Jacques
Derrida, pensatore dell’evento.
Conversazione
a cura di Jérôme-Alexandre Nielsberg
Articolo
apparso sul quotidiano
L’Humanité il 28 gennaio del 2004 .
Ricca
di quasi ottanta volumi, l’opera che Jacques Derrida sviluppa
da quasi quarant’anni è oggi riconosciuta, nel mondo intero,
come una delle componenti essenziali della nostra modernità filosofica.
La “decostruzione”, secondo lo stesso nome che il pensatore
ha dato al suo lavoro, fuoriesce dagli stretti limiti dello studio accademico:
i suoi libri vertono tanto sul testo di Platone, quanto su quello del
diritto internazionale. Ma un’unica parola d’ordine: essere
aperti a ciò che viene, all’a-venire, all’altro.
Da
una quindicina d’anni, i suoi libri danno luogo ad una ricezione
che si pone essa stessa sul terreno politico, proponendosi, secondo
le loro linee direttrici, come opere che aprono ora ad una politica
dell’amicizia, ora ad una politica della memoria, o ancora ad
una politica dell’ospitalità. Come intende lei il termine
politica?
[Jacques
Derrida] Devo necessariamente rispondere in modo schematico e telegrafico.
Se, da lungo tempo, i miei testi sono stati considerati come politicamente
neutri – nonostante il fatto che il mio parteggiare per la sinistra
fosse conosciuto – è perché, attento da sempre alla
politica, io non mi riconoscevo affatto, non riconoscevo affatto ciò
che volevo pensare, all’interno dei codici politici dominanti.
Ciò spiega il fatto che io, per lungo tempo, non abbia mai detto
una parola contro Marx, ma neanche una a suo favore, pur restando molto
attento a ciò che accadeva su quel fronte. Lavoravo, piuttosto,
a rendere possibile una parola politica che tenesse conto del lavoro
di decostruzione che avevo cominciato. Attendevo di poter articolare
il mio lavoro di decostruzione ad un concetto rinnovato di politica.
Questo non mi è parso possibile che nel momento in cui i regimi
pretesi comunisti sono crollati e si è affermato che Marx era
morto. Ho pensato che fosse ingiusto e politicamente nefasto, pericoloso.
Spettri di Marx è un libro complesso, stratificato e deliberatamente
contraddittorio, non solamente “per” Marx, ma, a suo modo,
anche per Marx. Da allora in poi, io mi sono applicato, in ogni sorta
di libro, di discorso, d’insegnamento, a riflettere su ciò
che potrebbe essere una Nuova Internazionale, tenendo conto della mondializzazione,
dei nuovi problemi di sovranità e di tutto ciò che, nell’ambito
della politica, è in procinto di rompere il cuore della politica:
lo Stato-nazione territorializzato, legato in modo essenziale ad un
radicamento nazionale. Si tratta di ripensare non tanto la politica,
ma il politico stesso e il diritto internazionale, e i rapporti di forza.
Si tratta di analizzare e comprendere l’egemonia americana, la
debolezza critica e paradossale anche degli USA, i nuovi luoghi e le
nuove maniere d’organizzazione dei movimenti politici, l’eterogeneità
in movimento delle forze altro-mondialiste (altermondialistes)
che decideranno, ne sono convinto, l’avvenire del “mondo”.
Alla
lettura, un altro spettro sembra abitare i suoi testi e alcuni concetti
che lei sviluppa come la giustizia, il perdono, l’ospitalità:
quello dell’etica.
[J.
D.] In un certo senso le questioni etiche sono sempre state presenti,
ma se s’intende per etica un sistema di regole, di norme morali,
allora no, io non propongo affatto un’etica. Ciò che mi
interessa sono in effetti le aporie dell’etica, i suoi limiti,
segnatamente intorno alla questione del dono, del perdono, del segreto,
della testimonianza, dell’ospitalità, del vivente –
animale o non. Tutto questo implica un pensiero della decisione. La
decisione responsabile deve sostenere (endurer) e non solo attraversare
o oltrepassare un’esperienza dell’indecidibile. Se io so
ciò che devo fare, io non prendo affatto una decisione, io applico
un sapere, sviluppo un programma. Perché ci sia decisione bisogna
che io non sappia che cosa fare. Ciò non significa affatto che
si debba rinunciare a sapere: bisogna informarsi, sapere il più
possibile. Resta che il momento della decisione, il momento etico, se
lei vuole, è indipendente dal sapere. È nel momento dell’io
non so affatto quale sia la buona regola che la questione etica
si pone. Dunque, ciò che mi interessa è questo momento
an-etico dell’etica, quel momento in cui io non so affatto che
cosa fare, in cui non ho affatto norme disponibili, ma in cui c’è
bisogno che io agisca, che assuma le mie responsabilità, che
prenda partito. D’urgenza, senza attendere. Ciò che faccio
è allora sia an-etico che etico. Io interrogo l’impossibilità
come possibilità dell’etica: l’ospitalità
incondizionata è impossibile, nel campo del diritto o della politica,
dell’etica stessa in senso stretto. Tuttavia è questo che
bisogna fare, l’im-possibile; se il perdono è impossibile,
si deve perdonare l’imperdonabile, cioè fare l’impossibile.
