosse il ruolo di alcuni gruppi verdi, in relazione alla giustizia ambientale,
specie lavorando in comunità di colore. E quel che stiamo dicendo
è che c’è solo un ambiente. Parlo della terra,
dove viviamo; e in effetti, se ci stiamo muovendo verso la costituzione
di un movimento globale di giustizia ambientale, dobbiamo capire che
cosa significa “ambiente” e quali sono le priorità
da mettere in agenda. Numerosi movimenti popolari e comunità
di colore sostengono che dobbiamo lavorare nelle nostre comunità,
e farci carico di dare educazione e forza politica alla nostra gente,
prima di poter parlare di avere altre persone che facciano qualcosa
per conto nostro. Penso che, in generale, molte organizzazioni popolari
siano arrivate a confrontarsi con diversi gruppi più grandi,
che non avevano esattamente compreso che cosa si intende per giustizia
ambientale.
Noi diciamo che la giustizia
ambientale incorpora l’idea che ci si preoccupi, certo, per il
destino di paludi, uccelli e aree incontaminate, ma anche per gli habitat
urbani, le condizioni dei quartieri in cui la gente vive, le riserve,
le vicende che accadono lungo il confine tra USA e Messico, i bambini
avvelenati dal piombo nelle loro case, e i ragazzi che giocano fuori
casa, in spazi contaminati. Dobbiamo quindi lottare affinché
tali questioni siano visibili anche per i grandi gruppi ambientalisti.
Abbiamo fatto notevoli progressi dal 1990, quando, guardando ai loro
staff e ai loro quadri dirigenti, abbiamo pubblicamente accusato questi
gruppi di razzismo ambientale, di elitismo, e li abbiamo invitati a
un confronto. Da allora si sono avute occasioni di dialogo, scambio
e collaborazione. Abbiamo fatto progressi, ma c’è ancora
molto da fare, poiché il movimento ambientalista in senso lato,
e cioè il movimento volto per lo più alla tutela dell’ambiente
naturale, rispecchia davvero la società nel suo complesso. E
la società è razzista. Perciò, non possiamo aspettarci
che le nostre organizzazioni non siano anch’esse influenzate da
questo stato di cose. Non stiamo dicendo che le persone sono malvage
e che queste organizzazioni sono state messe in
piedi per danneggiarci, ma stiamo dicendo che dobbiamo educare noi stessi
e imparare a conoscerci reciprocamente. Dobbiamo varcare i confini e
andare dall’altro lato della strada, uscire dalle periferie e
partecipare alle manifestazioni cittadine, imparare gli uni dagli altri.
È quello che stiamo cercando di fare da vent’anni: cercare
un piattaforma comune su cui lavorare insieme, dandoci dei principi.
Nel 1991 abbiamo avuto il Primo Summit Nazionale della Popolazione di
Colore per il Controllo dell’Ambiente, e abbiamo sviluppato 17
principi di giustizia ambientale. Il problema fondamentale è
questo: come possiamo noi, in quanto gente di colore, appartenenti alla
classe operaia e poveri, lavorare su agende d’azione politica
che nello stesso tempo possono entrare in conflitto con le agende più
ampie dei grandi gruppi. E quello che stiamo dicendo è che possiamo
non essere d’accordo su tutto, ma certo sono più le cose
su cui siamo d’accordo, che quelle su cui non lo siamo. E penso
che questo accordo vada rafforzato, per poter tanto lavorare su ciò
che ci unisce, quanto superare ciò che ci divide.
ES:
Qual è stato il ruolo della razza nella collocazione dei siti
di smaltimento per rifiuti tossici, negli Stati Uniti?
RB:
La razza continua a essere il fattore dominante per predire dove verranno
destinati i siti per gli Usi del Territorio Localmente Indesiderati
(LULUs: Locally Unwanted Land Uses). Molti sostengono che pesi di più
la classe sociale, ma razza e classe sono fattori interdipendenti. Proprio
perché la società è così razzista e perché
il razzismo tocca ogni istituzione (impieghi, alloggi, formazione, dislocazione
dei servizi, destinazione d’uso del territorio), non è
realmente possibile eliminare il fattore razziale dalle decisioni prese
da persone che hanno il potere di farlo. Gli accordi di potere sono,
da questo punto di vista, iniqui. Il razzismo esiste “istituzionalmente”
nelle politiche ambientali, nell’applicazione della legge, nella
gestione del territorio, nella distribuzione delle aree urbane, e così
via. Sono tutte questioni legate all’ambiente, e dobbiamo assicurarci
che ciò venga compreso dai nostri fratelli e sorelle che lavorano
nei gruppi ambientalisti.
