La
voce e gli scarti della trascendenza
di
Vincenzo Cuomo
Vocemi,
grafemi, rifiuti delle vertigini della trascendenza, pura immanenza
dell’universo con cui siamo alle prese.
Paul
Zumthor
[La
voce è] l’originarietà di una differenza […]
che non si limita a dividere o differire l’unità supposta
primaria […], ma che è essa stessa […]
esclusivamente il rinvio a sé, grazie al quale il sé
medesimo si sostiene, ma si sostiene in una condizione di deiscenza
o di scarto differenziale da sé.
Jean-Luc
Nancy
-
Preambolo:
la voce come scarto e come deiscenza.
Cominciamo
con una domanda. Quale rapporto c’è tra simbolico e scarto?
Quale relazione intercorre tra il simbolo – che per sua natura
“sta per … un altro simbolo” che sostituisce o a
cui si sovrappone nella catena simbolica – e lo scarto (inteso
qui sia come l’atto dello scartare sia come la risultanza di questo
stesso atto). Lo scarto è forse strutturale allo stesso
darsi del simbolico? Secondo percorsi diversi (ma comunicanti) sia Lacan
che Derrida – entrambi su ciò debitori di Hegel –
ci hanno mostrato proprio questo: l’impossibilità per il
simbolo di “dire” il reale (sempre catastrofico)
e la congiunta impossibilità di separarsi da esso, l’impossibilità
di lasciarlo alle spalle attraverso la realizzazione di una perfetta
autonomia e auto-trasparenza simbolica. Impossibilitato a dire il reale,
il simbolo ne è, tuttavia, continuamente affetto, mostrandosi
sempre anche come sintomo e come traccia. In entrambi
i casi (ma sono effettivamente due casi diversi?) il simbolo è,
contemporaneamente e paradossalmente, il suo stesso scarto e
il suo stesso rifiuto.
Che
cosa, allora, il simbolo produce come scarto – e da che cosa,
strutturalmente esso stesso continua ad essere affetto? Potremmo rispondere,
un po’ provocatoriamente, la presenza! La presenza bruta
dell’essere (e dello stesso “soggetto”). A patto di
concepire la presenza non come sinonimo di stabilità
e di permanenza – attributi su cui bisognerebbe riflettere
a lungo – bensì come evento, di volta in volta singolare,
che, in quanto tale, viene alla presenza (da una non-presenza
– sulla cui interpretazione non osiamo per ora prendere posizione).
Un evento che non si identificasse con il suo venire alla presenza non
sarebbe un evento. Ora, il darsi dell’evento implica, innanzitutto,
due cose: a) un improvviso e imprevisto sorgere di una singolarità
e un altrettanto improvviso e imprevisto perire di un’altra
singolarità (che, rispetto a quella che sorge può essere,
a posteriori, concepita come pre-individualità); b) la realtà
di tale brusca insorgenza. Ora, il simbolo, pur essendo necessariamente
traccia e sintomo di tale realtà e repentinità
dell’evento (sul fenomeno del “repentino” cfr. Masullo,
1995, pp.49 sgg.), altrettanto necessariamente resta segno esterno
ad esso. Il segno non può dire l’evento, ma tutt’al
più “ciò che resta del fuoco” (Derrida, 2000;
sul testo di Derrida, cfr. Moroncini, 1988). La potenza del segno –
come aveva già chiarito Hegel – è la sua stessa
impotenza. Il segno è condannato a dire altri segni, indefinitamente.
Ma il gioco dei segni non è “vuoto” – come
potrebbe apparire – non è puro e semplice gioco formale
(a meno che non si identifichi – suicidandosi come metalinguaggio
– con un suo possibile linguaggio-oggetto interamente formalizzato,
ma anche in tal caso sarebbe costretto a fare i conti con la strutturale
indecidibilità gödeliana). La lingua non è mai “pura”
– come ebbe ad accorgersi lo stesso Mallarmé. C’è
sempre un fuori che la “timbra” e che, attraverso
di essa, parla, per quanto attraverso la forma della mutezza.
