Jean CLAIR,
De Immundo. Apophatisme et apocatastase dans l’art
d’aujourd’hui,
Paris, Galilée, 2004 (Collection Incises), 136
p., ISBN 2-7186-0640-1, 21 Euro
Fin dalle prime battute, ed anzi già
nel titolo, il testo di Jean Clair si profila come una denuncia nei
confronti del cinismo di alcune espressioni dell’arte contemporanea
e come una messa in guardia di fronte al loro inquietante legame con
le pagine più vergognose della storia del XX secolo. Se l’immondo
diventa la categoria privilegiata di opere estreme votate alla deformazione,
interessate al ripugnante, affascinate dagli umori corporali, l’autore
ricorda che là si esprime un niente affatto paradossale apofatismo
dell’informe (“Non c’è nulla da pensare, niente
da dire della merda”, p. 114), che però rinfocola nella
società edonista contemporanea l’eresia medievale dell’apocatastasi,
ossia la credenza che tutto il male sarà redento e che perciò
non c’è alcun bisogno di aver coscienza dell’abiezione.
Sulla fascetta aggiunta
alla copertina è riprodotta la celebre Merda d’artista
di Piero Manzoni, che, al di là del gesto provocatorio, sorprende
soprattutto per le valutazioni in crescita di cui gode sul mercato dell’arte
(tra i 25.000 e i 32.000 dollari nel giugno del 2003, come si ricorda
in nota a p. 32), ben al di sopra del ‘peso d’oro’
a cui dovevano essere venduti i barattoli numerati dall’artista
negli anni Cinquanta. Nella musealizzazione del degrado, nella monumentalizzazione
del detrito, nella stima crescente da parte dei responsabili di un establishment
del gusto che applaude al disgustoso l’autore rinviene il bisogno
regressivo da parte del corpo sociale dell’esibizione di una vita
organica nuda e di una fisiologia allo stato puro, i cui tratti sono
stati analizzati da Giorgio Agamben (Homo sacer è ripetutamente
evocato, cfr. per esempio pp. 30, 75-76, 125) e che ora risulta la materia
prima di un’arte che frolla sporcizia e sozzura.
“L’arte dell’abiezione
sarebbe allora lo stato di un’arte bassa, o ancora di un’arte
del rifiuto, un’arte del resto, quando tutto è stato rigettato.
Ancor meglio che la tabula rasa dell’avanguardia, che pretendeva
di sparecchiare le feste dei secoli, l’arte dell’abiezione
si interessa a ciò che il corpo trasuda quando è stanco,
ciò che ne fuoriesce quando è ferito o che semplicemente
rigetta quando il pasto è stato digerito. […] Un’arte
che mette in scena il suo stesso abbandono, un abbandono che va fino
al rilassamento degli sfinteri, fa forse altro se non fornire, così
facendo, il segnale della morte clinica?” (pp. 24-25) A quale
transito si intende dare permanenza? La devozione religiosa conosce
la conservazione dei capelli o delle ossa e anche di secrezioni nobili
quali il sangue o il latte, ma non sarebbe pensabile fare dell’escremento
una reliquia, se non nella prospettiva di un numinoso di cui si voglia
mettere in risalto solo il risvolto infernale e sinistro.
La Fountain di
Marcel Duchamp, con la sua pretesa simbolizzazione della donna, è
per l’autore l’icona di una degradazione simultanea del
sesso femminile e dell’opera d’arte, laddove il nichilismo
del laido spegne ogni aura in un getto d’urina. “Ma l’orinatoio
capovolge al tempo stesso il significato del museo. Se il museo, secondo
le tesi di Walter Benjamin, è l’istituzione che trasforma
il cultuale in culturale – l’oggetto di culto arcaico divenuto
opera d’arte –, presentare al contrario un orinatoio nelle
sale di un museo è usare la potenza profanatrice dell’istituzione
per fare di un oggetto d’uso comune e anzi di prima necessità
un’opera d’arte e del luogo un tempo consacrato alle muse
uno spazio prossimo ai bagni pubblici, al puteus o al lupanare,
in breve per farne quel luogo sordido che è diventato il museo
d’arte ‘moderna’” (p. 40).
Proprio mentre l’esperienza
quotidiana vede il trionfo dell’ideale igienista dei Lumi, proprio
mentre l’immagine dell’uomo e della donna nelle sublimazioni
della moda e dell’ideologia del look insiste su un corpo
sempre più lontano dall’animalità e sempre più
ascetico, rasato, depilato, profumato, scolpito da diete, digiuni e
ginnastiche massacranti, sembra che all’attività più
raffinata e spirituale, all’arte, si chieda di sollecitare le
funzioni più primitive dell’organismo, per esempio di solleticare
l’odorato – il più animale dei nostri sensi –
con il puzzo che provoca la nausea, reimmergendo l’individuo nel
bagno fecale dal quale è emerso in millenni di lenta e difficile
educazione delle pulsioni libidinali più basse. Si tratta forse
di una rieducazione alla barbarie?