La
giustizia ambientale non è un programma sociale, non è
affirmative action [misura che garantisce pari opportunità
ai gruppi etnici], ma è una questione di giustizia. E finché
non avremo giustizia nella protezione dell’ambiente, giustizia
in termini di applicazione delle leggi, non potremo neanche iniziare
a parlare di sviluppo sostenibile o sollevare questioni sulla sostenibilità.
I tanti gruppi che cercano di sollevare tali questioni senza un reale
confronto con il problema razziale si ingannano da soli. Quando parliamo
di quanto succede lungo il confine con il Messico, delle colonias
e delle maquilas, della devastazione che colpisce quei luoghi,
delle condizioni di salute dei bambini e dei lavoratori [Bullard si
riferisce agli effetti del NAFTA, North American Free Trade Agreement],
non comprendiamo che tutto ciò è collegato ai nostri modelli
di consumo, e al fatto che chi ha più soldi consuma di più.
Queste sono questioni che possono apparire impopolari, quando siamo
seduti in una stanza a fare conversazione, ma io penso che questo sia
esattamente il modo in cui il movimento di giustizia ambientale sta
spingendo questi problemi sul tappeto, costringendo moltissime persone
a riflettere su come si possa iniziare a denunciare le disuguaglianze
e le iniquità, e insieme la posizione privilegiata che alcuni
occupano solo in virtù del colore della loro pelle. È
qui che occorre fare i conti con le questioni della giustizia. Ora,
tutte le problematiche legate al razzismo
e alla giustizia ambientale non riguardano solo ed esclusivamente persone
di colore. Noi ci preoccupiamo allo stesso modo, per esempio, delle
iniquità ambientali nella regione dei monti Appalachi, dove i
bianchi sono colpiti dall’inquinamento, essenzialmente perché
non hanno alcun peso sul piano economico e politico, e perché
non hanno alcuna voce per esprimere il proprio dissenso: e questa è
ingiustizia ambientale. Stiamo quindi cercando di lavorare con gruppi
che attraversano l’intero spettro politico: democratici, repubblicani,
indipendenti, siano essi nelle riserve, nei barrios, nei ghetti,
dentro e fuori i confini nazionali, per vedere di affrontare tali questioni
nella maniera più ampia possibile. [...]
[Fonte:
Earth First! Journal, luglio 1999, on-line: http://www.ejnet.org/ej/bullard.html
(consultato il 10 marzo 2005). Il testo dell’intervista non è
coperto da copy-right. Trad. it. di Serenella Iovino]
(ritorna all'inizio)
(ritorna
al testo)
Primo
Summit Nazionale della Popolazione di Colore per
il Controllo dell’Ambiente (1991): Principi di Giustizia
Ambientale.
I
diciassette Principi di Giustizia Ambientale sono stati sottoscritti
dai delegati al Primo Summit Nazionale
della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente,
tenutosi dal 24 al 27 ottobre 1991 a Washington DC. Da allora, i Principi
sono stati assunti come documento fondamentale da tutti i movimenti
di giustizia ambientale.
Preambolo
noi,
cittadini di colore, riuniti insieme in questo Summit multi-nazionale
della Popolazione di Colore per il Controllo dell’Ambiente,
al fine di iniziare a costruire un movimento nazionale e internazionale
di tutta la popolazione di colore che combatta la distruzione e il saccheggio
delle nostre terre e delle nostre comunità, ribadiamo con questo
documento la nostra interdipendenza spirituale con la sacralità
della Madre Terra. Per rispettare e celebrare ognuno dei nostri linguaggi,
delle nostre culture e delle nostre fedi intorno al mondo naturale,
e il nostro ruolo nella salvezza di tutto quanto ci appartiene; per
assicurare la giustizia ambientale; per promuovere alternative economiche
che possano contribuire allo sviluppo di forme
economiche sostenibili per l’ambiente; e per assicurare una liberazione
politica, economica e culturale che ci è stata negata da oltre
cinquecento anni di colonizzazione e oppressione, culminando con l’avvelenamento
delle nostre comunità e dei nostri territori, e con il genocidio
della nostra gente, noi affermiamo questi Principi di Giustizia Ambientale:
1.
la Giustizia Ambientale sostiene la sacralità della Madre Terra,
l’unità ecologica e l’interdipendenza di tutte le
specie, e il diritto a non essere fatti oggetto di distruzione ecologica;
2.
