Wasteful Planet
di Zygmunt
Bauman
[Aglaura
e Leonia]1
La storia della
modernità (come qualsiasi altra, se è per questo) si può
raccontare in più di un modo.
Parlando
di Aglaura, una delle città stravaganti eppure misteriosamente
familiari descritte ne Le città invisibili, il Marco Polo
di Italo Calvino diceva di riuscire a stento ad andare «oltre
le cose che gli abitanti della città ripetono da sempre»,
malgrado i loro racconti discordassero da quanto egli stesso era persuaso
di vedere. «Vorresti dire cos’è, ma tutto quello
che s’è detto di Aglaura finora imprigiona le parole e
ti obbliga a ridire anziché a dire». E così, saldamente
installati tra le mura cittadine fatte delle storie sempre ripetute,
alla maniera in cui i bastioni di certe città sono fatti di pietre,
gli aglauriani abitano «un’Aglaura che cresce solo sul nome
Aglaura e non si accorgono dell’Aglaura che cresce in terra».
Come potrebbero comportarsi diversamente, infatti? Dopotutto, «la
città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere,
mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno».
Gli
abitanti di Leonia, un’altra delle Città invisibili
di Calvino, direbbero, se interrogati, che la loro passione è
«il godere delle cose nuove diverse». In effetti, ogni mattina
la popolazione di Leonia «indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae
dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi,
ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio».
Ogni mattina, però, «i resti della Leonia d’ieri
aspettano il carro dello spazzaturaio», e uno straniero come Marco
Polo, guardando per così dire attraverso le crepe dei racconti
che cingono Leonia, si chiederebbe se la vera passione dei leoniani
non sia invece «l’espellere, l’allontanare da sé,
il mondarsi d’una ricorrente impurità». Altrimenti
perché i netturbini sarebbero «accolti come angeli»,
sebbene il loro compito sia «circondato d’un rispettoso
silenzio» e, comprensibilmente, «una volta buttata via la
roba nessuno [voglia] più averci da pensare»? A mano a
mano che i leoniani si distinguono nella loro ricerca delle novità,
«una fortezza di rimasugli indistruttibili» circonda la
città, «la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne».
Ci
si potrebbe domandare se i leoniani vedono quelle montagne. Qualche
volta sì, soprattutto quando un’inattesa folata di vento
diffonde nelle loro linde case un tanfo che ricorda un cumulo d’immondizia
piuttosto che le viscere dei negozi che espongono le novità,
tutte freschezza, sfavillio e fragranza. Quando succede, non possono
più distogliere lo sguardo; non possono fare altro che guardare
nervosamente le montagne, con timore e tremore, e restare inorriditi
da ciò che vedono. Probabilmente ne aborriranno la bruttezza
e le odieranno perché imbrattano il paesaggio, perché
sono sudice, disgustose, dannose e assolutamente ributtanti, perché
covano pericoli a loro noti e pericoli diversi da quelli che conoscevano,
perché accumulano i rischi visibili e quelli che loro non possono
neppure ipotizzare. Ai leoniani non piacerà quello che avranno
visto, e non vorranno guardarlo più. Odieranno i rimasugli delle
loro fantasticherie di ieri con lo stesso fervore con cui un tempo amavano
i loro vestiti nuovi di zecca e i loro giocattoli appena usciti. Cercheranno
di esorcizzare le montagne, e vorranno che scompaiano: che siano fatte
saltare con la dinamite, frantumate, polverizzate o dissolte. Reclameranno
contro l’indolenza degli spazzini, la clemenza dei capisquadra
e la compiacenza dei dirigenti.