Tuttavia, se il reale è il piano di eventi sempre catastrofici
(nel senso di “cambiamenti improvvisi”, pieghe di pieghe),
e se il resto di tale “fuoco” marca, timbra (sul
timbro vocale della parole cfr. Lyotard, 1991b, p. 24 e Nancy, 2004,
pp. 63 sgg.), l’impossibile purezza del simbolo, allora la voce
è necessario che sia. Nel senso che è necessario che si
dia un’apprensione del reale che sia, al contempo, un mostrare,
una esposizione di tale sentire. Dove? Lì, al limite della
parola, quindi, dentro e fuori di essa.
La
voce (quel che qui chiamiamo voce) è un fenomeno paradossale,
un vero e proprio “a priori materiale” dell’esistente.
Essa ha una doppia caratterizzazione: è un sentire (è
pathos) ed è, nello stesso tempo, un mostrare.
Essa sente (sentendosi) e mostra, esponendo il suo sentire.
Essa è, nello stesso tempo, un (complesso) sentire e un
(complesso) mostrare (Cuomo, 1998). In quanto sentire la voce
è apprensione del reale, reale anch’essa.
In quanto mostrare essa è gesto che espone. Potremmo provvisoriamente
affermare che essa sia real-ideale. La voce è, cioè,
evento ed esposizione dell’evento (dell’evento
appreso e del “suo” stesso evento).
Jean-Luc
Nancy, riprendendo e radicalizzando alcuni motivi della famosa analisi
che Derrida svolse del fenomeno della voce (Derrida, 1968), ha scritto
di recente che la voce è originariamente differente, consistendo
nel rinvio a sé “grazie al quale il sé medesimo
si sostiene, ma si sostiene in una condizione di deiscenza e di scarto
differenziale da sé” (Nancy, 2004, p. 44). Per comprendere
questa tesi di Nancy, bisogna innanzitutto capire cosa significhi che
la voce è originariamente “rinvio a sé” e
solo dopo potremo accettare l’idea che la voce sia la sua stessa
deiscenza, che sia la sua stessa degradazione/impurità.
Rinvio
a sé è senza dubbio la voce intesa come apprensione-risposta
all’evento (al divenire, al mutamento) e contemporaneamente come
apprensione-risposta a quell’insorgenza che essa stessa
è. Utilizzando un’espressione di Carlo Sini (Sini, 1989,
p. 83), potremmo anche dire che la voce accade “nello stesso tempo
del suo accadere-dopo”. Che cosa vogliamo intendere? Che qualcosa
accade e, accadendo, produce accadimenti; tale catena
di accadimenti può, in determinate circostanze (che in genere
chiamiamo vita), produrre un accadimento che reagisce al suo stesso
accadere – reagendo ad una indefinita catena di accadimenti; questo
accadimento, allo stesso tempo pathos ed esposizione del
suo impersonale sentire, è la voce.
In
quanto pathos, la voce è l’immanenza assoluta.
In quanto gesto è il trascendimento di tale immanenza.
Ma la voce è, nello stesso tempo, pathos e gesto,
quindi, è, come ha ben visto Nancy, il suo stesso scarto,
la sua stessa deiscenza.
-
Pathos
vocale (il sentire della voce).
Secondo
Derrida, la presenza a sé della coscienza implica sempre un rimando
di una traccia ad un al di là che non è mai presente.
Ma la voce è sentire, cioè pathos (sulla
teoria generale del patico un rimando imprescindibile è
a Masullo, 2003). Ora, il pathos non può non essere presente.
Il pathos, quindi, non è traccia. Le tracce non “sentono”,
non nascono né muoiono, anche se sono ciò che resta
del fuoco (sia nel senso della cenere che resta una volta che
la fiamma si sia spenta; sia nel senso del fuoco che, in qualche modo,
un pò resta, per citare ancora Derrida, 2000, pp. 55-56).
