Identità e rifiuto: appunti per un’antropologia
del postmoderno
di Eleonora
de Conciliis
Le riflessioni
che seguono intendono mettere in evidenza ciò che nel termine
‘rifiuto’ rinvia, più o meno implicitamente, all’atto
del rifiutare, concepito in due forme apparentemente opposte ma in realtà
complementari: quella della negazione/esclusione e quella dell’incorporazione/sfruttamento,
di cui il rifiuto costituisce il prodotto ultimo. A questo scopo, invece
di partire dalla definizione di ciò che il rifiuto è,
o ci appare, una volta divenuto tale, mi servirò di una metafora
alimentare capace di illuminare il processo che produce il rifiuto
(e con esso il rifiutante), la sua specifica materialità, il
suo rapporto segreto con chi o con ciò che lo ha rifiutato. Si
tratta di un movimento inferiore, basso, spesso oscuro e inconscio,
oltre che ripugnante, che permette tuttavia di interrogare la relazione
identitaria che esiste – nostro malgrado – tra il soggetto
e l’oggetto del rifiutare, nel medio del metabolismo: una
trasformazione inevitabile dell’altro nello stesso e poi nell’altro
– una sorta di violenza circolare.
L’analisi
antropologica, prima che sociologica, dell’incorporazione, costringe
ad allontanarsi tanto dagli specialismi medico-sanitari della biopolitica
(1),
quanto dai recinti identitari classici, nei quali la filosofia ha iscritto
l’esperienza soggettivo-coscienziale e il complementare statuto
dell’oggetto; la metafora alimentare, a sua volta, consente di
abbandonare la rigida distinzione tra me e non-me, tra corpo e psiche,
tra uomo e animale, tra singolo e collettività, riportando il
senso e il linguaggio della riflessione sui rifiuti in una sfera per
così dire originaria, primordiale e tuttavia non priva di un’inquietante
storicità. Infine, il movimento dell’incorporazione invita
il pensiero a passare dalla (depurata, trascendentale) forma
identitaria, alla sua più brutale (volgare, disgustosa) funzione,
impedendo così quel comodo atteggiamento distaccato che di norma
accompagna l’indagine filosofica e ne allontana gli oggetti “sconvenienti”.
Nel suo monumentale studio sul potere, la cui stesura
ventennale (1940-1960) fu suscitata dalla mostruosità dell’esperienza
totalitaria(2),
Elias Canetti ha inteso dimostrare che tale esperienza, la quale ha
legato in modo perverso i capi e le masse in un delirio di sopravvivenza
dei primi e distruzione delle seconde (ridotte letteralmente a ‘rifiuti’
tra le ‘macerie’), non è affatto un portato specifico
della civiltà occidentale; adducendo una straordinaria varietà
di materiale documentario, raccolto senz’alcuna limitazione geografica
o temporale, Canetti ha sostenuto che le dinamiche psichiche del potere
non solo superano, o meglio mettono fuori uso ogni rigida distinzione
tra individuale e collettivo, ma costituiscono una sorta di fiume carsico
che scorre sotto la superficie liscia e apparentemente ordinata della
civiltà umana, un fiume pronto a riemergere nella sua devastante
violenza allorquando si determinano alcune configurazioni critiche.
Non posso in questa sede inoltrarmi nella dialettica tra esperienze
massive ed esperienze di potere svolta da Canetti nel poderoso volume;
mi limiterò a ricordare che, secondo lo scrittore, il potente
è colui che desidera sopravvivere ad una ‘massa’
di nemici uccisi, esperienza che costituisce allo stesso tempo l’acme
del godimento ed il vertice della paura (paura della vendetta delle
vittime nei confronti del sopravvissuto). In quanto ispirata dall’esperienza
totalitaria, l’indagine canettiana fa in qualche modo pendant
con quella della Arendt sulle Origini del totalitarismo, interrogandosi,
più che sui presupposti economici, culturali e politici del fenomeno,
sulla sua natura segreta; essa tratta il male radicale come un’esperienza
universale e quasi inconscia del potere esercitato dall’uomo sull’uomo
e su ogni forma vivente, un’esperienza altrettanto “banale”,
in cui l’uomo perde – ma perché in fondo non l’ha
mai definitivamente acquisita – ogni dignità specifica,
ogni forma distintiva individuale ed ogni connotazione propriamente
‘umana’.
