Norbert
Elias – John L. Scotson, Strategie dell’esclusione
Bologna,
Il Mulino (Saggi), 2004, ISBN 8815096272, Euro 22,00
(Tit. orig.: The Established and the Outsiders, London, Sage,
1994)
Il
volume contiene i risultati di una ricerca condotta da Scotson nei primi
anni ’60 sulla popolazione di una piccola comunità operaia
inglese, Winston Parva. In qualità di direttore della ricerca,
ispirata alla sua teoria configurazionale sui gruppi sociali interdipendenti,
Norbert Elias l’ha successivamente arricchita con un saggio introduttivo,
in cui emerge la più vasta portata dell’indagine sociologica
svolta a livello locale sui rapporti tra ‘radicati’ (established)
ed ‘esterni’ (outsiders).
Il
testo, solo oggi presentato in traduzione italiana, suscita un notevole
interesse sia sul piano sociologico che su quello filosofico; da un
lato, esso offre un’applicazione significativa, un “paradigma
empirico” (p. 17) delle idee esposte da Elias nelle opere maggiori
(sprt. nel Processo di civilizzazione), nel quadro di quella
che egli stesso ha definito sociologia storico-processuale; dall’altro
lato, consente di elaborare alcune riflessioni critiche sul tema della
‘comunità’, sottraendolo ad ogni vaga concettualizzazione
per ricondurlo entro i lucidi confini dell’analisi dei rapporti
sociali nell’Occidente moderno.
Il
motore della ricerca a breve termine è costituito dalla necessità
di spiegare, insieme all’insorgere della devianza giovanile, la
natura dei rapporti tra i ‘vecchi’ residenti di Winston
Parva e i nuovi arrivati, dal momento che si tratta di gruppi omogenei
per razza, cultura e religione, e soprattutto entrambi appartenenti
alla classe operaia: la stigmatizzazione negativa operata dai primi
nei confronti dei secondi si basa sull’esperienza del loro arrivo
nel Villaggio come una sorta di attacco rivolto al potere della comunità
dei ‘radicati’; per contrattaccare, le famiglie di costoro
attivano un’intensa strategia di esclusione rafforzando la propria
coesione comunitaria e chiudendosi ad ogni contatto con gli ‘esterni’.
Poiché non vi sono cause oggettive (ad es. il diverso colore
della pelle) del pregiudizio contro gli esterni, appare chiaro che esso
è il risultato di una configurazione dinamica dei due gruppi
sociali, tra i quali vi è un’asimmetria di potere non tanto
in termini strettamente economici, quanto piuttosto in termini di auto-identificazione
comunitaria: gli operai anziani concepiscono semplicemente se stessi
come superiori, come più umani (=carisma di gruppo), imponendo
a se stessi e agli altri membri del gruppo un forte conformismo, e ai
nuovi arrivati un’immagine stereotipa di inferiorità. Come
la corrispondente fantasia di superiorità, essa s’impadronisce,
anche in maniera inconscia, del gruppo degli esterni, almeno fintanto
che questo non è in grado di modificare a proprio vantaggio i
differenziali di potere che strutturano entrambi i gruppi in un’unica
configurazione bi-polare.
Secondo
Elias, la dialettica tra radicati ed esterni, osservata nell’esperienza
micro-sociologica di Winston Parva, è presente in ogni configurazione
sociale ed è la vera causa del pregiudizio discriminante, al
quale non è difficile trovare un supporto razziale, etnico, religioso,
ecomomico o culturale tutte le volte che sono in gioco i rapporti di
potere tra diversi gruppi all’interno di un unico sistema complesso;
le stesse comunità nazionali non sono aliene dalla configurazione
radicati-esterni, che come tale richiede, per essere adeguatamente compresa,
lo studio del suo sviluppo sul lungo termine e l’abbandono di
una prospettiva sociologica di breve respiro temporale. La sociologia
ha inoltre il difetto di articolare, a seconda dei valori che presuppone
e abbraccia senza il necessario distacco, una sorta di contrapposizione
ontologica tra individuo e società, senza considerare che i due
concetti sono complementari: Elias respinge sia l’atomismo individualistico
che l’olismo sociale come dei vizi di comprensione della reale
pluralità umana, colta nella sua struttura profonda e nel suo
divenire storico. Ad esempio, il pregiudizio sociale nei confronti di
una “minoranza anomica” – ritenuta “peggiore”
dalla maggioranza – e dei suoi membri devianti, non può
essere spiegato ricorrendo a caratteristiche “della personalità
dei singoli individui” anomici, ma solo “considerando la
figurazione formata dai due (o più) gruppi interessati o, in
altri termini, la natura della loro interdipendenza” (p.20-21).
Ciò
significa che è la stessa interdipendenza sociale a produrre
quelle asimmetrie comparative che portano i ‘radicati’ a
sentirsi superiori agli ‘esterni’, a distinguersi da essi
anche solo per la maggiore coesione o per altri fattori non strettamente
economici; l’interdipendenza rivela che non esistono comunità
buone in sé, dotate di norme universalmente valide e contrapposte
ad altre in sé cattive ed anomiche, ma che solo nell’ambito
di una configurazione sociale emerge la distinzione radicati-esterni,
o superiori-inferiori. Il valore comparativo del gruppo che detiene
i maggiori differenziali di potere, è frutto di un’auto-identificazione
di difesa che assume tratti aggressivi; in quanto tale, esso va soggetto
a mutamenti (o ad eventuali capovolgimenti) storici e dev’essere
trattato senza “pregiudizi” dall’osservatore, ovvero
senza che il sociologo a sua volta si identifichi segretamente con il
gruppo o la classe dominante ai danni della minoranza dominata o stigmatizzata
come anomica. Con ciò Elias non ha soltanto riproposto in forme
nuove il tema weberiano dell’avalutatività, ma ha anche
sottolineato il ruolo dell’immaginario nella costruzione dell’identità
sociale e il carattere composito, strutturato e conflittuale di ciò
che immediatamente designiamo col termine ‘comunità’.
