indice del numero 4

 

 

 

 

Zygmunt Bauman, Vite di scarto,
Roma - Bari, Laterza, 2005, pp. XVIII - 216, ISBN 8842072753, Euro 15,00

 


Come molti altri suoi testi pubblicati in Italia di recente (cfr. soprattutto Amore liquido, 2004, e La società individualizzata, 2002), Vite di scarto rappresenta l’ultima istantanea scattata dal sociologo polacco al paesaggio umano della postmodernità, che egli chiama, com’è noto, ‘modernità liquida’: il leit-motiv dei rifiuti e degli scarti – già oggetto di un inedito che Bauman ha gentilmente concesso alla rivista Kainòs per il presente numero – viene qui sviluppato e riarticolato, spesso riprendendo letteralmente brani de Il pianeta dei rifiuti, che è stato collocato fin dall’autunno 2004 nella nostra sezione Emergenze. In particolare, viene riproposta al lettore la penetrante metafora dei leoniani, immaginari abitanti di una delle Città invisibili di Italo Calvino, per alludere già nell’introduzione ai lati oscuri e maleodoranti del nostro benessere, che non possono più venir nascosti.

In un certo senso, recensire questo libro significa riciclare quel breve testo probabilmente già ‘scartato’ come vecchio dai navigatori del Web, per sondarne il potenziale ermeneutico: considerare, da un lato, l’importanza che la tematica da noi prescelta ha assunto agli occhi di Bauman, al punto da indurlo a trasformarla nel nucleo di un vero e proprio libro; dall’altro lato, analizzare il modo in cui in esso il sociologo ha utilizzato la propria collaudata cassetta degli attrezzi, per illuminare ulteriori pieghe semantiche del concetto di ‘scarto’. Sorvolando sui preziosi excursus che l’autore introduce nel testo (i quali meriterebbero una recensione a parte poiché spaziano dai Fratelli Karamazòv al libro di Giobbe passando per Kracauer), vorrei piuttosto esplorare qualche zona d’ombra contenuta nella sociologia descrittiva baumaniana, e precisamente il nesso immediato (nel senso hegeliano) che egli instaura, come di consueto, tra la propria critica psico-sociologica della globalizzazione, e la condanna morale dei suoi risvolti consumistici. Per l’ennesima volta, infatti, Bauman dichiara di voler offrire un bilancio prospettico e alternativo alla modernità liquida; ma il suo sguardo, che appare ormai sempre più allineato con quello del movimento no-global (si vedano ad esempio i frequenti riferimenti a Naomi Klein), fornisce solo un esiguo retroterra politico ‘socialista’ alla posizione etica assunta nei confronti della globalizzazione.


La premessa di Bauman è nota, anche perché subìta, dal punto di vista esperienziale, da tutti noi: la globalizzazione coincide sempre di più con la saturazione e con l’avvelenamento del pianeta, nonchè con l’impossibilità di trovare nuovi spazi liberi e incontaminati, in cui sversare il liquame postmoderno. Il quale non è costituito soltanto dalle scorie materiali prodotte dal benessere dei pingui cittadini dell’Occidente, ma anche e soprattutto dai rifiuti umani della modernizzazione, concepita da Bauman, sulla scia dell’antropologa Mary Douglas, come “costruzione di ordine” (p.8); se, quanto più si cerca di fare ordine nel mondo sociale, tanto più si produce caos, siamo ormai giunti al limite della modernizzazione intesa come progetto di perfezionamento dell’umano: al punto in cui il sogno di pulizia si rovescia – senza soluzione di continuità – nella realtà immonda dell’escremento. Secondo Bauman, la logica della modernizzazione ha operato come una rapinosa industria mineraria (attraverso le tappe reiterate dello sfruttamento e dell’abbandono), ma anche come un’ambiziosa distruzione del ‘troppo’ (Michelangelo docet, cfr. p.28) ch’è stato scartato in nome dell’inarrivabile bellezza finale; era dunque destino che, di fuga in fuga, il groviera della terra mostrasse a un certo punto l’esaurimento delle cave d’oro e di marmo, e – fuor di metafora – la secchezza delle gole dei bambini africani o dei pozzi di petrolio texani. L’altrove di cui un secolo fa Rosa Luxemburg aveva teorizzato la sparizione nelle fauci dell’onnivoro capitalismo imperialistico, si è effettivamente consumato: è stato divorato dalla globalizzazione. Ecco perché, oltre a minare il già labile confine psichico che separa la nostra repulsione dall’attrazione verso la sporcizia ed i rifiuti (ad esempio verso i cadaveri, i capelli, gli escrementi, le secrezioni di ogni tipo), l’epoca liquida che, per Bauman, si è inaugurata meno di trent’anni fa (a livello socioeconomico, con il riflusso degli anni Ottanta) segna la metamorfosi della cultura del soggetto costruibile in un’anti-cultura dell’individuo rifiutabile.