In una delle
sezioni del volume dedicate agli organi del potere, Canetti scrive:
«Il
vero e proprio atto d’incorporare la preda comincia dalla
bocca. Là conduceva originariamente la via di tutto ciò
che era commestibile; […] lungo è il cammino della preda
attraverso il corpo. Durante tale viaggio, essa è lungamente
sfruttata, e le viene sottratto tutto ciò che può essere
utilizzato. Ne rimangono infine solo più rifiuti e puzzo.
Questo
processo, con cui si conclude ogni conquista animale, è particolarmente
istruttivo per conoscere l’essenza del potere. Chi vuole dominare
sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro forza di resistenza
e diritti […]. Il suo scopo resta sempre quello di ‘incorporarseli’
e di sfruttarli. Gli è indifferente ciò che resterà
di loro.[…] E quando non presentano più nulla di sfruttabile,
egli se ne libera di nascosto, come dei propri escrementi, preoccupandosi
che non appestino l’aria della sua abitazione.
Egli
non osa riconoscere dinanzi a sé questo processo in tutti i suoi
stadi […]; siccome egli non fa macellare i suoi sudditi nei mattatoi
e non li trasforma in vero e proprio cibo per il suo corpo, negherà
di sfruttarli e di digerirli. Anzi: è lui che dà
loro da mangiare [...].
Ma anche prescindendo
dal potente […], il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi
rientra nella sfera del potere. Nulla è appartenuto a un uomo
più di ciò che si è trasformato in escremento […].
Si tratta di un processo così naturale, così spontaneo
ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta l’importanza.
Si tende a riconoscervi soltanto i molteplici scherzi del potere che
accadono in questo mondo; ma tale aspetto è in realtà
il meno importante. Così ogni giorno si digerisce e si torna
a digerire. Qualcosa di estraneo viene afferrato, sminuzzato, incorporato,
e assimilato dal’interno; si vive soltanto grazie a questo processo.
Basta che esso si interrompa, e si è giunti alla fine […].
Gli escrementi,
che rimangono al termine del processo, sono carichi del nostro reato.
Da essi si può capire cosa noi abbiamo ucciso. Sono una concentrata
raccolta di indizi contro di noi. Puzzano come i nostri peccati quotidiani,
reiterati, interrotti, e gridano al cielo. Ci si libera dei propri in
locali particolari, che servono solo a ciò; l’uomo è
veramente solo soltanto con i suoi escrementi. E’ evidente che
ci si vergogna dei propri.»(3)
Con
questo passo siamo costretti ad abbandonare la pretesa, tipica del pensiero
astratto, di concentrarsi esclusivamente sulla forma dell’oggetto,
di sottrarlo alla sua funzione primaria allo stesso modo in cui la contemplazione
estetica sottrae l’opera al suo originario valore d’uso.
Siamo invece abbassati, per così dire, alla natura della funzione:
l’oggetto non ci è indifferente, ma ci disgusta; e quanto
più ci disgusta, tanto più ci appartiene – ci inter-essa,
perché l’esse che abbiamo in comune con (inter)
l’oggetto impedisce di considerarlo, appunto, semplicemente un
oggetto(4).
Il
distacco formale è così diventato impossibile, e ha lasciato
il posto all’analisi simbolica (ma non troppo) della funzione
dell’incorporazione. Oltre che dal valore simbolico assumibile,
in sede psicoanalitica, dalle feci durante specifiche fasi dello sviluppo
psico-sessuale, prescinderò per il momento dal fatto che l’isolamento
dell’individuo nell’atto della deiezione presenta, nella
società occidentale moderna, un significativo indice storico,
in quanto frutto di un lungo processo di trasformazione della promiscuità
premoderna in ciò che il sociologo Norbert Elias ha definito
“la civiltà delle buone maniere”(5);
cercherò invece di estrarre dal passo in questione alcuni elementi
utili a comprendere la nostra segreta, ineludibile e vendicativa identità
con l’escremento/rifiuto.
