indice del numero 4

 

 

 

 

Roberto Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia,
Torino, Einaudi, 2004, pp. XVIII - 216, ISBN 8806171747, Euro 18,50

 

Il libro, dalla scrittura densa e dal serrato ritmo espositivo, rappresenta l’esito coerente – eppure non riduttivamente prevedibile – della riflessione filosofico-politica dell’autore sulla nostra contemporaneità, iniziata nel 1998 con la pubblicazione del volume Communitas. Origine e destino della comunità, e proseguita nel 2002 con il testo dedicato al paradigma dell’immunizzazione. Proprio tale paradigma, assurto – vedremo perché – a clavis decostruttiva della condizione postmoderna, viene impiegato, o meglio dispiegato da Esposito in tutta la sua potenza ermeneutica in quest’ultimo libro, che in sostanza intende riscrivere, approfondire e correggere in forma ‘immunitaria’ le geniali intuizioni di Foucault sulla comparazione tra le razze, sulla biopolitica e sulla complementare tanatopolitica nazista (cfr. il corso ‘Bisogna difendere la società’ tenuto dal pensatore francese al Collège de France nel 1976). Ma soprattutto in questo libro Esposito si propone di uscire, con gesto sovrano, dal paradigma concettuale da lui stesso creato nei due libri precedenti, che in qualche modo avevano rappresentato un unico, esaustivo excursus politico ruotante attorno alla coppia comunità/immunità.

Il tentativo è doppio: da un lato mostrare che, nella sua genealogia del politico, Foucault avrebbe oscillato tra una spiegazione continuistica ed una discontinuistica del fenomeno biopolitico senza spiegare perché, col nazismo, esso si sia rovesciato in tanatopolitica, e senza decidere se considerarlo una semplice conseguenza del moderno potere sovrano e disciplinare, oppure una mostruosa – e dunque episodica – novità nella storia occidentale; dall’altro lato, sopperendo filosoficamente alla ‘carenza’ teorica foucaultiana (e arendtiana) sul nesso politica-vita, Esposito ha cercato di non rimanere prigioniero, e dunque di rovesciare dialetticamente il proprio paradigma immunitario, secondo cui un’eccessiva protezione della vita si trasforma inevitabilmente nella sua auto-distruzione. Sottoponendo ad una meticolosa decostruzione immunitaria il pensiero di coloro che si sono avvicinati al gorgo totalitario della biopolitica o che, come nel caso di Nietzsche, ne hanno teorizzato in anticipo il carattere polemico, inegualitario ed esclusivo, Esposito ha cercato di forzare la stessa struttura destinale del paradigma di immunizzazione, per trasformarlo in una via d’uscita dalla tanatopolitica contemporanea.


Al fine di immergere il lettore in un clima di radicale attualizzazione – nel senso foucaultiano del termine – della coppia concettuale biopolitica-tanatopolitica, egli parte dall’inquietante intreccio di vita e morte rintracciabile in cinque eventi o situazioni emblematiche degli ultimi anni, nei quali appare sempre più evidente il non-valore fattuale (il valore = 0) dell’esistenza biologica di alcuni individui rispetto ad altri: una paradossale sentenza francese che riconosce ad un bambino gravemente malformato il diritto per così dire ‘preventivo’ di non nascere, ponendo così il problema di un individuo che possa reclamare il suo diritto ad essere una vita presunta ‘sana’, a costo di non averla, cioè di non diventare mai soggetto giuridico; la cosiddetta ‘guerra umanitaria’ portata dagli USA in Afghanistan (e oggi in Iraq) dopo l’11 settembre 2001, che impone ad una popolazione, nello stesso tempo, il diritto a ricevere viveri e medicinali e l’esperienza mortifera dei bombardamenti; il blitz delle forze speciali russe al teatro Dubrovska di Mosca, con il calcolato effetto collaterale della morte di più di cento persone colà tenute in ostaggio dai ceceni; il contagio da Hiv, e la morte sicura, di milioni di cinesi abitanti in zone rurali poverissime, a seguito di massicce vendite di sangue promosse dal governo centrale; lo stupro collettivo compiuto dieci anni fa nel Ruanda, che ha visto nascere migliaia di bambini frutto di violenze di uomini Hutu su donne Tutsi, le quali oggi imbarazzano la logica della pulizia etnica, semplicemente amando i loro figli.

