Adriano
Favole, Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte,
Editori Laterza, Roma-Bari
2003, ISBN 88-420-6846-2, Euro 20,00
L’antropologia
si è spesso occupata della morte, anche se in una modalità
specifica, ossia studiando sostanzialmente i riti e le credenze ad essa
connessi. Prendendo spunto dall’intuizione di Hertz, convinto
sostenitore dello studio dei “contesti simbolici e sociologici
del cadavere” (p. 17), Adriano Favole propone invece nel suo lavoro
l’analisi di ciò che la morte materialmente investe e trasforma,
ossia proprio il corpo, ciò che resta della persona.
A
partire dalla valutazione dello statuto ontologico ambivalente dei cadaveri,
oggetti di soglia sospesi tra l’essere e il non essere, l’attenzione
è rivolta dall’autore al trattamento dei resti, come al
momento più significativo per la comprensione del rapporto che
le società intrattengono con la morte. “Se per gran parte
della loro esistenza i corpi degli individui sono modellati e manipolati
dalle forze della cultura, la putrefazione appare come un processo essenzialmente
“antipoietico” […]. In quanto tale essa pone una
minaccia mortale non solo all’individuo ma all’intera società
e per questo deve essere culturalmente controllata”(p. 35). La
vita sociale dei resti, in quanto forma di riappropriazione culturale,
si presenta allora come la risposta positiva delle comunità umane
alla fine biologica. D’altra parte, “come ci ricorda la
psicoanalisi, la presenza del cadavere costituisce un’esigenza
fondamentale per l’elaborazione del lutto (Fedida 1980). Anche
quando vi sia la certezza della morte e del luogo in cui si trova il
corpo, il suo recupero viene considerato della massima importanza”
(p. 24), come è accaduto per i cadaveri del Kursk, nel 2000 come
pure, di recente, per le vittime dello tsunami.
Esistono
tuttavia anche casi di riduzione del cadavere a nudo rifiuto: si tratta
di contesti in cui si attua la negazione radicale del riconoscimento
di appartenenza all’umanità o alla singola società.
Dai campi di sterminio nazisti alle fosse comuni dei tutsi e dei kosovari,
i genocidi testimoniano, ad esempio, di una furia distruttiva che nega
all’altro la stessa dimensione umana, mentre l’esclusione
dalla collettività spiega perché ai bambini non iniziati,
ad eretici e streghe nel Medioevo, come pure ai cadaveri di emarginati,
pazzi e criminali, fossero negati riti funebri. “Il rifiuto sembra
configurarsi insomma come l’eccezione che conferma la regola:
laddove vi è piena attribuzione di humanitas all’individuo,
l’attenzione ai resti si configura come una necessità inderogabile.
Viceversa, il rifiuto dei cadaveri appare come un’evasione, spesso
assai pericolosa, dai confini dell’umanità” (p. 30).
Adriano
Favole riconosce nel controllo della decomposizione dei cadaveri proprio
il tratto specificamente umano di lavorazione della morte, che di per
sé non è trattata come un evento puntuale, ma piuttosto
come processo. È proprio questo aspetto che consente all’autore
di definire “poroso” il confine tra morte e vita e di far
convergere la prospettiva antropologica con quella biologica: la morte
infatti è presente nel corpo del vivente come progressiva distruzione
cellulare, mentre la vita di talune cellule continua anche dopo la morte.
Se
dunque il confine resta incerto, il corpo del cadavere esige di essere
lavorato in vista della vita, e ciò accade secondo specifiche
modalità. La cremazione e il cannibalismo rispondono all’esigenza
di evitare la putrefazione assimilando i resti alla natura vivente,
sia essa il fiume Gange, in cui si disperdono le ceneri dei defunti
in India, o la tribù di appartenenza, che si ciba del corpo del
defunto. L’esposizione dei corpi morti agli agenti atmosferici
e agli animali intende piuttosto accelerare il processo di decomposizione,
sottraendolo rapidamente allo sguardo, come pure avviene con l’inumazione.