In
primo luogo, Canetti istituisce un’equivalenza essenziale, addirittura
pre-umana, oltre che pre-filosofica, tra incorporazione e potere: l’altro
non è concepito ‘ancora’ e neutralizzato come Altro
più o meno trascendente, oppure come un ego dotato di una soggettività
analoga alla mia (secondo il noto modello husserliano dell’“appaiamento”
del mio ego trascendentale con quello indirettamente “appercepito”
attraverso il corpo vivente), e neppure, al limite, come corpo estraneo
(“altrui”), bensì solo come preda o cibo, e in modo
trasversale, ovvero animalesco, rispetto alla specie di appartenenza;
l’identificazione primaria dell’altro è legata al
suo poter essere afferrato, maciullato con i denti e incorporato, e
proprio grazie a tale identificazione aggressiva si afferma il mio potere
di vita (e di morte), cioè la mia stessa identità.
In
secondo luogo, il processo dell’incorporazione viene indicato
come extra- o infra-coscienziale, col che Canetti ribadisce il carattere
originario della relazione di potere e quello soltanto superficiale
e derivato della consapevolezza del processo medesimo, tradotto dalla
ragione soggettiva in termini di ‘fame’, ‘volontà’
e ‘azione finalizzata’. Sul piano sociologico e comportamentale,
la ragione può solo perimetrare e igienizzare, men che mai impedire,
l’esperienza escrementizia: il raffinamento dei costumi prescrive
all’individuo di isolarsi nel momento in cui il prodotto dell’attività
inconscia di potere conferma, in modo brutale e nauseabondo, il carattere
distruttivo e colpevole della vita. La ragione stessa, in questa ottica,
appare un’istanza potente, frutto di un divoramento esclusivo,
di uno svilimento della materialità del processo biologico: col
suo disgusto per ciò che è basso, la ragione istituisce
il primato della forma astratta, e pulita, sulla funzione
corporea, finendo però col far assumere alla forma pura un ruolo
incorporativo, e dunque dominante, assolutamente non neutrale, nei confronti
dell’immondo processo funzionale.
Profondamente
connesso a tale disprezzo gerarchico, è l’esempio dello
‘sfruttamento’ dei sudditi da parte del potente: i sudditi
non vengono realmente ‘mangiati’, ma sono costretti ad occuparsi
di ciò ch’è basso, ovvero di ciò che è
stato rifiutato dal potente, diventando così essi stessi rifiuti.
Canetti fluidifica la tradizionale distinzione tra materia e spirito,
tra corpo e psiche, tra società e individuo, mostrando come la
relazione di potere basata sul nutrimento sia immediatamente metaforizzabile,
anche nel caso in cui l’incorporazione non avvenga realmente,
ma appaia per così dire traslata nella sfera economica del dominio;
in questo modo, da un lato si rivela sul piano collettivo il carattere
predatorio della biopolitica, la sua capacità di nutrire mentre
in realtà divora; dall’altro lato, sul piano individuale,
si svela l’ambivalenza strutturale del cannibalismo psichico.
Prendiamo ad esempio il caso dell’incorporazione erotica dell’altro:
persino qui si può rintracciare un’affermazione di sé,
compiuta attraverso la cancellazione dell’esistenza altrui come
indipendente dalla mia: proprio come nel nutrimento biologico, l’identità
di chi incorpora e rifiuta si produce attraverso lo stesso movimento
di incorporare e poi rifiutare (ovvero svalorizzare) l’oggetto,
nel medio – o con l’alibi coscienziale – dell’attrazione,
cui inevitabilmente fa seguito la ripulsa.
La doppia metamorfosi
dell’altro, dapprima in interno e poi in esterno schifoso (rifiuto,
escremento), costituisce la colpa originaria e reiterata del processo
di affermazione e mantenimento costante dell’identità psichica
individuale, nonché della coesione sociale. La nostra stessa
salute biologica e psichica, sembra suggerire Canetti, si fonda sulla
vergogna della distruzione e della repulsione: l’uomo, in quanto
essere uscito in modo irreversibile dalla sfera dell’istinto,
metaforizza incessantemente questa colpa, e la rende tale. Il sentimento
tutto umano della vergogna, sia esso consapevole o inconscio, rinvia
a due fenomeni complementari: è impossibile identificarsi senza
negare l’altro, in modo concreto o immaginario; negando l’altro
dopo averlo ‘sfruttato’, esorcizziamo il fatto che per poter
essere espulso l’altro è diventato parte di noi, è
stato incorporato e interiormente assimilato: ciò che ora ci
fa schifo, è stato, e dunque è sempre potenzialmente,
la nostra stessa macchina identitaria. L’escremento ci si fa incontro
come ciò che vorremmo completamente allontanare, ma che, pur
trovandosi fuori di noi, è il fuori del nostro dentro. Allo stesso
modo, la società produce incessantemente differenze gerarchiche
tra coloro che incorporano e coloro che vengono rifiutati; questi ultimi
ricordano ai primi, con la loro stessa esistenza, ciò che essi
compiono per essere ciò che sono, e identificano disgustosamente
l’inferiorità dalla quale essi sono emersi affermandosi
come ‘soggetti’.