Nel
suo essere risposta, la voce non soltanto sente la catastrofe
dell’essere – che è sempre anche il sorgere degli
essenti – ma sente anche la singolarità del suo stesso
responsivo/reattivo sorgere. Qui riposa un fondamentale elemento di
indecidibilità tra umanità e animalità:
la separazione metafisica uomo/animale in base alla quale l’uomo
sarebbe un animale responsivo (cfr. Waldenfels, 2002) e l’animale
solo uno reattivo, trova nel fenomeno della voce una radicale
messa in crisi. La voce è “reazione” e “risposta”
al tempo stesso. Oppure, forse, come si dice in gergo filosofico, accade
prima di questa distinzione.
La
voce, nel sentire l’evento, sente il fuoco che distrugge
e vivifica ad un tempo. Essendo reazione/risposta che accade contemporaneamente
a questo fuoco, è questo fuoco stesso. Ma anche, nello
stesso tempo, il gesto che lo mostra. Gesto per forza di cose
duplice, perché mostra l’abisso del nulla da cui proviene
e il limite d’essere che gli è accaduto in sorte
(Cuomo, 1998, in particolare il capitolo terzo). D’altra parte,
lo stesso sentire è duplice perché è sentire
una mancanza e una potenza d’essere (anche su ciò
Cuomo, 1998, capitolo quinto).
-
Il
gesto vocale.
Ogni
lingua, come ha mostrato Julia Kristeva (Kristeva, 1979), fondandosi
su di un sistema fonematico, strutturalmente esclude vaste gamme di
sonorità vocali e, quindi, si fonda su di uno scarto vocale.
Secondo la Kristeva, la vocalità è espressione
di una chora semiotica materna in cui l’infans sperimenta
creativamente tutte le possibili sonorità, per poi imparare ad
utilizzare un codice fonematico determinato che ne esclude la maggior
parte. Come scrive Lyotard (un pensatore, per la verità un po’
distante dalla Kristeva) il bambino sin dalla nascita è immerso
in mille discorsi articolati tanto che ad un certo punto gli è
dato di fraseggiare in modo articolato (Lyotard, 1991a, p. 12 sgg.).
Il suo bisogno di comunicare lo spinge ad entrare in un sistema fonematico,
acquisendone progressivamente padronanza. La vocalità espansa
in cui l’infans è avvolto è così
abbandonata – ma potrà essere ripresa, ricorda Kristeva,
nel gioco glossolalico o nella poesia (Kristeva, Op. cit.; sulla
teoria kristeviana della chora materna cfr. ora Cavarero, 2003,
pp. 146-153). Il discorso articolato si fonda, quindi, sempre sullo
scarto della vocalità. Ed è su tale scarto che
ha lavorato la poesia sonora del novecento (vedi Cuomo, 2004, pp. 59-68).
Concentrando
l’attenzione sulla vocalità, sulla chora semiotica,
si rischia tuttavia di perdere il fenomeno della voce, nel suo essere
gesto iniziale. La voce non può essere ridotta alla vocalità,
alla materia semiotica. La voce, se è correttamente
intesa, non è solo pathos ma è anche, contemporaneamente,
il gesto che espone la singolarità dell’esistere.
La voce espone es-clamando i limiti stessi dell’esistere. Es-clama
e non invoca (cfr. infra). Espone esclamando, nonostante (l’orecchio
del)l’altro.
In
tal senso accade sempre nonostante la parola; non si articola
con essa e in essa; con la parola, come ha ben visto Lyotard, la voce
può solo incontrarsi mancandosi ma non concatenandosi
(Lyotard, 1991a, p. 12). La voce, quindi, non può essere, concepita
semplicemente come scarto fonematico. Essa, piuttosto “scarta”
dalla parola. Anche perché accade prima e indipendentemente dalla
parola (che la parola debba, tuttavia, rammemorarne la mutezza è
certamente vero, è l’obbligo etico per eccellenza, ma è,
tuttavia, letteralmente, un altro discorso; su ciò vedi Cuomo,
1998, pp. 95-115). Ciò significa che il passaggio dalla voce
alla parola è inconcepibile e non trova mediazione possibile
nonostante la definizione dell’uomo come animale capace
di linguaggio. Non c’è Aufhebung dall’animale
all’uomo. L’uomo non ha mai “superato” l’animale,
nel senso che la faglia che il linguaggio produce nell’animale
“capace di linguaggio” non è dialetticamente superabile.