In America del Nord si sottopone il cadavere alla tanatoprassi, una
sorta di imbalsamazione temporanea che consente di esporlo per la veglia
funebre, rallentando per diverse settimane l’effetto disgregativo
della morte. Infine la criogenizzazione, ossia l’ibernazione del
defunto, testimonia della volontà di bloccare e contrastare la
decomposizione, nella speranza che in futuro la scienza consenta di
riportare in vita i morti, conservati per questo a temperature bassissime.
E
tuttavia non sono solo queste le forme con cui l’humanitas
si attiva rispetto ai resti mortali. Il corpo è infatti “espressione
di una capacità di relazione, di incorporazione
di rapporti sociali” (p. 97) e perciò diventa emblematico
il ruolo svolto dai suoi resti nelle varie società umane. Così
per i Polinesiani la conservazione del corpo del capovillaggio legittima
l’autorità del capo, assicurandogli benessere e energia
positiva, analogamente a quanto è successo in Occidente, dove
i resti dei santi, le reliquie, hanno svolto un’indubbia funzione
di protezione delle comunità. La loro rilevanza politica è
accuratamente ricostruita e riguarda in particolare i periodi di espansione
dello spazio cristiano, i secoli IV e V e poi VIII, IX e XI, in cui
le reliquie erano utilizzate da papi, e non solo, come preziosi beni
di scambio per costruire alleanze importanti e durature.
Prima
ancora della funzione politica, anche se chiaramente collegata ad essa,
è tuttavia rilevante la capacità antropopoietica che investe
i resti e si oppone alla tanatomorfosi, ossia al processo di disgregazione
proprio della morte. In Oceania come in Occidente, infatti, sono molteplici
le testimonianze di un simile, accurato lavoro, che vede le reliquie
incastonate in preziosi scrigni dalle molteplici fattezze o i teschi
decorati con pittura e incisioni. È un modo per continuare il
processo culturale di appropriazione del mondo attraverso forme umane,
e che testimonia della persistenza, anche nell’escatologia cristiana,
della dimensione della corporeità umana. Le reliquie sono definite
“corpi santi” proprio per esaltare la resistenza della vita,
capace di trasfigurare frammenti anche minimi, rendendo presente in
essi il santo. “La storia di questi corpi santi è in contrasto
con una visione dualistica dell’essere umano, destinato a perdere
il proprio corpo e a trasformarsi nell’aldilà in un’essenza
incorporea. Le reliquie cristiane, così come la dottrina della
resurrezione dei corpi, sono invece l’espressione di un’esigenza
di corporeità che travalica l’esperienza drammatica della
sofferenza, della malattia, della morte, della dissoluzione. In altri
termini, si potrebbe sostenere che il culto delle reliquie è
il prodotto dell’insoddisfazione per una definizione puramente
spirituale della natura umana. Nonostante l’insistenza della tradizione
platonico-cristiana sulla centralità dell’anima, il corpo
[…] trova nel culto delle reliquie una rivincita importante.
La «finzione» del corpo rimedia l’incompletezza dello
spirito” (p. 99).
E
proprio alla luce di questa esigenza antropologica, che spinge l’uomo
a rivendicare il prevalere della concretezza della vita sulla morte,
diventa significativo il confronto proposto dall’autore tra le
reliquie cristiane e i resti provenienti dall’Oceania, prevalentemente
crani, lavorati e conservati con cura da numerosi popoli austronesiani.
Al centro dell’analisi la funzione sociale svolta dalla materialità
dei resti, che diventano, in Occidente come in Oriente, il collante
di molteplici comunità umane. “Per i Cacciatori di teste
l’incorporazione dell’Altro, dell’estraneo, del cranio
del nemico era utile a rafforzare l’identità del gruppo,
analogamente alla logica simbolica delle reliquie cristiane” (p.
123).