Il
rifiuto, dunque, non si lascia confinare in un ‘fuori’,
e nemmeno in un ‘sotto’, ma ricade sempre ‘dentro’,
tanto dal punto di vista corporeo quanto da quello psichico. Il rifiuto
è la prova oggettiva dell’impossibilità di tracciare
un confine sicuro tra me e non-me, perché l’interno fuoriesce
da me e si materializza come scarto. Il metabolismo – individuale
e sociale – conduce inesorabilmente all’escremento, che
come tale viene prodotto in isolamento e rimosso, in quanto prova della
nostra colpa-capacità di distruggere e sfruttare ciò ch’è
estraneo. In questa ottica, lungi dal poter essere confinata in una
semplice fase dello sviluppo psico-sessuale, anche l’identificazione
simbolica delle feci con il bambino e/o con il fallo rimanda all’identità
affettiva, emozionale, con l’escremento, alla sua straordinaria
e inquietante plasticità metaforica.
Prim’ancora
di essere necessari alla costruzione consapevole dell’identità
soggettiva secondo modelli condivisi, i processi di scarto e di rifiuto
costituiscono tout court la forma attiva dell’identità:
prim’ancora di scegliere, nella costruzione del sé, cosa
acquisire e cosa scartare, siamo costretti a divorare per affermarci.
Allo stesso modo, prim’ancora di sviluppare un piano di controllo,
di sfruttamento e di esclusione di categorie considerate inferiori (una
‘testa’), i sistemi di potere si sono strutturati in maniera
casuale (acefala) attraverso il divoramento sociale, economico e culturale
di alcune forze vive, e le hanno trasformate in escremento maleodorante.
Tuttavia, quanto più articolato e complesso diviene, nella storia
di una civiltà, il bisogno di affermare la propria identità
tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo, tanto più
grande diventa la massa di ciò che è stato rifiutato,
ossia digerito, sfruttato ed espulso; in tal senso l’Occidente
moderno ha prodotto, nel giro di alcuni secoli, una gigantesca mole
di rifiuti interni ed esterni, geografici e psichici, localizzabili
fisicamente eppure fantasmaticamente ritornanti. Man mano che l’identità
occidentale è andata ‘costruendosi’ sia sul piano
individuale che su quello collettivo, ha sentito la necessità
di isolarsi nell’atto escrementizio e di isolare l’escremento(6),
sottoponendosi ad un’attenta profilassi nei confronti del rifiuto,
dello sporco, dell’inferiore; così facendo, però,
non ha potuto evitare la crescita esponenziale del materiale rifiutato,
nonché la necessità altrettanto fisiologica di consentire,
di tanto in tanto, la contaminazione e/o il ritorno di ciò ch’era
stato digerito, sfruttato ed espulso. Sarebbe fin troppo facile –
ma, appunto, di pessimo gusto – trovare esempi di ciò nella
storia europea e statunitense, ricorrendo magari alla descrizione olfattiva
degli ebrei diffusa durante il nazismo, o alla ipocrisia multietnica
del sogno americano, costruito in realtà su un privilegio razziale
che in duecento anni si è semplicemente spostato dai bianchi
ai neri per escludere, oggi, gli ispanici. L’Occidente si è
a lungo esercitato nell’arte escrementizia per accrescere la propria
potenza, non senza essere attratto da ciò che respingeva. Questa
sorta di metafora storico-sociale conferma il principio generale, secondo
cui “l’odio è contiguo all’amore” e,
per affermarsi, il soggetto “priva l’oggetto di tutte le
sue qualità, [fino a] ridurlo a un ramo secco o, se persona,
disumanizzarla”(7).
Detto ancora in altri termini, l’incorporazione identitaria è
strutturalmente ambigua e storicamente variabile.