In altri termini, la moderna ossessione “compulsiva” e preventiva del cambiamento e del progetto (p.30 e sg.), ha generato il suo inevitabile aborto sociale: ci troviamo oggi di fronte alla fine, o meglio alla insostenibilità ad infinitum, del privilegio culturale, economico e psicologico di coloro che hanno avviato la gigantesca edificazione del mondo moderno con un proporzionale, ma ormai mostruoso, eccesso di scorie. Di conseguenza anche noi occidentali, dopo aver guadagnato il benessere producendo, e facendolo pagare ai rifiuti umani, siamo diventati passibili, in ogni momento, di essere trasformati in rifiuti. Non soltanto nel calderone etnico degli Usa, ma anche nella vecchia Europa, oltre a quelle degli spazzini extra-comunitari, anche le nostre vite sono sempre più esposte alla “smaltibilità” acefala del meccanismo globale dello scarto; così come, alla luce della vera e propria ondata epidemica della depressione e dei disturbi della personalità, non esiste più nei nostri paesi una soglia definita e rigida che separi i cittadini ‘normali’ dalle fasce psichicamente disagiate, allo stesso modo non è più possibile considerarsi per sempre al riparo dalla povertà e al sicuro dall’esclusione sociale: “la destinazione ai ‘rifiuti’ diviene il potenziale destino di tutti” (p.89).

Sul piano politico, questa condizione ansiogena ha innescato delle dinamiche reazionarie: per esorcizzare la precarizzazione del lavoro, l’impoverimento dei ceti medi, l’arricchimento illimitato dell’élite finanziaria globale, molti governi degli stati occidentali – i cosiddetti neocon di diverse latitudini – stanno recuperando parte del vecchio autoritarismo guerrafondaio pre-sessantottesco. La riabilitazione dell’“homo hierarchicus” (p.76) e la limitazione delle libertà civili (si pensi al Patriot Act americano dopo l’11 settembre), che l’immigrato polacco Bauman (da anni residente in Gran Bretagna) denuncia insieme alla politica di Tony Blair (il quale a suo giudizio ammicca vergognosamente al disgusto anglosassone per l’esubero umano agitando il manganello della “tolleranza zero” nei confronti di rifugiati, asylanten, ecc., cfr. p.70 e sg.), equivalgono alla riproduzione e al consolidamento di un’immobile gerarchia sociale (a mio giudizio ‘anni cinquanta’), fondata sulla paura, da opporre ed imporre a coloro che, con la loro povertà ‘rifiutata’, sono lo specchio vivente della minaccia che incombe sulle esistenze dei consumatori: l’“industria della sicurezza”, gestita col pugno di ferro dal residuo potere sovrano degli stati nazionali, si assume il compito di ghettizzare e criminalizzare la miseria, di rimuoverne il carattere non destinale, di assolutizzarne ideologicamente l’esistenza come ‘natura’ (per inciso, è lo stesso movimento di criminalizzazione delle libertà conquistate negli anni Sessanta e Settanta che, in Italia, sta tentando di rimettere in discussione le leggi che ne tutelano il godimento).