Fare l’impossibile non può affatto essere un’etica
e, ciò nonostante, è la condizione dell’etica. Io
cerco di pensare la possibilità dell’impossibilità.
“La
possibilità dell’impossibilità”, lei dice.
È un po’ come ciò che lei definisce decostruzione.
Ora, non si può affatto non pensare, al giorno d’oggi,
leggendo ciò, agli attacchi terroristici che hanno sofferto gli
Stati Uniti, nel settembre 2001. In un libro che sta per uscire, il
Concetto dell’11 settembre, lei scrive che ciò che
è successo minaccia allo stesso tempo “il sistema d’interpretazione,
l’assiomatica, la logica, la retorica, i concetti e le valutazioni
che si ritiene permettano di comprendere e di esplicare, per l’appunto,
qualcosa come ‘l’11 settembre’”. Vorrei rivolgerle,
a tal proposito, una domanda che lei stesso pone: “è possibile
rompere i timpani di un filosofo e continuare a farsi intendere da lui?”
[J.
D.] Vorrei che si potessero rompere (crever) i timpani dei filosofi,
senza che la filosofia, tuttavia, si dissolva (crève).
Ciò che m’importa deve essere inteso a partire da una posizione
filosofica. Ma lasciamo perdere. Per tornare alla questione concreta
che lei pone, penso che in effetti i concetti che sono stati manipolati,
strumentati per interpretare l’11 settembre, sono dei concetti
ormai sottomessi ad una decostruzione radicale. Non ad una decostruzione
teorica ma ad una decostruzione pratica. Essa è in corso, essa
è, come spesso dico “ciò che arriva”: il pretesto
della guerra contro il terrorismo non tiene più, perché
gli stessi concetti di guerra e di terrorismo non tengono più.
Il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, lo ha sottolineato
durante una seduta: noi non abbiamo affatto una definizione rigorosa
di terrorismo internazionale. E il concetto di guerra implica, all’interno
del vecchio diritto europeo, la figura statale del nemico e la dichiarazione
di guerra tra Stato e Stato. Non è questo il caso. Né
guerra internazionale né guerra civile. Lo stesso concetto di
“guerra partigiana”, proposta da Carl Schmitt, non è
pertinente. I “terroristi” del tipo di Al Quaeda non rappresentano
né uno Stato (attuale o virtuale), né la volontà
di fondare o di restaurare uno Stato. In ciò che è accaduto
l’11 settembre non c’è niente di tutto questo. Tutto
l’apparato concettuale che noi utilizziamo d’abitudine non
funziona più: né guerra né terrorismo, si è
detto. Ma neanche le opposizioni concettuali come nazionale/internazionale,
civile/militare funzionano meglio. Bisogna forgiare di nuovo tutto questo.
Tutto ciò, non mi faccio illusioni, sarà lungo, graduale,
con ampie ineguaglianze di sviluppo, come si diceva un tempo nella retorica
marxista. La fine dello Stato, l’estinzione del desiderio di sovranità
non sono affatto per domani, ma è quello che travaglia (travail)
il nostro mondo. Ciò che è imprevedibile, come sempre,
è il tempo, o piuttosto il ritmo di queste mutazioni ineluttabili.
Gli
Stati Uniti sono un porto che l’ha spesso accolta. Vi sono delle
ragioni specifiche a ciò?
[J.D.]
Ho viaggiato molto, troppo forse, non solo negli Stati Uniti. Vorrei
essere svincolato da tale immagine “americana”. Non corrisponde
affatto alla realtà. Solo ai desideri e agli interessi di qualcuno.