la Giustizia Ambientale esige che le politiche pubbliche siano
basate sul reciproco rispetto e sulla giustizia da garantire a tutti
i cittadini, aldilà di ogni forma di discriminazione o preconcetto;
3. la Giustizia
Ambientale dispone il diritto a usi etici, equilibrati e responsabili
della terra e delle risorse rinnovabili nell’interesse di un pianeta
sostenibile per gli esseri umani e per le altre forme di vita;
4.
la Giustizia Ambientale invoca una protezione universale contro i test
nucleari, contro l’estrazione, la produzione e la discarica di
rifiuti tossici e nocivi e di altri veleni che minaccino il diritto
fondamentale ad avere aria, terra, acqua e cibo non contaminati;
5. la Giustizia Ambientale afferma il diritto fondamentale all’autodeterminazione
politica, economica, culturale e ambientale di ogni cittadino;
6. la
Giustizia Ambientale esige la cessazione della produzione di tossine,
rifiuti nocivi e materiali radioattivi, e richiede che tutti coloro
che, adesso o in passato, abbiano prodotto tali sostanze, debbano rendere
rigorosamente conto alla popolazione, e impegnarsi a bonificare e controllare
i luoghi contaminati;
7. la
Giustizia Ambientale esige il diritto di ognuno a partecipare come interlocutore
a qualsiasi livello dei processi decisionali, incluse la stima delle
necessità locali, la pianificazione, l’attuazione, l’applicazione
e la valutazione di qualsivoglia misura;
8. la
Giustizia Ambientale afferma il diritto di tutti i lavoratori a un ambiente
di lavoro sano e sicuro, e a non essere costretti a scegliere tra la
disoccupazione e un impiego che non garantisca le necessarie condizioni
di sicurezza. Essa afferma altresì il diritto di coloro che lavorano
in casa propria a essere al riparo da rischi ambientali;
9.
la Giustizia Ambientale tutela il diritto delle vittime di casi
ingiustizia ambientale a ricevere pieno risarcimento per i danni subiti,
nonché cure mediche di qualità;
10. la
Giustizia Ambientale considera gli atti governativi di ingiustizia ambientale
una violazione del diritto internazionale, della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani, e della Convenzione ONU sul Genocidio;
11. la Giustizia
Ambientale impone il riconoscimento di uno speciale vincolo legale e
naturale delle Popolazioni Native con il Governo degli Stati Uniti attraverso
l’istituzione di trattati, di accordi, di patti e convenzioni
tesi a tutelare la sovranità e l’autodeterminazione di
tali popolazioni;
12. la Giustizia Ambientale
afferma la necessità per le politiche ecologiche urbane e rurali
di bonificare e ricostruire le nostre aree urbane e rurali in equilibrio
con la natura, onorando l’integrità culturale di tutte
le nostre comunità, e provvedendo per ciascuno un equo accesso
a tutte le risorse disponibili;
13. la Giustizia Ambientale
invoca la stretta applicazione di principi di consenso informato, e
la fine dell’uso della popolazione di colore come cavia per le
somministrazioni sperimentali di procedure riproduttive e mediche e
di nuovi vaccini;
14. la Giustizia Ambientale
si oppone all’operato distruttivo delle multinazionali;
15. la Giustizia Ambientale
si oppone all’occupazione militare, alla repressione armata e
allo sfruttamento di territori, persone e culture, e di altre forme
di vita;
16. la Giustizia Ambientale
invoca un’educazione delle generazioni presenti e future che ponga
al centro problematiche sociali e ambientali, sulla base della nostra
esperienza e in considerazione delle nostre diverse prospettive culturali;
17. la Giustizia Ambientale
richiede che noi, come individui, facciamo la nostra scelta personale
di consumare al minimo le risorse della Madre Terra e di produrre minore
quantità possibile di rifiuti non riciclabili; e che prendiamo
consciamente la decisione di mettere seriamente in discussione il nostro
stile di vita, così da assicurare la salute del mondo naturale
per le generazioni presenti e future.