Da un lato, l’attrazione
nei confronti del rifiuto (o meglio, del rifiutato) non è altro
che la traccia del suo essere, originariamente, un oggetto desiderato
e identificante; un’ambivalenza che si può esperire con
particolare significatività nella sfera erotica(8),
rispetto a ciò ch’è considerato basso, sporco e
ripugnante (non è un caso che la sessualità femminile
sia stata pensata dalla psicoanalisi attraverso la cosiddetta ‘teoria
della cloaca’). D’altra parte, il rifiutato rivela l’inevitabile
gerarchizzazione cui è stato sottoposto: l’azione implicita
nel rifiutare, o nel rifiutarsi, a qualcuno, sottolinea la dimensione
selettiva dell’atto, nel senso di scartare gli inferiori, i non
idonei (inidonei ad agire ma anche semplicemente ad esistere). Infine,
in una forma più subdola, ma conforme a questa seconda accezione,
il rifiutato è colui che non sa rifiutare o rispondere al rifiuto;
si prenda ad esempio la tendenza, presente in talune deboli forme di
soggettivazione ‘postmoderna’, a vivere come insostenibile
il rifiuto: sempre più spesso cadono vittima del disagio dei
soggetti che non sanno dire ‘no’ agli altri (e che diventano
perciò psichicamente onnivori, bulimici) e che parimenti non
riescono a sopportare un ‘no’; in questa prospettiva, solo
apparentemente rovesciata rispetto a quella finora delineata, la pratica
del rifiuto sottintende una capacità di identificazione autonoma,
che le società del consumo combattono sottilmente, producendo
forme coattive ed effimere di identificazione, delle identità
‘spazzatura’ vissute come coacervo di esperienze.
E’ quindi
possibile storicizzare l’analisi canettiana del nutrimento, e
delineare una sorta di schematica stratificazione del rifiuto, articolando
i diversi livelli fin qui emersi.
Il
primo livello è quello biologico, elementare, del metabolismo
individuale. La metamorfosi metabolica del nutrimento nel mio corpo
e poi nel rifiutato, nega l’identità corporea come solidità,
purezza e separazione. Viceversa, l’identità corporea individuale
si rivela essere prodotta di continuo attraverso violenza, sfruttamento,
sporcizia ed espulsione solo parzialmente controllabile. Questo primo
livello non è positivamente metaforizzabile, ma costituisce il
fondo opaco, l’in-sé (in termini sartriani) o l’essere
(l’“il y a”, in termini lévinassiani)
dell’identità umana.
Il
secondo livello è quello psichico: incorporare l’altro
equivale a rifiutarlo per identificarsi (si veda la contiguità
di odio e amore). Colui (o colei) che è stato prima incorporato
e poi rifiutato, ritorna come fantasma escrementizio, come parte di
me resasi autonoma (altra, eppure a me familiare: unheimlich)
che intende vendicarsi per il fatto di esser stata espulsa. L’unica
alternativa a tale circolo vizioso è la metaforizzazione positiva
del medesimo: invece di restare fermo al metabolismo escrementizio e
al cannibalismo psichico, il soggetto può amare oppure odiare
l’altro riuscendo a sopportarne l’alterità come un
fuori, senza innescare il meccanismo dell’incorporazione e del
rifiuto. La metamorfosi dell’altro nell’io deve’ssere
metaforica, appunto, e non reale; virtuale e linguistica, non violenta
e distruttiva. Se riesce ad avere queste caratteristiche, la metamorfosi
diventa l’unico antidoto contro la sindrome del potere, e come
tale è stata proposta da Canetti nell’opera sopracitata(9).