Ebbene, nonostante la loro dirompente ed empirica attualità, questi eventi non verranno ulteriormente approfonditi o ripresi nel corso del testo, ma faranno per così dire da sfondo di un discorso che resta rigorosamente speculativo: in uno spaventoso, ma ormai sempre più normalizzato quadro di violazione globale dei diritti umani, Esposito rivendica il compito specificamente filosofico di ripensare la biopolitica per tracciare una possibile “inversione” (p.XVI) delle sue categorie votate alla manipolazione, programmazione e distruzione delle esistenze e delle identità – un’inversione, dunque, dell’intero paradigma di immunizzazione, che l’autore definisce “politica della vita” (ibidem), per contrapporla alla politica sulla vita che i poteri dell’Occidente hanno esercitato sui corpi degli individui, delle popolazioni considerate infette o inferiori ed infine, come dimostrano gli ordini suicidi di Hitler dal bunker della Cancelleria (Berlino, aprile 1945), sullo stesso popolo/corpo da immunizzare.


Sulla scorta di un’accurata ricognizione dei testi che hanno preparato la biopolitica nazista realizzando, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, un formidabile processo di biologizzazione della politica e di corrispondente direzione politica (razzista) della biologia, Esposito ha costruito un percorso teorico in cinque tappe. La prima è dedicata all’analisi della posizione di Foucault. Costui, pur avvalendosi di una prospettiva nietzscheano-genealogica capace di cogliere tanto il carattere intrinsecamente polemico e guerresco dei moderni rapporti di potere (“è come se il potere, per rafforzarsi, dovesse continuamente dividersi e lottare contro se stesso”, p.32), quanto l’“incrocio” e la “tensione” irriducidbile tra vita e storia che essi manifestano (p.24), sarebbe poi rimasto bloccato davanti all’enigmatica ambivalenza della biopolitica, la quale “o produce soggettività o produce morte” (p.25). In effetti, se si rispetta l’impostazione nietzscheana con cui Foucualt ha delinato il passaggio dalla sovranità alla biopolitica, nel quadro sfumato, indecidibile e dunque profondamente storico, di continuità-discontinuità tipico delle sue decostruzioni genealogiche, non si tratta, come vuole Esposito, di una divaricazione, di un aut aut, tra soggettivazione e morte, ma di un et et : proprio perché programma, manipola e costruisce la soggettività dei singoli e di intere popolazioni, perché non si limita più al disciplinamento della vita ma agisce direttamente sulla sua struttura per conseguire il suo potenziamento, la biopolitica lavora secondo il principio della volontà di potenza, adoperando la categoria polemica dell’esclusione; affinchè si producano delle ‘forti’ soggettività individuali e collettive, è necessario che quelle deboli vengano eliminate, e che, negli stessi organismi da rafforzare, si sopporti lo scatenamento della malattia, con il conseguente rischio della morte. Con ciò risulta tragicamente confermato il carattere prospettico, e non naturale (cioè biologico), della forza che la biopolitica moderna produce soggettivando individui e popolazioni: in sé, l’esistenza in vita dell’individuo non ha nessun valore, è un valore = 0 (né gli si può più ascrivere il valore premoderno dell’anima), e pertanto può anche essere condotto al macello insieme ad altre individualità. Di conseguenza, la forza è un segno mobile (un + o un –), una relazione asimmetrica di potere, che la bio-tanatopolitica assegna ai corpi a valore 0; da questo punto di vista, la tanatopolitica non è un enigma, ma il rovescio strutturale e prospettico di quella potenza sovrana che la biopolitica moderna ha ormai radicato nei soggetti dopo averli costituiti, disciplinati e governati dall’esterno.