Bisognerebbe parlare ugualmente di tutti i continenti e di tutti i paesi
d’Europa. Il primo anno che trascorsi negli Stati Uniti, nel 1955-56,
dipende da una contingenza: una borsa di studio grazie al direttore
dell’Ècole normale per andare ad Harvard. Poi sono
ritornato negli Stati Uniti dieci anni più tardi, invitato ad
un convegno da René Girard. La conferenza che pronunciai in quell’occasione,
una critica d’un certo strutturalismo, fece l’effetto di
una bomba laggiù. Si è visto, a torto o a ragione, il
primo segnale di quel che gli Americani da allora chiamano il post-strutturalismo.
Sono stato reinvitato, tre volte di seguito, a tre anni d’intervallo.
Infine, le università di Yale, poi d’Irvine, in California,
e di New York, mi hanno chiesto dei seminari di qualche settimana, una
volta l’anno. Non ho mai fatto dei lunghi soggiorni negli Stati
Uniti, la maggior parte del mio tempo non l’ho affatto passata
laggiù. Ciò detto, è vero, la ricezione del mio
lavoro è stata effettivamente, come altrove, più generosa,
più attenta, ho incontrato meno censura, meno sbarramenti, meno
conflitti che in Francia. Nello stesso modo, se la decostruzione è
stata oggetto di battaglie campali e rabbiose negli Stati Uniti, il
dibattito è stato più aperto che in Francia, mi lasciava
maggiori margini. Infine, grazie, o a causa della storia delle università
americane, spesso vi si lavora molto, bene e velocemente. In ogni caso
in ambienti che mi sono tra i più familiari.
Un
altro paese ha marcato la sua esistenza: l’Algeria. Lei vi è
nato e cresciuto. Dopo la sua partenza dalla città d’Algeri,
nel 1949, questo paese ha attraversato molteplici crisi sociali
e politiche. Qual è il suo rapporto, oggi, con questa prima terra?
[J.
D.] Una precisazione prima di tutto, poi un aneddoto. La precisazione:
fino a 19 anni non ho mai lasciato il mio villaggio alla periferia di
Algeri, El Biar, non conoscevo affatto la “metropoli”. L’aneddoto:
nel 1996, il Parlamento degli scrittori, di cui io sono co-fondatore
e vice-presidente, dedicò, a Strasburgo, una delle sue sedute
all’Algeria. Gli oratori, prima del dibattito, erano riuniti in
un salone. Al mio fianco, una giovane algerina, che mi chiede: “Lei
ha proprio abitato in Algeri, a rue d’Aurelles-de-Palladine?”
– Sì. “Al n° 13?” – Sì –
“Anch’io”. Si presenta e scopro che era la figlia
degli algerini a cui i miei genitori avevano lasciato il loro appartamento
allorquando erano partiti dall’Algeria. Dopo anch’ella aveva
dovuto lasciare l’Algeria a causa della sua doppia condizione
di donna e d’intellettuale. Questa giovane algerina era stata
allevata nella casa che mi aveva visto crescere, ella era venuta a questa
seduta del Parlamento degli scrittori testimone del dramma algerino,
dell’assassinio degli intellettuali, del fanatismo islamista che
devastava il paese. Io vivo oggi in questa dolorosa contraddizione:
algerino nel cuore – con la sofferenza e la nostalgia che ciò
suppone (la chiamo la mia nostalgeria) –, vivo in un paese,
la Francia, che è anche il mio, osservando, da qui, la dolorosa
storia dell’Algeria indipendente.
Appena
a Parigi, durante i corsi di preparazione all’università
al Luois-le-Grand, le sue prime ammirazioni andavano a Sartre e Bergson.
Nondimeno, il suo percorso l’ha certo allontanato da questi due
filosofi. In quali termini parlerebbe oggi di loro?
[J.
D.] È vero che Bergson è stato, per me, un abbagliamento
(éblouissement) e, come per tutta la mia generazione,
Sartre era una grande figura di filosofo e di scrittore impegnato. Lei
mi chiede come io consideri retrospettivamente tali ammirazioni. Non
le rinnego affatto. Oggi, se avessi il tempo e la libertà, mi
piacerebbe rileggere questi due pensatori e insegnarli. Ma, pur rendendo
loro omaggio – io cerco, proprio all’interno delle mie analisi
decostruttrici, di marcare il mio amore dei testi – io non lo
farei senza iscriverli di nuovo nella loro originalità e nei
loro limiti, che sono quelli della tradizione filosofica e istituzionale
francese. Ci sono, in Bergson e in Sartre, un modo di fare, di riflettere
e di scrivere che non si ritrovano né in tedesco né in
inglese, e che sono totalmente estranei all’estero (étrangères
à l’étranger).