L’uomo è anche solo animale. E con l’animale
condivide la voce (reattivo/responsiva al tempo stesso).
Quando
Hegel, come ricorda Agamben (Hegel, 1976, p. 170; Agamben, 1982, pp.55
sgg.), afferma che nel grido di morte l’animale esprime il sé
[animale] “come sé tolto (als aufgehobenes Selbst)”
svela da un lato l’impossibilità del linguaggio di dire
(nel senso di significare) la realtà della
morte, dall’altro non riesce a rendere appieno ragione di quel
grido. Non riesce a cogliere il gesto della voce (che è
sempre in qualche modo voce animale), il suo gesto espositivo.
Nella prospettiva hegeliana la priorità della parola sulla voce
non dà la possibilità di cogliere la distinzione tra il
piano della significazione e quello che, almeno provvisoriamente,
si potrebbe chiamare il piano dell’esposizione. Il gesto
vocale non significa ma espone. Evidentemente non ha un “oggetto”
da esporre, né è concepibile come “soggetto”
esponente. Il gesto vocale è la sua stessa esposizione, è
il denudarsi stesso del vivente/esistente, è mostrare il sentirsi
che lo fa sé, è il dar a vedere la potenza
e l’impotenza che accadono col suo sentirsi (la
“sua” potenza e impotenza), è l’esibire la
mancanza e la completezza che lo fanno sofferenza e gioia,
desiderio e appagamento, stupore e angoscia. Il gesto
vocale espone i singolarissimi limiti della vivente esistenza.
Una
tale esposizione – per ricordare i termini con cui Lyotard
parla della phoné (Lyotard, 1991a, p. 6) – non è
rivolta ad un destinatario da un destinatore, non può entrare
in una “frase articolata”, secondo un asse “semantico-apofantico”
e un “asse pragmatico”. Non dice (non ha un referente)
né si rivolge a qualcuno (non ha un destinatario, ma neanche
un destinatore). Non c’è un “tu” cui essa si
rivolga. L’io e il tu, infatti, sono semplicemente ruoli concepibili
all’interno della comunicazione linguistica. Non c’è
qualcuno che espone qualcosa a qualcun altro. La voce non è un
“soggetto” ma un singolare ed impersonale esporsi,
è un accadimento di una “piega” dell’essere,
vale a dire è l’accadere di una ri-flessione, di
un auto-apprensione del sentire che produce il sé.
Singolarità
impersonale es-clamante.
-
Singolarità
impersonale.
La
singolarità della voce è quella del di volta in volta.
La voce, cioè, accade sempre per così dire nonostante
se stessa. Come ha ben evidenziato a tal proposito Lyotard, essa non
sa nulla della “cronologia” (Lyotard, 1991b, p. 21), perché
è sempre ora, di volta in volta ora. Anche il sé
che la voce “produce” è, quindi, un sé del
di volta in volta (sul concetto di “essere di volta in
volta” cfr. Nancy, 2003, p. 130). È un sé senza
stessità. È un sé che non c’è
prima dell’evento che lo produce.
Come
la singolarità del di volta in volta non è mai
la stessa, così il sé che essa fa accadere, di volta in
volta, non è mai lo stesso ma è, per così dire,
a topologia e ad intensità variabile.
I
limiti sentiti, sono, di conseguenza, limiti variabili. Il sé
vocale non è un’identità stabile. La stabilità
è data dalla memoria che non crea, appunto, identità,
ma stabilità. Il sé, attraverso la memoria dei
sé, è quindi concepibile come una stabilità temporale,
sempre relativa e sempre esposta all’instabilità.