A questa storicizzazione foucaultiana del potere moderno, costruita in bilico sullo snodo tra sovranità e biopolitica, Esposito aggiunge, nella seconda tappa, un’applicazione a ritroso del paradigma dell’immunizzazione: dopo un significativo preambolo socio-antropologico (cfr. pp. 41-49), egli estende la logica immunitaria ai secoli e ai pensatori che hanno elaborato le categorie per così dire ‘classiche’ della sovranità moderna, distinguendone peraltro le peculiarità biopolitiche dalla classicità vera e propria (cfr. p.50-51). Le idee di sovranità, proprietà e libertà, ossia i pilastri del pensiero politico moderno (sia nella veste assolutistica di Hobbes, che in quella liberale di Locke), appaiono così originariamente invischiate nel meccanismo immunitario: esse costruiscono la soggettività politica, da una parte affermando di tutelare diritti naturali o contrattuali di cui sarebbero la razionale conseguenza, ma, dall’altra, negandoli in nome della loro stessa difesa; se, infatti, sulla base di un malinteso istinto di autoconservazione, il diritto primario è quello alla vita, e se la vita è sempre vita individuale, vita di un corpo, “le categorie politiche della modernità ‘funzionano’ – vale a dire assolvono la funzione autoconservativa della vita cui sono ordinate – includendo il proprio contrario […] Cosicchè, ad un certo punto, anche la cultura dell’individuo incorpora ciò cui in linea di principio si oppone, vale a dire il primato del tutto sulle parti” (p.76), le quali, a quel punto, non hanno più nessun valore da opporre al corpo politico che doveva proteggerle.

Ora, è stato Nietzsche a svelare il carattere crudele di questo paradosso, per cui gli individui, destituiti a debole gregge dall’apparato disciplinare moderno (dalla ‘governamentalità’ foucaultiana figlia del potere pastorale), alimentano infine la propria distruzione biopolitica proprio quando credono di aver affermato la propria dignità e la propria forza (che, nel linguaggio nietzscheano, si travestono da ‘socialismo’). Ed è stato sempre Nietzsche a comprendere che tale forza, cioè la verità del potere, non è un prius ontologico, ma il risultato posizionale – oltre che menzognero – di un gioco polemico e prospettico che non può mai separarsi dal rischio di morte – ciò che il dominio, per esser tale, deve avere il coraggio di sopportare e di infliggere. Per questo motivo il capitolo centrale, la terza tappa del percorso di Esposito, è dedicato ad illustrare il modo in cui anche il pensiero di Nietzsche risulta per così dire attraversato, e dunque messo in discussione, dal paradigma immunitario (pp.79-114, in part. p.99: “Negando la negazione immunitaria, egli resta inevitabilmente catturato dal suo lessico negativo”). Si tratta di un passaggio teorico obbligato, perché solo dimostrando che la volontà di potenza è radicata nella biopolitica, è possibile dialettizzarne la sostanza ambigua, e utilizzare la ‘parte’ affermativa, dionisiaca ed espansiva di questo concetto nietzscheano per volgerla contro la sua ‘parte’ violenta, aristocratica e pericolosamente razzista, quella parte che disprezza la debole immunizzazione del gregge ed esalta l’eccellenza di pochi, al prezzo della distruzione di molti.

Nonostante Esposito prenda le distanze da precedenti interpretazioni da sinistra della volontà di potenza, e ribadisca con energia il carattere profondamente storico e plasmabile dell’uomo rilevato dalla stessa genealogia nietzscheana, quest’operazione non può che iscriversi a sinistra di Nietzsche (come dimostrerà l’ultimo capitolo del libro) e destoricizzarne la genealogia, ossia ipotizzare una sospensione, per non dire un superamento, della fluidità polemica delle forze (cfr. pp.86-87) che essa ha attribuito non solo alla modernità, ma alle relazioni di potere in quanto tali – anche all’interno dello stesso soggetto. Proprio perché plasmabile e costruibile in forme che non sono naturali, ma storiche, e che dunque in sé non hanno valore, ma lo ottengono perché radicalmente esposte alla dissimmetira del potere, la potenza di cui parla Nietzsche, anche quando non scivola (come pure è accaduto per concatenazioni ideologiche, e non biologiche) nel delirio nazista, non può separarsi dalla necessità aristocratica dell’esclusione e dal rischio della distruzione, per non dire della perdita della forma; la stessa follia di Nietzsche, da un punto di vista non ottusamente biologico, ma, appunto, genealogico, è il risultato di questo paradosso della forza del pensiero, che, nella sua piega (in termini deleuzeani), si rovescia in debolezza, e che, nella singolarizzazione estrema della superiorità, decade e si umilia nell’inferiorità malata del nichilismo.