Infatti
l’aspetto più rilevante del testo, soprattutto nella parte
dedicata alle Conclusioni (pp. 231-261), consiste nella critica
del presunto carattere felice e originario della comunità dei
radicati, che si auto-percepisce come superiore rispetto a quella, meno
organizzata e coesa, degli esterni: spesso si assiste ad un’indebita
generalizzazione socio-storica, secondo la quale le comunità
pre-moderne (o non ancora investite dalla modernità) sarebbero
state (o sono) maggiormente coese e compatte, e pertanto prive di quella
conflittualità orizzontale e verticale che invece emerge dalla
figurazione radicati-esterni analizzata da Scotson e teorizzata da Elias.
Ebbene, secondo entrambi ciò risulta doppiamente falso: sul piano
strutturale, i membri del gruppo più potente pagano con una forte
dose di auto-costrizione imposta dalle norme comunitarie, ovvero con
un “sacrificio personale”, la “gratificazione ricevuta
attraverso la condivisione del carisma di gruppo” (p. 25); sul
piano storico, è evidente che in ogni epoca, compresa quella
premoderna, la comunità si è strutturata attraverso la
dialettica radicati-esterni, per cui non ha senso contrapporre, ad un
presente alla deriva in cui la comunità sarebbe in crisi, il
passato come modello o archetipo di un vincolo comunitario tanto ‘naturale’
quanto repressivo. Il processo di civilizzazione che un gruppo compie
sui suoi membri nel corso del tempo, impone loro un alto tasso di controllo
e di conformismo, in cambio del quale potersi percepire come superiori
rispetto a coloro che non sono in grado di controllarsi e di conformarsi
allo standard comunitario; questo tipo di ‘rifiuto’ sociale
non esclude affatto competizione e ostilità tra i membri del
gruppo dominante, ma anzi ne rinfocola le rivalità per conquistarsi
riconoscimento agli occhi della gerarchia che detiene le risorse di
potere. D’altro canto, nella minoranza anomica l’identificazione
negativa al gruppo comporta, ad esempio nei giovani, una devianza che
non ha nulla di spontaneo, ma che viene piuttosto vissuta come rabbiosa
‘vendetta’ rispetto all’inferiorità con la
quale il gruppo intero è stato stigmatizzato.
Per
quanto l’indagine sociologica svolta da Scotson sugli abitanti
di Winston Parva appaia ormai datata rispetto ai recenti sviluppi della
globalizzazione, la teoria di Elias che essa presuppone consente di
riflettere criticamente sulle nuove forme che oggi sta assumendo la
configurazione radicati-esterni. Accanto ad una sua innegabile presenza
nelle regioni del pianeta più violentemente colpite dalla mobilità
etnica e dai problemi d’integrazione, assistiamo ad una nuova
dialettica tra coloro che si identificano come superiori e coloro che
subiscono l’identificazione di inferiorità. Nella misura
in cui (con consapevole rammarico da parte di Elias) il rifiuto sociale
continua ad essere un sintomo di reali dissimmetrie nelle relazioni
di potere, è chiaro che ci troviamo ormai di fronte ad un capovolgimento:
la straordinaria mobilità dei gruppi e la velocità delle
informazioni, nonché il carattere extra-territoriale delle élites
che si trovano ai vertici della distribuzione delle risorse dell’intero
pianeta, comportano sempre più spesso una stigmatizzazione negativa
dei radicati che non vogliono o non possono abbandonare la propria coesione
tradizionale e la propria dimensione ‘a lungo termine’,
ed una valutazione positiva degli esterni sradicati (senza passato)
capaci di esercitare pressione sociale sugli ‘inferiori’:
un controllo superficiale e a breve termine, ma efficace ed ‘esclusivo’,
sul loro comportamento. Paradossalmente, sono oggi i radicati –
come in una sorta di enclaves – ad essere incapaci di adattarsi
alle nuove, velocissime forme mediatiche che impone lo standard comunitario
globale, mentre coloro che, all’altro polo della configurazione,
decidono su tale standard, sono in grado di rifiutarli e di stigmatizzarli
proprio perché non entrano con essi in relazione diretta, ossia
non vivono sullo stesso territorio. E’ il nomos territoriale
ad essere ormai in crisi, il che sposta su altri piani simbolici, ed
attribuisce altri significati culturali alla configurazione radicati-esterni.
Ciò
non equivale affatto ad elaborare, alla vecchia maniera dei francofortesi,
una teoria cospirativa del potere socio-culturale, che immagina una
cupola di dominatori infierire intenzionalmente su una massa imbarbarita
e stagnante; il merito della sociologia processuale consiste piuttosto
nel produrre una conoscenza infra-politica (e forse anche infra-filosofica)
della complessità sociale, svelando il funzionamento interno
e le profonde modificazioni storiche realizzate da ciò che chiamiamo
mondializzazione.
(Eleonora
de Conciliis)