Il
terzo, decisivo livello è quello storico-sociale, nel quale può
essere tematizzata la questione del passaggio dalla modernità
all’attuale fase del metabolismo identitario. La modernità
ha infatti conferito al metabolismo psichico degli individui e delle
masse una specifica forma storica, determinata da due fattori complementari:
il principio (formale) dell’ordine e l’economia (astraente)
del capitale. Nel corso di quattro secoli (dal XVI al XX), l’Occidente
moderno ha costruito il proprio ordine culturale, politico ed economico
(il proprio nomos planetario, per dirla con Carl Schmitt) grazie
ad un complesso meccanismo di espulsione sempre più intensiva
dei rifiuti, secondo l’ideale del “giardino” (un ideale
che ha permeato sia l’igienismo borghese, che quello totalitario):
proprio come l’interiorità dei soggetti privilegiati e
‘superiori’, l’interno della nostra civiltà,
recintato e protetto, è stato coltivato e tenuto pulito, buttando
‘fuori’ le erbacce e la sporcizia – ovvero i resti
scomodi dell’incorporazione/sfruttamento. Dal canto suo, l’economia
ristretta del capitale ha dapprima accumulato e pianificato la ricchezza
sociale eliminando il superfluo, lo spreco e il disordine premoderni,
per farli poi ‘ritornare’ – si pensi al trentennio
del “boom” seguito al secondo conflitto mondiale –
sotto forma di benessere legato al consumo.
Con
la globalizzazione, infine, l’illusione moderna di respingere
i rifiuti fuori di noi o di riciclarli nelle forme seducenti del benessere
e del godimento, si è esaurita, non solo a causa dell’annullamento
del ‘fuori’, ma anche in virtù di una spaventosa
incertezza e diseguaglianza riguardo al godimento: ci ritroviamo ad
essere noi stessi, abitanti dell’Occidente, dei potenziali rifiuti
– rifiutati, oltre che sommersi dalle scorie in eccedenza. L’economia
capitalistica non è più in grado di gestire la globalizzazione
secondo l’ideale del giardino: le forme ordinate del controllo
e della pianificazoine hanno lasciato il posto al disordine, all’inquinamento,
al divario economico abissale fra Nord e Sud del pianeta – ma
soprattutto hanno fatto eplodere nell’immaginario collettivo il
carattere ‘interno’, fantasmatico e insopportabile del rifiuto.
Eppure, il vero e proprio ribrezzo generato dal rifiuto indica paradossalmente
il fallimento della virtualità (della scorporeizzazione) promessa
negli ultimi vent’anni dall’esperienza ‘globale’
del mondo: la materia, che avrebbe dovuto essere completamente esorcizzata
dalla mondializzazione tecnologica e riassorbita nel paesaggio virtuale,
ha fatto irruzione nell’esperienza individuale e collettiva incarnando
in forme sempre più brutali l’arcaica metafora alimentare:
esplosioni, epidemie, mutilazioni, rovine, smembramenti e liquami hanno
invaso l’immaginario, sfruttando, anziché obbedirle, la
straordinaria amplificazione del virtuale.
Un’antropologia
postmoderna dovrebbe registrare questi mutamenti come modificazioni
storiche del metabolismo psichico individuale e collettivo, come conseguenze
della saturazione del modello occidentale moderno. I rifiuti mostrano
di poter tornare come doppi negativi di coloro che li hanno rifiutati,
come residui ostili del metabolismo economico globale. La reazione salutare
della vergogna, che implica, oltre alla possibilità dell’isolamento,
quella di distinguere tra noi e l’escremento, viene soffocata
dalla percezione della nostra insopportabile identità col rifiuto.
Se la cultura, in senso lato, equivale alla capacità inesauribile
dell’uomo di metaforizzare la materia, la situazione attuale comporta
una crescente difficoltà nel realizzare tale metamorfosi –
ed una incombente impossibilità di isolamento, a causa della
sovrappopolazione del pianeta(10).
Non si tratta tanto, come sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, della
perdita della forma ‘solida’ della modernità e della
sua trasformazione in ‘modernità liquida’ –
col che si vuole comunque alludere alla incapacità di ordinare-governare
la situazione e di indirizzarne i processi –, quanto piuttosto
della vendetta di ciò ch’è stato rifiutato. Esso
infatti, lungi dall’essere-semplicemente-materia, non solo è
vittima di un’azione, ossia presuppone una colpa, ma è
testimonianza di un’identificazione prodottasi solo grazie a questa
colpa: come tale, il rifiutato è vivo, ed è l’identificazione
stessa.
Anche in Italia
il recente dibattito filosofico-politico si è impegnato nella
definizione del rifiuto attivo, concepito ad esempio da Roberto Esposito(11)
come difesa immunitaria: la nostra cultura, esattamente come un organismo
vivente, si è costruita e rafforzata mettendo a distanza l’altro,
allo stesso modo in cui l’amante, per non perdere i propri confini
individuali, tende a incorporare l’amato, a nutrirsene trasformando
il proprio desiderio in odio distruttivo; con ciò è stata
più o meno esplicitata la necessità del metabolismo metamorfico
da parte degli individui e delle culture, nonché la possibilità
di rovesciare l’interno in esterno, e viceversa.