[Fonte:
R. Hofrichter (cur.), Toxic Struggles:
The Theory and Practice of Environmental Justice, Philadelphia:
New Society Publisher, 1993, pp. 237-39. Testo
disponibile on-line all’indirizzo: http://www.ejnet.org/ej/principles.html
(consultato il 20 dicembre 2004). Trad. it. di Serenella Iovino]
(ritorna
all'inizio)
(ritorna
al testo)
Note
1
Citato in Joseph DesJardin, Environmental Ethics. An Introduction
to Environmental Philosophy (Toronto: Wadsworth-Thomson Learning,
3a ed. 2001), pp. 232-33. Il memorandum è diventato di dominio
pubblico dopo essere stato consegnato alla stampa da una fonte interna
alla Banca Mondiale. Quando il documento fu reso noto, Summers si
scusò, affermando che in realtà le sue parole volevano
essere ironiche.
2
Il dato è tratto da United Nations Environment Programme, After
the Tsunami. Rapid Environmental Assessment (UNEP: 2005), p. 135
(disponibile on-line sul sito dell’UNEP: http://www.unep.org/Documents.Multilingual/,
sito consultato il 10 marzo 2005). Un’altra fonte (WWF,
riportata dalle agenzie il 10 marzo 2005) dà una sproporzione
anche più netta: 8 dollari contro 1000 (cfr. per es.: http://italy.peacelink.org/ecologia).
3
Robert Figueroa, Claudia Mills, Environmental Justice, in Dale
Jamieson (cur.), A Companion to Environmental Philosophy (Malden:
Blackwell, 2001), pp. 426-38; p. 426.
4
Cfr. Wolfgang Sachs (cur.), Global Ecology: A New Arena of Political
Conflict (Atlantic Highlands: Zed Books, 1993).
5
Cfr. Pierre Bourdieu, Langage et pouvoir symbolique (Paris:
Éditions du Seuil, 2001).
6
Cfr. Vandana Shiva, The Impoverishment of the Environment,
in Maria Mies, Vandana Shiva (curr.), Ecofeminism (London:
Zed Books, 1993); e Id., Waterwars: Privatisation, Pollution and
Profit (Cambridge, MA: South End Press, 2002). L’introduzione
delle monoculture e dei fertilizzanti chimici è un semplice
esempio di questa trasformazione e di questo progressivo impoverimento
dei territori e dei loro ecosistemi.
7
Vandana Shiva, Staying Alive: Women, Ecology and Development
(London: Zed Books, 1989). Un’altra questione spinosa è
quella del “costo” di questo sviluppo, in termini di debito
pubblico dei paesi del Terzo Mondo verso quelli del Primo: su questo
si veda Dale Jamieson, Global Environmental Justice, in Robin
Attfield, Andrew Belsey (curr.), Philosophy and the Natural Environment
(Cambridge: Cambridge University Press, 1994), pp. 199-210.
8
T.B.K. Goldtooth, Indigenous Nations: A Summary of Sovereignty
Implications for Environmental Protection, in Bunyan Bryant (cur.),
Environmental Justice: Issues, Policies, and Solutions, (Washington
DC: Island Press), pp. 138-50.
9
Winona LaDuke, A Society Based on Conquest Cannot Be Sustained:
Native People and the Environmental Crisis, in R. Hofrichter (cur.),
Toxic Struggles: The Theory and Practice of Environmental Justice,
Philadelphia: New Society Publisher, 1993, pp. 98-106; p. 99.
10
Cfr. Vandana Shiva, The Greening of the Global Reach, in Sachs,
Global Ecology, cit., pp. 149-56.
11
Anche su questo riferisce il report dell’UNEP, After
the Tsunami, cit. On-line sono disponibili molti articoli sul
tema. Si vedano, per esempio, Emanuela Giordano, Lo tsunami ha
dissotterrato i rifiuti tossici (“il manifesto”, 6
marzo 2005), testo su PeaceLink (http://italy.peacelink.org/ecologia/articles/art_9989.html);
News Ambiente ANSA.it, Rifiuti: Tsunami; WWF, Allarme chimico-nucleare
in Somalia, http://www.arpalombardia.it/new/live/
(siti consultati il 10 marzo 2005). Ricordo, per inciso, che la commissione
di indagine UNEP sui rifiuti tossici in Somalia è intitolata
alla giornalista Ilaria Alpi, assassinata a Mogadiscio proprio mentre
indagava sullo smaltimento illegale dei rifiuti tossici.
12
Cfr. Peter S. Wenz, Environmental Justice (Buffalo: SUNY Press,
1988), p. 4.
14
Cfr. Figueroa, Mills, Environmental Justice, cit., p. 436.
16
Figueroa, Mills, Environmental Justice, p. 432.
17
Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle
persone, tr. it. di Oliviero Pesce (Laterza: Roma-Bari, 1999),
p. 124.