La
mostra “Reliquie d’Europa e d’Oceania”, svoltasi
a Parigi tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000, presentando
sul medesimo piano i resti venerati da comunità molto distanti
tra loro, conferma il superamento della concezione eurocentrica, tanto
diffusa nell’Ottocento e avente come scopo primo l’esibizione
della subalternità dell’Altro, da intendere come popolo
inferiore e perciò da dominare. Come l’autore ricorda,
infatti, nei primi musei etnografici “gli Altri (e i loro resti)
andavano a occupare una qualche casella della via che, dall’oscurità
della selvatichezza, portava alla luminosa civiltà degli europei”
(p.129). Non deve pertanto sorprendere che in molti processi di decolonizzazione
sia divenuta centrale la richiesta di restituzione di quanto depredato
dagli europei nei loro viaggi esotici, per arricchire i propri musei
etnografici. “Se gli europei furono a lungo cacciatori di resti
e di altri oggetti nel mondo dei selvaggi, essi individuarono nel museo
il luogo privilegiato per la loro incorporazione.[…] Nel museo
l’alterità venne incorporata e simbolicamente «digerita»
secondo criteri espositivi destinati più a rafforzare l’identità
del Noi, la sua superiorità gerarchica, storica e culturale,
che a far conoscere le altre forme di umanità” (p. 130).
Ma
le pratiche di incorporazione, attuate nell’Ottocento dalla scienza,
non ebbero come oggetto solo i cosiddetti “selvaggi”. Il
Museo Lombroso testimonia infatti dello sforzo di normalizzazione messo
in atto dallo studioso, che sosteneva di poter risalire dalla anomalie
morfologiche ai comportamenti devianti di pazzi, criminali, omosessuali,
prostitute, da controllare e addomesticare opportunamente al fine di
realizzare una società civile.
Anche in
questo caso il corpo è utilizzato ed esibito per avallare un’ideologia,
in virtù del suo carattere incontrovertibile di prova o testimonianza
materiale, anche se lontano da qualsiasi valenza simbolica. “Una
concezione rigidamente materialistica del corpo, una sorta di monismo
biologico accomuna la prospettiva di Lombroso a quella degli anatomisti
ottocenteschi. In quest’ottica i corpi morti divengono dei semplici
scarti o rifiuti che non necessitano di particolari attenzioni culturali,
ma si rivelano utili tutt’al più a essere conservati ed
esposti per motivi didattici, divulgativi o a sostegno delle proprie
convinzioni scientifiche” (pp. 146-147).
A
modificare radicalmente questo tipo di approccio è stata, in
ambito medico, la moderna tecnologia dei trapianti, che ha nuovamente
riconosciuto la forza benefica dei resti: organi espiantati da pazienti
clinicamente morti sono divenuti, infatti, possibili fonti di vita.
Il Novecento ha inoltre confermato l’importanza simbolica dei
resti anche in campo politico: il corpo di Mussolini, ad esempio, fu
restituito alla famiglia solo nel 1957 per evitare che si trasformasse
in una pericolosa reliquia politica. Si tratta di casi emblematici che
dimostrano la tesi di fondo di Adriano Favole, ossia la vita sociale
dei corpi dopo la morte, che oggi si manifesta da un lato nella modalità
dell’incorporazione, attraverso i trapianti, dall’altro
nel riconoscimento di una funzione politica anche ai cadaveri.
Il
tema della reliquia resta quindi attuale pur se declinato in termini
nuovi, motivo che induce l’autore a parlare di “reliquie
della modernità”. E tuttavia la ritrovata valenza sociale
dei resti contrasta oggi con il venir meno dei luoghi deputati ad accogliere
i defunti. “In una società sempre più globalizzata
in cui il senso della comunità locale dei vivi si va progressivamente
indebolendo, suggerisce Douglas Davies, anche i luoghi comunitari dei
morti (i cimiteri) rischiano di scomparire. Parafrasando il titolo di
un celebre libro di Marc Augé (1993), potremmo osservare che
la pratica della dispersione privata delle ceneri sembra prefigurare
la nascita di «non luoghi» dei morti” (p. 52).
(Stefania Astarita)
Indice
Premessa p. V
L’incerta soglia p. 3
Dal corpo ai resti p. 31
Reliquie cristiane p. 72
Reliquie d’Oceania p. 102
Reliquie della modernità p. 140
Bibliografia p. 171