Solo
l’accesso al nome, come ha sempre saputo la filosofia,
“identifica”. È nel linguaggio che opera la logica
dell’identità. Tuttavia, sul piano reale in cui
si situano i fenomeni della voce e della memoria, non c’è
che instabilità e stabilità, mai “identità”.
Adriana
Cavarero, nel suo A più voci (Cavarero, 2003), teorizza
la singolarità delle voci, ma continua a pensare la voce
nell’orizzonte della persona. Ciò le consente di
ricavare immediatamente dalla descrizione fenomenologica della singolarità
vocale un’etica e una politica delle voci. Tuttavia, a nostro
avviso, legando il concetto di singolarità a quello di persona,
da un lato ci si situa sul piano delle relazioni etiche elementari (o,
meglio, nella prospettiva della Cavarero, sul piano della relazione
etica elementare, vale a dire quella dell’io-tu tra madre e figlia/o)
e, quindi, già si è nell’etica che si vuol
fondare, dall’altro lato si finisce per perdere il fenomeno della
singolarità della voce che, per essere pensata in quanto
tale, non può che esserlo, per quanto argomentato, che come evento
impersonale. Se singolare “è ciò cui
manca la proprietà e/o il predicato di essere qualcosa di stabile,
unico e riconoscibile, qualcosa cioè cui manca l’essenza
e manca all’essenza” (Moroncini, 2001, pp. 73-74), allora
deve esser concepito come evento impersonale indifferente all’etica
(per quanto “elementare”) ma proprio per tale ragione “produttivo”
sia di legami etici (sempre “inessenziali”) sia della irreparabile
rottura degli stessi. Impersonale significa, inoltre, che tale evento
non può essere concepito come l’evento di un io
autonomo. Essendo la piega di un fuori, essendo l’internalizzazione
di un “esterno”, questa piega esprime una frattura
e una continuità d’essere, è cioè, al contempo,
trascendenza e immanenza. È al mondo ed
è il mondo – e ciò accade prima di
essere nel mondo. È tutte le dimensioni dell’essere
e il nulla di esse, essendo uno scarto, una eccezione (senza
che vi sia una regola), una eccentricità.
-
La
piega del fuori.
La
voce, in quanto evento singolare, accade come piega nell’indistinto
brusio sonoro dell’essere. Il brusio precede la voce ma
non è voce, mancando quella piegatura che produce l’ascolto
di sé. Tuttavia, essendo all’ascolto di sé,
la voce è fuori e dentro di sé (Nancy, 2004, p. 23). È
contemporaneamente il brusio del mondo (il fuori) e la ripiegatura che
la fa essere (dentro di sé).
Tra
brusio dell’essere (brusio del fuori) e voce c’è
sì – per così dire – univocità
sostanziale ma non indifferenzialità (su questo punto
ci discostiamo un po’ da Nancy, cit., p. 39). La voce,
come dicevamo, è gesto che “espone” il sentirsi
che di volta in volta il vivente è. In quanto gesto è
il trascendimento della sua immanenza, distaccandosi dal fuori
e ritrovandolo come dentro. La voce è pertanto nello stesso
tempo dentro e fuori di sé. È nello stesso tempo immanenza
e trascendenza. È i suoi stessi scarti, ambivalentemente ma senza
ambiguità. Ed è i suoi stessi scarti, attraverso il suo
scartare, attraverso la sua eccentricità ed eccezionalità.