Ci
sono stati poi, tra i suoi amici, dei filosofi e degli scrittori importanti:
Althusser, Lévinas, Blanchot, così come Gilles Deleuze,
Jean-François Lyotard. Ora, l’amicizia necessita del dialogo.
La sua opera può essere letta come un dialogo con questi amici?
[J.
D.] Sì. Ma che ci sia dialogo – una parola che io non coltivo
troppo – non significa affatto che i libri siano, uno ad uno,
delle risposte o delle domande a tali pensatori. C’è indirizzo,
in effetti, più che dialogo. Alcuni dei miei testi sono stati
indirizzati (adressés), in modo particolare a questi amici,
ma senza che divenissero illeggibili per gli altri. Come i miei libri
su Blanchot o su Lévinas. Come lo stesso Spettri di Marx,
che non posso affatto spiegare senza mettere in chiaro, senza riesumare
tutta la storia dei miei rapporti con Althusser, vale a dire non solamente
con Althusser, ma con coloro che l’hanno potuto circondare mentre
noi insegnavamo a l’École Normale Supérieure nella
fase althusseriana d’un’epoca, con ciò che si faceva
allora con lui, intorno a lui: Leggere il Capitale, Per Marx,
lavori coi quali non sono stato mai d’accordo, senza essere loro
ostile. Lo stesso per Deleuze. Mi sentivo molto vicino alle tesi di
Deleuze, ma non le avrei mai scritte come lui: procedevamo e scrivevamo
in modo totalmente differente. Sono stato, ad esempio, molto impressionato
dal suo saggio su Nietzsche, ma non potevo affatto seguire l’Anti-Edipo.
Non ero affatto d’accordo con ciò che diceva di Artaud,
nonostante condividessi il suo interesse per Artaud. Del resto, gliel’ho
detto, i nostri rapporti personali sono stati sempre molto amichevoli,
come con Lyotard. C’è stato lo stesso tipo di prossimità.
Tutto ciò è molto complesso, ci sarebbe bisogno di molti
numeri de l’Humanité per spiegarmi.
Uno
dei suoi aforismi è divenuto celebre: “Non c’è
fuori testo”. Se tutto è testo, il metodo della decostruzione
concerne ogni cosa. Con ciò non si torna indietro rispetto a
quella diversità dei sistemi di comprensione del mondo che l’evoluzione
delle scienze pone in evidenza?
[J.
D.] Ho cominciato, quasi quaranta anni fa, con una riflessione sulla
scrittura e sul testo. Ciò che m’importava all’inizio,
benché io fossi divenuto per professione un “filosofo”,
era la scrittura letteraria. Chi è che scrive, mi domandavo?
Che cosa accade quando si scrive? Per rispondere, ho dovuto allargare
il concetto di testo e tentare di giustificare questa estensione. “Non
c’è fuori testo” non vuol dire che tutto è
carta (papier), saturo di scrittura, ma che tutta l’esperienza
è strutturata come una rete di tracce che rimandano ad altra
cosa che a se stesse. Detto diversamente, non c’è presente
che non si costituisca attraverso un rinvio a un altro tempo, un altro
presente. Il presente-traccia. Esso è tracciante e tracciato
(Il est traçant et tracé). Ho allargato la nozione
di traccia fino ad includere la voce stessa, con l’idea di riconsiderare
la subordinazione in filosofia, dall’antichità greca, della
scrittura alla parola (logocentrismo) e al presente vivente della voce
(fonocentrismo). Ciò detto, e nonostante la necessità
della critica, la decostruzione non è per nulla una critica.
Essa non è un giudizio di valore né un processo di svalorizzazione.
Ancora di più essa non è, per riprendere un suo termine,
un metodo. L’idea di metodo suppone un insieme di procedure regolate,
preliminari all’esperienza della lettura, dell’interpretazione
e dell’insegnamento, e anche una certa competenza. Se alcuni riscontrano
una certa ricorrenza – è questa che la parola “metodo”
sottolinea, non è vero? – di motivi decostruttivi, la decostruzione
non è affatto un metodo. Né “critica” né
“metodo”, passando anche per una storia o una genealogia
delle idee di “critica” o di “metodo”, la decostruzione
dà luogo a delle interpretazioni, a delle letture, a delle scritture,
ad una trasformazione del testo che sono altrettanto degli eventi. È
l’arrivo di nuove cose, sorprendenti per colui stesso che ne fa
esperienza. Non c’è alcuna competenza della decostruzione,
(aggiungerei qui per chiarire “che è”) semplicemente
incontro “di un’altra cosa”, di qualcosa d’altro
che vi detta ogni volta la legge singolare d’una lettura, che
vi intima l’ordine di rendervi responsabile, di rispondere della
vostra lettura. Per altro, se non c’è niente che sfugge
al testo, il testo non si totalizza affatto. A causa della struttura
stessa delle tracce di cui si compone, e che aprono ad altra cosa che
a se stesse, la totalità non può chiudersi. Ciò
esclude la totalizzazione, la chiusura, la completezza del testo, e
nello stesso tempo il valore di sistema. La decostruzione non è
affatto un sistema, non più che essa non sia una filosofia: essa
interroga il principio filosofico. È un’avventura singolare
il cui gesto dipende ogni volta dalla situazione, dal contesto, segnatamente
politico, dal soggetto, dal suo radicamento in un luogo e in una storia,
e che gli permettono, in qualche modo, di firmare il gesto decostruttivo.