Secondo Esposito, Nietzsche esce dall’ossessione del paradigma immunitario proprio quando accoglie la malattia e la debolezza nella forza della ‘grande salute’ e dunque della ‘grande politica’ della vita, in cui venga incluso persino l’animale, ed abbandonato il tipo razziale dell’uomo ‘puro’, il gregge prigioniero della forma biologica della ‘specie’. Ma, ancora una volta, ciò è possibile solo a patto di sopportare la struttura esclusiva e aristocratica della soggettivazione: stando a Nietzsche, solo alcuni possono (o meglio, potranno forse) sopportare e sfidare la propria inversione (la “degenerazione”) della salute in malattia: “il saggio e l’animale si avvicineranno e produrrano un tipo nuovo” (dai Frammenti postumi, cit. da Esposito a p.114). Il problema centrale del libro si pone, a mio avviso, a questo livello: se nella quarta tappa del suo percorso (pp. 115-157), Esposito ha buon gioco nel ritrarre con efficace lucidità la morsa bio-tanatopolitica del nazismo che si è chiusa non solo, grazie alla comparazione razziale, su ebrei zingari e slavi, ma, più a monte, su omosessuali, pazzi e malriusciti di ogni tipo, e più a valle sull’intero popolo tedesco; se qui egli passa acutamente dai presupposti letterari (ad esempio dalle scissioni narrative di Stevenson e Wilde) dell’eugenetica novecentesca alla fredda distinzione nazista tra esistenza (a valore 0) e vita; ebbene, è solo dopo aver compiuto questo viaggio al termine della notte, ossia dopo aver attraversato la sovranità demoniaca di Hitler, che l’autore, nell’ultimo capitolo del libro, si pone (e ci pone) in modo esplicito la questione radicale, e inquietante, che lo pervade fin dall’inizio: “la fine del nazismo non ha significato in nessun modo la fine della biopolitica” (p.159). Ciò significa che la struttura crudelmente esclusiva e dissimmetrica (dunque mortifera) della biopolitica oggi appare semplicemente spostata su altri piani e in altri ambiti di potere, ma non affondata, scomparsa o superata. Che tali piani ed ambiti non siano affatto quelli vagheggiati aristocraticamente da Nietzsche (quelli della Nobilitazione attraverso la degenerazione, come titolava un paragrafo di Umano troppo umano), ma che anzi riproducano in una sfera spaventosamente capillare (globale e soffocante) il trionfo del paradigma immunitario teorizzato dallo stesso Esposito, costituisce una complicazione per così dire vitale e politica al tempo stesso, che egli ha tentato di affrontare sollevandone i termini nella superiore zona franca del pensiero filosofico (di qui, io credo, il titolo del volume). Rispetto all’attuale schiacciamento della politica su una volgare biologia, alla loro banale indifferenza, alla “assoluta indistinzione degli opposti: pace e guerra, attacco e difesa, vita e morte” (p. 161), Esposito ha interrogato la filosofia: non più, ovviamente, quella di Nietzsche, né fino in fondo quella di Foucault (che, manifestando con ciò una forte debolezza, aveva rinunciato alla teoria per immergere il pensiero nella fanghiglia dell’impensato, per andar ‘fuori’ dei recinti della ragione), ma quella dentro cui era possibile, pur con qualche azzardo, operare una sorta di metamorfosi inclusiva, e dunque etica, comunitaria, della biopolitica.

Per fare ciò, Esposito ha dovuto prendere le distanze proprio da quel pensiero che aveva con maggior forza insistito sulla necessità di collegare positivamente politica e vita, ossia dalla filosofia di Hannah Arendt. Una filosofia ritenuta – giustamente – ancora prigioniera di una concezione “irriflessa” della polis greca come modello o mito (cfr. p.162-163), e dunque non sufficientemente radicale nel cogliere l’irreversibile processo di spoliticizzazione e di biologizzazione dell’umano inaugurato dal totalitarismo e dalla tecnica, ma proseguito anche dopo di esso; un processo che, secondo Heidegger, rende superflua proprio la forma moderna ed umanistica (cioè formalmente etico-valoriale) assunta della filosofia e ne decreta impietosamente la ‘fine’. Trovandosi così vicino – troppo vicino – al fuoco mortale della combustione fascista, Heidegger aveva capito che, se condotto fino in fondo, il crudele gioco della biopolitica non lascia spazio al pensiero filosofico. Per tale motivo, secondo Esposito (che si trova oggi vicino alla combustione scatenata dall’11 settembre, e pertanto nella stessa scomoda posizione di Heidegger rispetto alla ‘fine della filosofia’), costui aveva cercato di resistere alla biopolitica nazista rovesciandone la distinzione immunitaria tra esistenza e vita, e portando il senso del Dasein nel cuore della prima, anzichè lasciarlo nel corpo suicida della seconda (cfr. pp.165-171). Fieramente sprezzante nei confronti del biologismo, Heidegger non ha pouto tuttavia sottrarsi alla sfumatura conservatrice del suo pensiero, alla chiusura della filosofia (e della vita) nello spazio dell’Essere, ed è per questa ragione che Esposito ne abbandona il territorio speculativo, per portarsi più decisamente a contatto con testi capaci di decostruire la forma stessa della biopolitica ed i suoi dispositivi di chiusura gerarchica: testi per così dire bio-filosofici (da Merleau-Ponty a Simondon), nei quali il corpo diventa carne, la nazione (con i suoi apporti fraterni e cruenti) nascita, e la legge, norma.