Quando
i poeti elettroacustici affidano la loro voce al magnetofono, lasciano
che si producano spoglie sonore in cui la voce si estrania fino
a confondersi col paesaggio inorganico dei rumori/brusii (vedi Cuomo,
2004, capitolo quarto; cfr. anche Costa, 2001). Trasformate in puri
spettri sonori, le voci registrate (e manipolate elettroacusticamente)
lasciano l’ambito del vivente e rifluiscono nel silenzio “cageano”
della natura (in un silenzio che è rumore, brusio, mai assenza
di suono, ma che può essere assenza di voci; cfr. Manganelli,
1987), nel fuori assoluto. Ma in tale situazione estrema, in
cui la voce si stacca dal sentire vivente, trasformandosi definitivamente
in resto, essa paradossalmente non si perde del tutto. Essa “resta”
agli altri (anche se non propriamente per gli altri), e vi resta
come gesto morto, come scrittura sonora. Gesti e scritture, vocemi (per
dirla con Zumthor, 1990, p. 10) che, nonostante la loro essenziale mutezza,
sono pur sempre i resti di un’esposizione dell’inesponibile
(solo l’inesponibile può essere propriamente esposto).
I
risultati cui giungono questi poeti sono, tuttavia, ambivalenti. Il
rischio che continuamente corrono è quello che i resti
vocali divengano puro e semplice bruitage sonoro, pura scoria
sonora confusa nel brusio inorganico dell’essere.
Ben
altra strada è quella percorsa da chi ha compreso che la voce
paradossalmente può essere conservata solo nella dimensione della
parola, ma di una parola che si lascia consapevolmente “timbrare”
dall’assoluta contingenza della voce. È il caso di Carmelo
Bene. Ma su Bene è bene ritornarci in altro luogo, con più
calma.
-
Invocazione,
es-clamazione.
Sia
Adriana Cavarero (Op. cit.) che David Michael Levin (
Carbone – Levin, 2003) nei loro saggi dedicati alla voce insistono
sull’idea di un leghein vocale, di un legame vocale –
per Cavarero il legame materno, per Levin il legame carnale di
derivazione merleau-pontiana – che precede il simbolico e che,
se recuperato, fonderebbe un’etica nuova.
Il
rischio di entrambi è quello di rielaborare/ripresentare l’antico
mito di un’armonia originaria – stavolta non del tutto perduta
– distrutta dal cattivo simbolico. Cavarero più correttamente
identifica tale legame con un’invocazione iniziale che
già il vagito della nascita conterrebbe (Cavarero, cit.,
p. 185). Invocazione che produrrebbe/richiederebbe una prima risposta
(quella della madre).
Lasciando
da parte le questioni: a) dell’eventuale grado di istintualità
delle espressioni d’aiuto, b) della mancanza di indirizzo
comunicativo dell’invocazione – su cui, attraverso Lyotard,
abbiamo già preso posizione – bisognerebbe domandarsi se
il concetto stesso di invocazione non rimandi a sua volta ad
una situazione di iniziale pericolo, ad una situazione di radicale angoscia
iniziale (senza per forza scomodare Freud) e che, quindi, non sia davvero
così elementare e “iniziale”. Quel che intendiamo
dire è che, innanzitutto, già nel suo concetto, l’invocazione
implicitamente rimanda ad uno stato iniziale di pericolo, di insicurezza,
di mancanza essenziale che la fonda, destituendola d’inizialità.
Tuttavia – e qui tocchiamo di nuovo l’ambivalenza iniziale
cui la voce dà voce – la stessa tesi che vede nell’invocazione
un primum etico produce, a ben guardare, una singolare rimozione, che
è quella dell’ambivalenza della voce che non espone solo
un pericolo iniziale ma anche un’iniziale potenza d’essere,
un’iniziale volontà d’esistere. Hiersein ist herrlich,
per dirla con Rilke (Rilke, 1995, p. 86) che, nelle sue Elegie, ha detto
cose in aggirabili circa l’iniziale ambivalenza del vivente/esistente.
Non solo, quindi, l’invocazione non è un fenomeno
etico iniziale bensì derivato, ma la riduzione del gesto
vocale all’invocazione all’altra/o produce la cancellazione
dell’altro aspetto della voce, vale a dire dell’esposizione
della potenza d’essere che la fa esistere.