Più
degli avanzi stessi, i leoniani non sopporteranno l’idea della
loro indistruttibilità. Saranno terrorizzati dalla notizia che
le montagne che essi esorcizzano con tutte le loro forze sono restie
a degradarsi, a deperire e a decomporsi da sé, oltre a essere
resistenti (o meglio, immuni) ai solventi. Sperando nell’impossibile,
non intenderanno la semplice verità che gli esecrabili cumuli
di rifiuti possono non esistere solo se non sono stati prima
creati (da loro, i leoniani stessi!). Rifiuteranno di accettare
che (come afferma il resoconto di Marco Polo, che i Leoniani non ascolterebbero)
«rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa
nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che
s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti
i suoi giorni e anni e lustri». I leoniani non ascolteranno il
messaggio di Marco Polo, perché ciò che esso rivelerebbe
loro (se cioè fossero disposti ad ascoltarlo) sarebbe che, piuttosto
che preservare ciò che essi affermano di amare e desiderare,
essi riescono solo a perpetuare l’immondizia. Solo ciò
che è inutile, sgradevole, repellente, velenoso e spaventoso
è abbastanza resistente da conservarsi via via che il tempo passa.
Seguendo
l’esempio degli aglauriani, i leoniani vivono quotidianamente
in una Leonia che «cresce solo sul nome Leonia», beatamente
ignari dell’altra Leonia che cresce in terra. Per lo meno, essi
distolgono lo sguardo o chiudono gli occhi, facendo di tutto per non
vederla. Esattamente come per gli aglauriani, la città che dicono
«ha molto di quel che occorre loro per esistere».
E ciò che più conta, essa contiene la storia della passione
per le cose nuove, che essi continuano a ripetere giorno dopo giorno,
tanto che la passione di cui parlano potrebbe sempre rinascere ed essere
ricostituita, e la storia di quella passione potrebbe continuare ad
essere raccontata, udita, avidamente ascoltata e devotamente creduta.
Ci
vuole uno straniero come Marco Polo per chiedere: qual è in fin
dei conti il prodotto principale dei leoniani? Gli incantevoli oggetti
nuovi fiammanti, voluttuosamente freschi e pregni di un ammaliante arcano,
finché vergini e non sperimentati, o piuttosto i cumuli di rifiuti
che s’ingrossano incessantemente? Come spiegare, per esempio,
la loro passione per la moda? Cosa implica quella moda, in verità?
Attiene alla sostituzione di cose meno adorabili con cose più
deliziose, o alla gioia che si prova quando le cose, dopo essere state
spogliate del loro incantesimo e del loro fascino, vengono gettate in
un cumulo d’immondizia? Gli oggetti vengono buttati a causa della
loro bruttezza, o sono brutti in quanto sono stati destinati alla discarica?
Domande
spinose, a dire il vero. Rispondere loro è un compito non meno
arduo, però. Le risposte dipenderebbero da vicende che echeggiano
tra le mura sorte dai ricordi delle storie raccontate, ripetute, ascoltate,
ingerite e assorbite.
Se
venissero rivolte a un leoniano, egli risponderebbe che si devono produrre
sempre più cose sempre più nuove, per sostituire altre
cose che sono meno accattivanti o utili, o che non servono più.
Ma se s’interrogasse Marco Polo – un viaggiatore, uno straniero
scettico, un estraneo non coinvolto, un perplesso nuovo arrivato –
egli risponderebbe che a Leonia gli oggetti son dichiarati inutili e
prontamente buttati via per il richiamo esercitato da altri oggetti
del desiderio, nuovi e più progrediti; e quelli devono essere
gettati via per fare spazio questi. Risponderebbe che, a Leonia, sono
le novità di oggi ciò che rende le novità di ieri
obsolete e destinate all’immondezzaio. Entrambe le risposte suonano
vere; tutt’e due sembrano rappresentare la vita dei leoniani.
Perciò la scelta, in definitiva, varia a seconda che un racconto
venga ribadito a mo’ di cantilena, o che al contrario i pensieri
vaghino liberamente nello spazio libero da narrazioni…
[Rifiuti
umani]
Fin
dal principio, la modernità ha sfornato e continuato a sfornare
enormi quantità di esseri umani di scarto: rifiuti umani. La
produzione di rifiuti umani è stata particolarmente copiosa in
due branche dell’industria moderna, entrambe tuttora attive a
pieno regime.