La profilassi igienica verso i rifiuti umani interni ed esterni prodotti dall’Occidente, costituisce insomma un tentativo di difesa psicologica di fronte all’insopportabile capillarità del pericolo di trovarsi improvvisamente e irreversibilmente esclusi dall’ebetismo consumistico. In questa prospettiva, Bauman ricalca temi foucaultiani nel descrivere gli iperghetti urbani (Loïc Wacquant) e le carceri come discariche che devono occultare nello spazio, ed affrettare nel tempo, la biodegradazione degli individui ormai scartati (cfr. p.106-108): trent’anni fa (con la coppia partage-quadrillage descritta in Sorvegliare e punire, 1975) Foucault aveva già compreso la funzione bio-politica (che Bauman etichetta alla fine del suo testo come Grande Fratello 2), oltre che disciplinare (il Grande Fratello 1), della separazione tra dentro e fuori, normale e anormale, legale e illegale – tra ‘piccola’ criminalità comune, soggetta alla giustizia punitiva, e impunità delle grandi mafie internazionali (globali ed extra-territoriali) rispetto alle leggi sovrane dei singoli stati. La “membrana asimmetrica” che divide gli esclusi dai privilegiati e serve, nello stesso tempo, a normalizzare e sedare i comportamenti dei primi per consentire quelli dei secondi, è divenuta oggi più sottile che mai; tuttavia, lungi dallo scomparire nella dolcezza consumistica, i poteri disciplinari inaspriscono ed ampliano i propri tradizionali meccanismi di controllo e di punizione. Nelle nuove istituzioni totali (ad esempio nei Centri di Permanenza Temporanea), essi praticano con rinnovata crudeltà il vecchio “diritto di esenzione” dai diritti umani nei confronti di rifiuti trattati, per ciò stesso, come sub-umani.

Questo trattamento nasconde uno scandalo biopolitico, legato alla percezione rovesciata che, secondo Bauman, l’Occidente ha del fenomeno della sovrappopolazione del pianeta: non sono ‘loro’, gli esclusi omologati alla spazzatura che sono costretti a toccare in vece nostra, ad essere di troppo nelle nostre città e nei cosiddetti paesi in via di sviluppo (dove peraltro si provvede a decimarli rifiutando loro le cure per l’Aids); siamo noi, i consumatori provvisoriamente privilegiati col nostro non negoziabile tenore di vita, ad essere troppi e “troppo ricchi” (Paul Ehrlich); ed è proprio questa inquietante ed inquinante abbondanza entropica degli occidentali (cfr. p.57) a trapassare insensibilmente ma inesorabilmente nella loro nuova, epocale superfluità (cfr. p.16 e sg.).

Se il carattere ormai virale della nostra esistenza sul pianeta accomuna inconsapevolmente l’analisi baumaniana a quella del movimento immunitario della civiltà moderna teorizzato da Roberto Esposito nei suoi ultimi libri, il concetto-esperienza di superfluità, di sapore pre-totalitario, appare mutuato direttamente dalla Arendt; insieme ad altri, che l’autore attinge alla terminologia di Agamben (oltre alla nozione di homo sacer, p.41 e sg., sono assai presenti temi desunti da Mezzi senza fine. Note sulla politica, del 1996), esso viene immerso in un orizzonte psico-sociologico e descritto come sintomo di una malattia globale. In buona sostanza, Bauman applica – tendendo ad appiattirla – la sua tecnica di analisi sociologica su ciò che egli ritiene essere, per così dire, l’aborto etico della globalizzazione: i rapporti umani.

Tutto l’ultimo capitolo del libro (Cultura dei rifiuti) si presenta come un pietoso lamento funebre intonato sui resti dei legami affettivi tra gli individui postmoderni. Come già in Amore liquido, la critica etica di Bauman alla modifica strutturale delle relazioni interpersonali prodotta dal consumismo non si accompagna ad un adeguato, lucido sforzo teorico – uno sforzo che, nonostante la millanteria dei filosofi, forse solo un sociologo potrebbe compiere – teso a comprendere la portata e il senso complessivo di questa de-soggettivazione sintomatica dei rapporti interindividuali. Ovviamente in questa sede non si può che segnalare l’enormità della questione, senza peraltro negare la reale drammaticità delle situazioni cui Bauman fa riferimento: la sofferenza psichica e la fragilità emotiva di coloro che vivono, per così dire, al di sotto dell’etica inter-soggettiva.