“Forse
sotto questa luce – scrive Nancy, in un passo che ci sembra ora
la naturale continuazione e l’ulteriore chiarificazione di quanto
abbiamo fin qui tentato di dire – va visto un neonato col suo
primo grido, come se fosse egli stesso – il suo essere o la sua
soggettività – l’espansione improvvisa di una camera
d’eco, di una navata dove riecheggia, al contempo, ciò
che lo strappa e ciò che lo chiama, mettendo in vibrazione una
colonna d’aria, di carne, che suona alle proprie imboccature:
corpo e anima di un qualcuno nuovo, singolare. Uno che viene
a sé, sentendosi rivolgere la parola proprio come si
sente gridare […] o cantare, sempre ogni volta […]
es-clamandosi: come ha fatto venendo al mondo” (Nancy,
2004, pp. 28-29).
Esponendosi
la voce si es-clama.
-
Stimmung
e insensatezza.
Diamo
ancora la parola a Nancy. Nel suo importante libro All’ascolto
ad un certo punto, citando Antoine Bonnet, afferma che il timbro
deve essere considerato il reale della musica (Nancy, cit.,
p. 63). Nel timbro è il reale che mostra il suo senso
il quale “qui, è il rinvio, il rimbombo, il riverbero:
l’eco in un dato corpo – ossia il come di questo
dato corpo; o ancora, è come il dono a sé di questo
dato corpo” (p. 65). Nancy riprende qui il suo discorso teoretico
generale, secondo il quale, se non interpretiamo male, il “senso
del mondo” è tutto in quel che egli chiama la spartizione
dell’esistenza, singolare con altre singolarità,
in un caratteristico “singolare plurale: cosicché la singolarità
di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-tanti”
(Nancy, 2001, p. 47). Il senso dell’essere non è che la
spartizione singolare-plurale dell’esistere: “l’essere
non ha senso, ma l’essere stesso, il fenomeno dell’essere,
è il senso, che a sua volta è la circolazione di se stesso
– e noi siamo questa circolazione. Non c’è
senso se il senso non è spartito […] perché il
senso è esso stesso la spartizione dell’essere”
(Ivi, p. 6). Ora, ritornando a riflettere sul timbro,
Nancy trova in questo una potente metafora per approfondire il suo discorso
sul senso s-partito. Infatti, non c’è, in musica,
niente di più “singolare” del timbro, che differisce
in modo netto dagli altri parametri musicali “misurabili”,
come l’altezza, l’intensità, la durata. Inoltre,
sottolinea Nancy, esso non è univoco, nel senso che “è
l’unità per eccellenza di una diversità, che non
viene riassorbita dall’unità” (Ivi, p. 66).
Eppure, il timbro comunica, anche se non “trasmette”.
Comunica l’incomunicabile, dice Nancy, ma “a condizione
di capir bene che l’incomunicabile altro non è […]
che la comunicazione stessa, ciò attraverso cui un soggetto fa
eco a se stesso – a sé, all’altro è un tutt’uno
– un tutt’uno al plurale” (Ivi, p. 65). Il
timbro, potremmo concludere, per Nancy comunica es-ponendo, comunica
l’es-clamazione di quel che, fin qui, abbiamo chiamato voce.
Che l’ispirazione (non del tutto segreta) delle argomentazioni
di Nancy sia il fenomeno della voce lo attestano, a nostro avviso, molti
passaggi del suo testo. Non potendo riportarli tutti, limitiamoci ad
uno particolarmente denso che ci permetterà di evidenziare se
non un’aporia, almeno una polarizzazione interna alla sua interpretazione.
Scrive il filosofo francese: “il timbro può essere raffigurato
come la risonanza di una pelle tesa […] e come l’espansione
di questa risonanza nella colonna cava di un tamburo. Peraltro lo spazio
del corpo in ascolto non è, a sua volta, una simile colonna cava
sulla quale è tesa una pelle, ma dalla quale l’apertura
di una bocca può altresì riprendere e rilanciare la risonanza?