19
United Church of Christ Commission for Racial Justice,
Toxic Wastes and Race in the United States: A National Report on
the Racial and Socio-Economic Characteristics of Comminities with
Hazardous Waste Sites (New York: Public Data Access, Inc., 1987),
pp. 13-17.
20
Così il responsabile dello studio, Benjamin F. Chavis,
nella presentazione del Report al National Press Club (Washington
US House of Representatives, Environmental Justice: Hearings Before
the Subcommittee on Civil and Constitutional Rights, Committee on
Judiciary, 103rd Congress, 1st Session, Washington DC: US Government
Printing Office, March 3-4, 1993, p. 4).
21
United States General Accounting Office, Siting of Hazardous Waste
Landfills and Their Correlation with Racial and Economic Status Surrounding
Communities, GAO/RCED, 1983, pp. 83-168.
22
U.S. Department of Health and Human Services, Report on Black and
Minority Health (Washington D.C.: U.S. Department of Health and
Human Services, 1985). Il rapporto prende il nome dal segretario del
dipartimento, Margaret Heckler.
23
Cfr. United Church of Christ Commission for Racial
Justice, Toxic Wastes and Race in the United States, cit.,
p. ix.
24
Da anni Bullard, professore di sociologia alla University of California,
Riverdale, mette in luce le connessioni tra tessuto sociale, interessi
economici e degrado ambientale. I suoi studi sul razzismo ambientale
sono diventati veri e propri classici di sociologia dell’ambiente.
Il suo libro più famoso, Dumping in Dixie: Race, Class,
and Environmental Quality (Boulder: Westview Press, 1990, 3a ed.
2000) si concentra sugli Stati Uniti del Sud, ed è stato tra
i primi a documentare case-studies di razzismo ambientale e
a seguire lo sviluppo del movimento di giustizia ambientale. Tra gli
altri titoli, i più significativi sono: Confronting Environmental
Racism: Voices from the Grassroots (Boston: South End Press, 1993);
Unequal Protection: Environmental Justice and Communities of Color
(San Francisco: Sierra Club Books, 1996). E inoltre: (curato con J.
Eugene Grigsby III e Charles Lee) Residential Apartheid: The American
Legacy (Los Angeles: University of California Press, 1994); (curato
con Julian Agyeman e Bob Evans) Just Sustainabilities: Development
in an Unequal World (Boston: The MIT Press, 2003); (curato con
Glenn S. Johnson e Angel O. Torres) Highway Robbery: Transportation
Racism and New Routes to Equity (Boston: South End Press, 2004).
25
Robert D. Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA,
in “Local Enviroment”, vol. 4, n. 1, 1999, pp. 5-18; p.
5.
26
Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, cit.
27
Daniel C. Wigley, Kristin Shrader-Frechette, Environmental Racism
and Biased Methods of Risk Assessment, on-line: http://piercelaw.edu/risk/vol7/winter/wigley.htm
(consultato il 3 febbraio 2005);
e Consent, Equity, and Environmental Justice: A Louisiana Case
Study, in Laura Westra, Peter S. Wenz (curr.), Faces of Environmental
Racism (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 1995).
28
Marianne Lavelle, Marcia Coyle, Unequal Protection, in “National
Law Journal”, 21 settembre 1992.
30
Cfr. Bullard, Confronting Environmental Racism, cit., e D.
Russell, Environmental Racism: Minority Communities and Their Battle
Against Toxics, in “Amicus Journal”, 1, 1989, pp.
22-32.
32
Contro questa opinione: Robert Emmett Jones, Blacks Just Don’t
Care: Unmasking Popular Stereotypes About Concern for the Environment
Among African-Americans, in “International Journal of Public
Administration”, 2002, vol. 25, nn. 2 e 3.
33
Oltre agli scritti di Bullard (in particolare Confronting Environmental
Racism), vedi Melissa Thorme, Establishing Environment as a
Human Right, in “Denver Journal of International Law and
Policy”, 19, 1991; James W. Nickel, Eduardo Viola, Integrating
Environmentalism and Human Rights, in “Environmental Ethics”,
16, 1994, rist. in Andrew Light, Holmes Rolston III (curr.), Environmental
Ethics: An Anthology (Malden: Blackwell, 2003), pp. 472-77.
34
Cfr. Bullard, Confronting Environmental Racism, cit.; Figueroa,
Mills, Environmental Justice, cit., pp. 428-29.