La verve polemica di Clair
si indirizza in particolare alla condanna di alcune esperienze artistiche
del secondo dopoguerra, accusate non solo di favorire regressioni infantilistiche
all’anale, ma anche di mascherare con la creatività istinti
inconfessabili, se non esplicitamente criminali: quell’Otto Muehl
esponente del gruppo degli azionisti viennesi, per esempio, condannato
a sette anni di prigione per abuso di minori, stupro e aborto procurato,
lungi dall’essere un critico del preteso fascismo perbenista della
buona borghesia postbellica, è per Clair semplicemente il predicatore
di un’estetica brutale della violenza e del vandalismo, il fautore
di un’arte primitiva che esalta un uomo animalizzato e che sembra
voler fare l’esperienza del male cercando di nuovo un senso al
sacrificio umano. L’autoritratto di David Nebreda ricoperto dei
suoi stessi escrementi come in un girone infernale della Commedia
è per Clair una maschera d’infamia che suscita orrore,
col viso ridotto alla deiezione di una cloaca: non quel “Volto
Santo” dantesco che tornava in mente ad Auschwitz a Primo Levi,
ma quell’anus mundi che il campo doveva appunto
essere per i nazisti. “Nascondere il volto sotto una maschera
fecale è una mortificazione, un’inumazione, non questa
volta nella terra, come Giobbe sul letame, ma nella decomposizione organica
del suo stesso corpo, quando non c’è più niente
da dire, più niente da fare, più alcuna forma da formare.
Si fa quel che si può con quel che resta. E questo resto, nel
senso letterale e volgare dell’espressione, ‘è di
merda’” (p. 114). Andres Serrano che espone alla Biennale
di Venezia fotografie di cadaveri sfigurati è un Leonzio contemporaneo
(cfr. Platone, Resp. IV, 439e-440a) che non sa resistere al fascino
perverso della decomposizione. Anche in Joseph Beuys, sciamano istrionesco
che mescola produzioni organiche e secrezioni connettivali a simboli
sinistri, Clair mette in luce l’“estrema ambiguità
di un’arte d’avanguarda che, in nome del progressismo, gioca
in realtà […] con l’ombra dei campi della morte”
(p. 94). Il suo verdetto è senza esitazioni: “Muehl, Nebreda,
Serrano e gli altri sono in effetti, in modo assai preciso, coloro che
si chiamavano, nei campi, ‘i Maestri della merda’”
(123-124).
Certamente gli ammonimenti
di Jean Clair sono del tutto legittimi, è vero per esempio che
i supplizi rappresentati per secoli dall’arte sacra servivano
in realtà a proteggere dall’angoscia, o perlomeno a calmarla
e a sopportarla dandole un senso, mentre alcune trasgressioni contemporanee
non vanno oltre una pornografia aberrante dell’orrido. Fondate
risultano anche le sue analisi a proposito del fascino che i totalitarismi
del XX secolo sembrano esercitare sugli artisti che ora propongono,
secondo Clair, un’arte satanocratica dell’infraumano, prefigurata
con preoccupazione da Panofsky già nel 1940. A torto si è
riso delle ambizioni artistiche di uno Hitler e probabilmente la scelta
del bruno come colore distintivo del movimento nazista è meno
innocente di quanto non risulti a prima vista, unito per di più
all’ossessione per l’ordine, alla pedanteria e all’ostinazione
che la psicoanalisi ci addita come sintomi di regressione a componente
anale. C’è senza dubbio un legame tra certe pratiche aberranti
di disprezzo dell’umano e l’antiumanesimo che ispira qualche
artista contemporaneo. “Allo Stato totale che abbiamo conosciuto
nel secolo scorso succederebbe oggi l’individuo totale. E al culto
del sangue, che ha fondato la società totalitaria – con
i suoi valori singolari, versare il sangue, essere dello stesso sangue,
proteggere la purezza del sangue – succederebbe un culto dell’escrementizio
in cui si afferma la potenza dell’individuo totale. L’individuo
totale, l’artista fallito, lo scultore degli ultimi giorni, colui
che impone agli altri la sua merda, è l’infante dei primi
giorni” (p. 122).
Ma forse Clair è
ingeneroso nel rendere indirettamente corresponsabili della deriva che
stigmatizza anche artisti e intellettuali che a partire dagli anni Venti
hanno analizzato con lucidità fenomeni di disgregazione, come
Georges Bataille, Pierre Klossowski, Luis Buñuel, Antonin Artaud,
Jean-Paul Sartre o Maurice Blanchot (cfr. per es. pp. 55, 65-67). Se
i musei ancora non rischiano di diventare solo ricoveri di spazzatura
sadomasochista è perché la cultura contemporanea e la
sua arte – nonostante tutti gli eccessi certamente da ammonire,
e magari proprio nel suo non essere più un’arte soltanto
bella – denunciano che il decoro è spesso solo un lifting
che camuffa ben altri marciumi, come peraltro dimostra senza ombra di
dubbi l’attuale feticismo per il denaro, risvolto solo apparentemente
presentabile di quell’analità in retromarcia che è
in effetti un vicolo cieco della contemporaneità.
Indice:
Chapitre I
Chapitre
II
Chapitre
III
Chapitre
IV
Chapitre
V
Chapitre
VI
Chapitre
VII
Chapitre
VIII
Chapitre
IX
(Gabriella Baptist)