Percuotimento dall’esterno, clamore all’interno: questo
corpo sonoro, sonorizzato, si mette all’ascolto simultaneo di
un ‘sé’ e di un ‘mondo’, che sono l’uno
in risonanza dell’altro. Se ne angoscia (si rinserra) e ne gioisce
(si dilata). Si ascolta angosciarsi e gioire e s’angoscia di questo
stesso ascolto, dove ciò che è lontano risuona da più
vicino” (Ivi, p. 68).
Possiamo
ora chiarire i termini di quella polarizzazione che abbiamo detto ritrovarsi
a nostro avviso in Nancy e che è uno dei problemi teorici intorno
a cui ruota la sua ricerca filosofica. Schematicamente potremmo affermare
che, secondo il Nancy di All’ascolto, da un lato il senso
del mondo tende a ridursi al ri-suono del mondo stesso, alla
sua interna Stimmung – per usare una parola tedesca che
richiami sia l’accordo che la voce, richiamando
al contempo anche la grande utopia musicale agostiniana dell’armonia
del mondo (cfr. Spitzer, 1967) – dall’altro lato nelle sue
stesse analisi il senso-Stimmung inevitabilmente si scontra con
l’insensatezza della voce. Se il senso consistesse
unicamente nella s-partizione delle voci, nel loro accordo-discorde,
nella loro “compagnia” – beninteso sempre instabili
e ribaltabili in dis-armonia e “scompagnamento” –
se il “senso del mondo” si riducesse a questo, allora l’evento
della voce resterebbe incompreso perché senza senso, insensato,
e la gioia e l’angoscia, di cui lo stesso Nancy parla, accadrebbero
senza ragione, senza neanche quella ragione che il filosofo francese
chiama “senso” (spartizione singolare-plurale dell’essere).
Ma forse è proprio questo che Nancy, attraverso la sua stessa
“ontologia del senso”, vuol dire (o forse siamo noi che
vorremmo farglielo dire?): la voce è senza senso, è insensata,
assoluta impurità rispetto al senso, scarto incomprensibile,
contingenza impossibile.
-
Scarti
della trascendenza: la contingenza assoluta
Il
fenomeno della voce ci fa comprendere che non c’è che gli
scarti. Ci fa capire che il vivere/esistere (forse sarebbe meglio
dire: la “natura che esiste”) non consiste che nello scarto:
è singolarità, eccentricità, scarto assoluto, è
insensata e impersonale originalità (lo “scarto assoluto”
è inappropriabile al senso, in qualsiasi senso).
Scarto
dell’essere, la voce è anche, come abbiamo visto, scarto
da sé, gesto che si espone, trascendendo la sua propria
immanenza. È l’anima e il corpo, è
la mancanza e la pienezza (Cuomo, 1998, cap. quinto). Essa è
contingenza assoluta, cioè im-possibile, vale a dire che
non può essere concepita come un’attualizzazione di un
possibile (cfr. Masullo, 1995, p. 101 sgg.). Se il possibile,
come voleva Leibniz, è ciò che può essere concepito
senza contraddizione, allora la contingenza assoluta della voce implica
sempre contraddizione, impossibilità logica (il logos
propriamente manca sempre la voce).
Un’ultima
cosa ancora, prima di concludere. La voce di cui abbiamo, nonostante
tutto, parlato (ascoltandone il “timbro”) non è un’esclusiva
dell’uomo, ma è la voce del vivente/esistente in quanto
tale, la voce della “natura-che-esiste” (lasciando volutamente
indeterminati i confini tra il vivere e l’esistere). Propriamente,
all’interno della “natura-che-esiste”, non c’è
solo l’organico ma anche l’inorganico, o meglio ci sono
tutte le dimensioni della natura. In fondo è indifferente a quanto
finora detto della voce che essa sia di un uomo, di un animale o di
una macchina.
C’è
voce laddove una piega dell’essere reagisce al suo stesso
accadere, sentendo ed esponendo l’insensatezza del suo accadere,
lo stupore e l’angoscia, la gioia e il dolore che la fanno scarto.
(novembre
2004)
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