35
Cfr. gli articoli di Wigley e Shrader-Frechette, Environmental
Racism and Biased Methods of Risk Assessment, cit., e Consent,
Equity, and Environmental Justice: A Louisiana Case Study, cit.;
e Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, cit.
36
Bullard, Dismantling Environmental Racism in the USA, cit.,
p. 15.
37
Per tutti i dati relativi al caso, vedi US Nuclear Regulatory Commission,
Final Environmental Impact Statement for the Construction and Operation
of Claiborne Enrichment Center (Homer, Lousiana, 1994).
38
Cfr. First National People of Color Environmental Leadership Summit,
Principles of Environmental Justice, in Hofrichter, Toxic
Struggles, cit., pp. 237-39. Il testo è disponibile anche
on-line all’indirizzo: http://www.ejnet.org/ej/principles.html
(consultato il 20 dicembre 2004).
39
Cfr. The Rio Declaration, in Louis P. Pojman (cur.),
Environmental Ethics. Readings in Theory and Application, (Belmont,
CA: Wadsworth, 1998, 2a ed.), pp. 566-68. Per la Carta della Terra,
testo e documenti on-line sul sito: www.earthcharter.org
(consultato il 12 ottobre 2004).
40
Cfr. Franz Neil, Supreme Court Ruling May Hurt Environmental Justice
Claims, in “Chemical Week”, 2 maggio 2001.
41
Il richiamo è a La struttura delle rivoluzioni scientifiche
(Torino: Einaudi, 1962).
42
Cfr. Arne Naess, The Shallow and the Deep. Long-Range
Ecology Movement. A Summary, in “Inquiry”, 16, 1973,
pp. 95-100; Id., Ecology, Community and Lifeerrore, (Cambridge:
Cambridge University Press, 1989); e Murray Bookchin, The Ecology
of Freedom: The Emergence and Dissolution of Hierarchy (Palo Alto:
Cheshire Books, 1982).
43
Cfr. Ronald Inglehart, Modernization and Postmodernization: Cultural,
Economic and Political Change in 43 Societies (Princeton, NJ:
Princeton University Press, 1997); Id., The Silent Revolution:
Changing Values and Political errores (Princeton, NJ: Princeton
University Press, 1977).
44
Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle
scienze umane, tr. it. di Emilio Panaitescu (Milano: Bur,
1988), p. 13.
46
Cfr. Bourdieu, Langage et pouvoir symbolique, cit.
47
Su schiavitù e razzismo, in chiave filosofico-sociale, vedi
Tommy L. Lott (cur.), Subjugation and Bondage. Critical Essays
on Slavery and Social Philosophy (Lanham: Rowman & Littlefield,
1998).
48
Cornel West, Christian Love and Heterosexism, in The Cornel
West Reader (New York: Basic Civitas Books, 1999), p. 402.
49
Cfr. Val Plumwood, Feminism and the Mastery
of Nature (London: Routledge, 1993).
50
Barry Commoner, The Closing Circle: Nature, Man and Technology
(New York: Knopf, 1971), p. 33.
51
Su questo, si veda Robin Attfield, The Ethics of the Global Environment
(Edinburgh: Edinburgh University Press, 1999).
52
Cfr. Inglehart, Modernization and Postmodernization, cit.;
Maurizio Valsania, Umanesimo postindustriale. Breve apologia della
speranza sociale (Milano: Franco Angeli, 2005).
53
Cfr. Cornel West, Prophetic Christian as Organic Intellectual:
Martin Luther King, Jr., in The Cornel West Reader, cit.,
p. 426.
54
Sulla necessità, per la società post-industriale, di
apprezzare i valori della tradizione senza rimanerne imprigionata,
e sul concetto di tradizione come “fedeltà ai posteri”,
vedi Valsania, Umanesimo post-industriale, cit., p. 111 e ss.
55
Cfr. Nickel, Viola, Integrating Environmentalism and Human Rights,
cit.; e Thorme, Establishing Environment as
a Human Right, cit. Bisogna ricordare che il diritto all’ambiente
è già riconosciuto dalla Carta Costituzionale di diversi
stati, tra cui Honduras, Portogallo, Corea del
Sud, Brasile: vedi Edith Brown Weiss, In Fairness to Future Generations
(Dobbs Ferry, NY: Transnational Publishers 1989).
56
U.S. Department of Health and Human Services, Report on Black and
Minority Health (Washington D.C.: U.S. Department of Health and
Human Services, 1985). Il rapporto prende il nome dal segretario del
dipartimento, Margaret Heckler.