Il
tempo è alla fin fine al centro del suo pensiero, nonostante
il fatto che lei non proponga affatto una filosofia del tempo. Si avrebbe
piuttosto l’impressione di aver a che fare con una filosofia dell’evento.
La morte potrebbe giocare allora il ruolo di un concetto cardine, permettendole
di articolare per l’appunto il tempo e l’evento?
[J.
D.] Lei ha ragione, non c’è alcuna filosofia del tempo
in ciò che ho scritto. Ma neanche una filosofia dell’evento
o della morte. Non c’è una filosofia di cosa esso sia.
Io ho, in effetti, cominciato a mettere in discussione l’eredità
filosofica rispetto al tempo – Kant, Husserl, Heidegger soprattutto
– e il privilegio del presente nel pensiero sul tempo. Il buon
senso ci dice che tutto è al presente: il passato e l’avvenire
si annunciano in modalità che sono sempre quelle del presente,
del presente vivente. È questa evidenza che ho cercato di complicare
un po’. Questa questione del tempo è restata all’opera
in tutto il mio lavoro. Per altro, ciò che lei dice circa un’attenzione
all’evento è giusto. Essa si è fatta sempre più
insistente. L’evento come ciò che accade (arrive),
imprevedibilmente, singolarmente. Non solo “ciò”
che accade, ma “il chi” arriva (arrive), l’arrivante.
La questione “che fare con (quel) che arriva?” comanda un
pensiero dell’ospitalità, del dono, del perdono, del segreto,
della testimonianza. La posta in gioco politica di queste riflessioni
è già stata sottolineata. Tutto ciò concerne “(quel)
che arriva”, l’evento in quanto imprevedibile. Perché
un evento che si preveda è già accaduto, non è
più un evento. Ciò che m’interessa nell’evento
è la sua singolarità. Ciò ha luogo una volta, ogni
volta una volta. Un evento è dunque unico e imprevedibile, vale
a dire senza orizzonte. La morte è di conseguenza l’evento
per eccellenza: imprevedibile nonostante sia prevista, essa arriva e
non arriva affatto, poiché quando arriva, imprevedibile, non
arriva più a nessuno. Da qui un certo interesse che ho avuto
per il testo di Blanchot sulla morte come impossibile. La morte, detto
semplicemente, è il tema più costante in tutto ciò
che ho scritto, già prima di Glas (Galilée, 1974)
e ben dopo Donner la mort (Galilée, 1999). Tutto parte
da un pensiero della morte e tutto vi ritorna. Posso dare come esempi
tre tipi di riflessioni che toccano questo pensiero della morte. Il
carattere testamentario della scrittura (De la grammatologie,
Minuit, 1957): quando scrivo, io so molto bene che ciò che scrivo
può sopravvivermi, che ciò che è all’origine
della traccia può sparire senza che la traccia sparisca; è
la sua struttura, una struttura che io chiamo testamentaria. Anche la
spettralità, che è indissociabile dalla nozione di traccia
– e la riflessione sulla quale è presente nei miei scritti
ben prima di Spectres de Marx: una traccia non è né
viva né morta. Infine, la riflessione che porto (vorrei sottolineare
qui per delle ragioni politiche) alla grande questione della pena di
morte – a cui ho consacrato un seminario di più anni e
qualche gesto militante, specificamente a proposito del “caso”
Mumia Abu-Jamal, scrivendo una prefazione ad un suo libro (En direct
du couloir de la mort, La Découverte, 1999). La storia della
pena di morte mi è parsa decisiva in se stessa, essendo, in pari
tempo, un importante filo conduttore per pensare lo Stato, la sovranità,
il potere.
(traduzione
di Vincenzo Cuomo)