Si tratta di figure concettuali che vengono sviluppate partendo da metafore di apertura inclusiva, e che dunque dovrebbero finalmente portare la biopolitica fuori del dominio claustrale del corpo e dell’esclusione: la figura della carne rinvierebbe, secondo Esposito, alla pluralità aperta del vivente (esemplificata dalla pittura da mattatoio di Bacon), quella della nascita all’estroflessione dell’interno, cioè ad una doppiezza capace di sfuggire alla purezza monolitica dell’origine; infine, la figura della “norma di vita” rinvierebbe all’eguaglianza strutturale e processuale delle diverse esistenze plurali. Siamo di fronte ad un completo rovesciamento del paradigma immunitario, della metafora di cui pure l’autore aveva fatto il grimaldello del libro, in una pletora di contro-metafore che hanno il compito di far deflagrare dall’interno e portare la struttura biopolitica in cui siamo attualmente ingabbiati oltre la tanatopolitica: come i dipinti di Francis Bacon, esse debbono farci giudicare la morte “dal punto di vista della vita” (Deleuze).

A questo punto, però, il rarefatto linguaggio della filosofia si è completamente sostituito a quello ‘impuro’ della genealogia: non è più il ‘saggio’ congiunto all’animale, di cui aveva parlato Nietzsche, a fornire l’immagine di una vita forte che, accogliendo in sé la debolezza della malattia, sopporti il lato oscuro della volontà di potenza, ma la pluralità debolmente comunitaria della carne: la “moltitudine” spinoziana che Roberto Esposito (non diversamente da Toni Negri, col quale ha avviato ormai da alcuni anni un dialogo critico a distanza sulle pagine di Micromega) evoca sul proprio palcoscenico speculativo per delineare il rovescio etico, l’inappariscente, ma risolutiva metamorfosi della biopolitica in “politica della vita”. Come per magia, il conflitto asimmetrico che si produce nei molteplici rapporti di potere viene trasformato in relazione reciproca tra diverse potenze (cfr. p. 206), esorcizzando così l’unico dispositivo che né la carne, né la nascita né la norma sono in grado di neutralizzare, ma che anzi esse alimentano con il loro stesso proliferare, e cioè la comparazione polemica ed esclusiva tra i viventi. Proprio perché ogni vita si confgura come “qualcosa di unico e di irripetibile” (p. 208), essa arrischia la salute, e spesso la perde, nel confronto-scontro con la chiusura del corpo biologico, politico e normativo di altre vite. A soccombere, al di sotto del linguaggio filosofico che si limita ad enunciare, cioè a metaforizzare la singolarità, è sempre la carne di un singolo, il senso della sua nascita e l’impotente immanenza della sua norma, dimodochè si realizza, nella molteplicità della moltitudine, esattamente il contrario di ciò che scriveva Deleuze: “Una vita è immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: essa è potenza e beatitudine complete” (cit. da Espsoito a p. 211).

Se si considera la compiaciuta fissazione estetico-biologica sul corpo manifestata dalla minoranza privilegiata dell’Occidente a confronto con la moltitudine dei derelitti, non è il “richiamo all’impersonale” (p. 214), ovvero alla carne chiusa dentro il vecchio soggetto-persona, a poter bloccare il meccanismo biopolitico dell’esclusione: il fatto che, oggi più che mai, “un unico processo attraversi senza soluzione di continuità l’intera estensione del vivente” (ibidem), cioè l’intero pianeta, non significa che si possa smettere di distruggere una parte a favore dell’altra, ma che si produce anzi intensivamente il contrario: il mondo (soprav)vive morendo, grazie alla distruzione dei suoi pezzi di carne viva.


(Eleonora de Conciliis)

 


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