Il problema sta nel fatto che, mentre i veri esclusi dal consumo (la coesa ‘plebe’ subumana dei poveri) non vengono affatto monitorati dal punto di vista psico-sociologico, le persone di cui vengono invece puntualmente descritti la solitudine, il disincanto, l’usa-e-getta sentimentale, restano comunque dei privilegiati, ancorchè imperfetti consumatori, che vivono il loro benessere senza conferirgli alcun senso relazionale. Che cosa significa, in altri termini, la loro “cultura del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza” (p.145), se non un’enigmatica non-soggettività autoreferenziale?

Si tratta di un paradosso sociologico che non si riesce a sciogliere facilmente. Da un lato, abbiamo tanto tuonato contro la soggettività e la cultura del soggetto, che ora non possiamo piangere davanti al suo inabissamento epocale nella marmellata postmoderna. Né sostare mesti davanti alla mediocrità che ne consegue, condannando ad esempio implicitamente, come fa Bauman, il nuovo godimento ansiogeno provato da coloro che, seguendo una moda ormai diffusa, tendono ad indebitarsi per consumare di più e più in fretta. Etichettare questi comportamenti come ‘disfunzionali’ (cosa che fanno spesso i pedagoghi impotenti di fronte alle assurde manie dell’adolescenza postmoderna), non equivale a capirli, quanto piuttosto a giudicarli con vecchie categorie morali spazzate via dallo stesso processo che ha reso impossibili i legami durevoli, l’impegno tenace e la costruzione della famiglia mononucleare veteroborghese.

D’altra parte, siamo stati buttati nel quadro da noi stessi dipinto: vaghiamo nei paesaggi giapponesi del postmoderno avendo smarrito ogni traccia di weberiano distacco e di husserliano rigore. Forse è la pura e semplice paura dinanzi ad una potenziata esperienza della smaltibilità – dunque della radicale insensatezza – di ognuna delle nostre vite di fronte all’altra, a renderci così moralmente duri nei confronti di coloro che hanno ormai abbandonato – o mai assunto – la moderna forma soggettiva. In un mondo (sovra)popolato da individui non-più-soggetti (ma assoggettati alla loro mera interdipendenza), siamo tutti smaltibili e rifiutabili, senza che ciò possa innescare una selezione meritocratica (e gestita da chi?), o un piano di riciclaggio sociale: nel gioco consumistico-mediatico delle nomination si rifiuta per non essere rifiutati, e dunque non vengono buttati fuori “i meno abili o meno zelanti, i meno dotati e più poveri di risorse” (p.164); questi, piuttosto, rimangono stupidamente in sella per alcuni istanti, sufficienti a scartare gli inidonei esemplari di una vecchia umanità.


Secondo Bauman, la logica terroristica dello scarto eredita ed intensifica l’ossessione moderna per l’ordine procedendo, per così dire, come una sorta di Schmitt rovesciato – per cui “la regola precede la realtà” (p.40) – ; ma, con un’accelerazione della corsa progettuale prossima alla stasi, il gioco postmoderno ne capovolge il senso, schiacciandolo sul consumo e rendendo superflua l’etica che dovrebbe giudicarlo. In assenza di una comunità politica planetaria che sanzioni regolarmente e per legge i comportamenti criminali di interi stati, di singole schegge mafiose o di astute élites finanziarie, è ‘legittimo’ chiedersi se lo scarto più impressionante prodotto dal gioco globale non sia proprio questo: la domanda etica di un gioco alternativo. In termini foucaultiani, nessuno, che sia bio-politicamente prodotto da regole che ‘precedono’ la sua e l’altrui realtà, può decidere o chiedere di cambiarle, perché non può percepire il senso di un tale cambiamento. Forse il margine di altrove e di altrimenti che gli resta da vivere, se gli resta, è del tutto insensato e privo di consapevolezza morale. Quale sociologia potrebbe comprenderlo?


(Eleonora de Conciliis)

 


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