Si può
tuttavia tentare – senza metafore vagamente spengleriane, ma anche
senza residui ottimismi consolatori – di compiere un passo ulteriore
nella definizione del processo identitario di rifiuto, portandola più
chiaramente nell’orizzonte della nostra attuale esperienza, ovvero
traducendone i termini nel mondo globalizzato. Nel linguaggio di Esposito,
si configura la minaccia di una nuova impossibilità del rifiuto:
se la comunicazione (la communitas) avviene di norma tra il soggetto
(il sistema) e un ‘esterno’ (l’ambiente) che viene
rifiutato/regolamentato – contro cui cioè ci si immunizza-comunicando
–, cosa succede quando l’esterno non esiste più?
Cosa diventa in tal caso la comunicazione, oltre a mera autoreferenzialità
autodivorantesi, quando il sistema immunitario non ha più un
fuori da cui difendersi perché lo ha completamente interiorizzato?
Nell’attuale
fase identitaria, l’Occidente sembra mangiare se stesso: si immunizza
distruggendosi come un cancro. Il rifiuto non è più esterno,
ma implosivo, interno: autoregolamentandosi, il sistema produce l’altro
e lo rifiuta come “proiezione di sé”. Forse per questo
la cultura occidentale è affascinata da ciò che a sua
volta la rifiuta, come dal proprio fantasma: rivelando l’inconsistenza
di ogni presunto scontro di civiltà, Jean Baudrillard(12)
ha concepito il rapporto tra l’Occidente e la minaccia terroristica
islamica in termini inconsciamente auto-distruttivi. La violenza circolare
del metabolismo implica, in ultima analisi, la trasformazione di ciò
ch’è apparentemente passivo in attivo: il rifiuto del rifiutante
– la negazione del soggetto.
1
Uso volutamente questo termine foucaultiano, per indicare l’insieme
delle pratiche governamentali e dei dispositivi di normalizzazione
con cui il potere si cura, o fa mostra di curarsi dell’esistenza
in vita, nonché della qualità della vita, di popolazioni
e individui. Per una disamina filosofica e genealogica del concetto
foucaultiano di biopolitica e del suo reciproco (tanatopolitica),
cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino
2004.
2
Cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg 1960, trad. it. Massa
e potere, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Bompiani,
Milano 1990, vol. I, pp. 981-1590.
3
E. Canetti, op. cit., pp.1226-1231.
4
Sul ruolo svolto dalla distanza estetica nel rapporto tra soggetto
e oggetto di cultura, e dunque anche nei rapporti sociali, cfr. P.
Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino,
Bologna 1983.
5
Cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna
1988.
6
Questa necessità di isolamento è tuttavia comparsa molto
presto nella storia dell’umanità: ambienti preposti esclusivamente
alla deiezione sono stati utilizzati tanto dalle civiltà mesopotamiche
prebabilonesi (con annessi sistemi fognarii), quanto nelle antiche
città micenee.
7
R. Bodei, Odio e amicizia, in AAVV, Philia, La Città
del Sole, Napoli 2001, p.78.
8
Su ciò cfr. il fondamentale volume di G. Bataille, L’erotismo,
Studio Editoriale, Milano 1991.
9
Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.1316-1318 (L’immortalità)
e 1550-1557 (Epilogo). Si tratta della creazione artistica,
possibile solo a pochi: grazie ad essa, l’incorporazione assume
caratteri benefici e addirittura promette l’immortalità
a chi la pratica (ad esempio, lo scrittore).
10
In questo senso la biopolitica nasconde, secondo lo stesso Foucault,
il suo rovescio: la tanatopolitica, per la quale ogni membro di una
società smette di costituire un – peraltro illusorio
– fine in sé (un valore) e diventa semplice materia annientabile
in ogni momento: rifiuto.
11
Cfr. di R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita,
Einaudi, Torino 2002, ma anche il precedente Communitas. Origine
e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.
12
Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo e Power Inferno,
entrambi pubblicati in Italia da Raffaello Cortina, Milano, risp.
2002 e 2003.