La
funzione apparente della prima branca è stata la produzione e
la riproduzione dell’ordine sociale. Qualsiasi modello
d’ordine è discriminante e richiede di amputare, rifilare,
segregare, differenziare ed eliminare quelle parti della materia prima
umana che sono inadatte al nuovo ordine: incapaci di occupare una qualunque
delle sue nicchie o non ammesse a farlo. Il compito attribuito a talune
altre parti non è tanto chiaro come la trasparenza dell’ordine
architettato esigerebbe; certe hanno affinità con più
d’una nicchia, sicché si stendono attraverso confini che,
per amore d’ordine, sarebbero dovuti essere univoci e impenetrabili.
All’altro estremo del processo di costituzione dell’ordine,
elementi di entrambe le categorie affiorano come “scarto”,
intendendosi per tale qualcosa di distinto rispetto al prodotto «utile»
(perché voluto). Bisogna smaltirle.
Il
secondo settore dell’industria moderna noto per produrre a ciclo
continuo vasti volumi di rifiuti umani è stato il progresso
economico, che esige a sua volta la interdizione, lo smantellamento
e infine l’annientamento di una certa quantità di modi
e mezzi per campare: le occupazioni che non possono corrispondere e
non corrisponderebbero a standard di redditività e produttività
in costante aumento. Di solito è impossibile accogliere in massa
nei nuovi assetti dell’attività economica, più snelli
e brillanti, coloro che praticano le forme di vita svalutate. Viene
a essi negato l’accesso ai mezzi di sussistenza che i nuovi sistemi
hanno reso legittimi/obbligatori, mentre i mezzi convenzionali, ormai
svalutati, non garantiscono più la sopravvivenza. Tutti costoro,
o almeno alcuni, diventano in conseguenza di ciò degli «esuberi».
Sono quindi i rifiuti del progresso economico.
La
produzione degli esseri umani di scarto è stata un processo continuo
e, in linea di principio, cumulativo. Le conseguenze potenzialmente
disastrose dell’accumulo di rifiuti umani furono tuttavia, per
gran parte della storia moderna, minimizzate, neutralizzate o almeno
mitigate grazie a un’altra innovazione moderna: l’industria
di smaltimento dei rifiuti. Tale industria ha prosperato grazie
alla trasformazione di ampie zone del globo in discariche nelle quali
l’umanità «eccedente» – i rifiuti umani
prodotti nei settori del pianeta che si modernizzavano – poteva
essere trasportata, mantenuta a distanza di sicurezza, riciclata e decontaminata,
evitando in tal modo il rischio dell’autocombustione e dell’esplosione.
Sul
nostro pianeta queste discariche adesso stanno venendo a mancare. Questa
carenza è perlopiù dovuta al successo straordinario –
alla diffusione mondiale – della forma di vita moderna (almeno
dai tempi di Rosa Luxemburg, sulla modernità grava il sospetto
di essere in definitiva suicida, «un serpente che morde la propria
stessa coda» – il proprio stile, la propria tendenza –
distruggendo le forme di vita dalle quali dipende la sua sopravvivenza).
Mentre la produzione di rifiuti umani procede senza tregua (il volume
semmai aumenta, sotto la spinta dei processi di globalizzazione), l’industria
di smaltimento si è ritrovata in serie difficoltà. Quei
metodi per trattare le scorie umane che si sono andati affermando come
la tradizione moderna non sono più praticabili, e di nuovi non
ne sono stati inventati (e tanto meno messi in funzione). Lungo le linee
di faglia del disordine mondiale, stanno lievitando cumuli di rifiuti
umani: i primi segni della tendenza all’autocombustione e i sintomi
di un’imminente esplosione si moltiplicano.
[Oggi,
il pianeta è pieno]
Oggi,
il pianeta è pieno.
Mi
spiego: quest’affermazione non appartiene al campo della fisica,
né a quello della geografia umana. In termini di spazio fisico
e di espansione della coabitazione umana, il pianeta è tutt’altro
che colmo. Al contrario, l’estensione complessiva delle terre
scarsamente popolate o spopolate sembra aumentare anziché diminuire.
Il progresso tecnologico, a mano a mano che offre possibilità
di sopravvivenza, o persino di esistenza agiata, in habitat che prima
erano considerati inadatti all’insediamento umano, intacca anche
la capacità di molti altri habitat di sostentare popolazioni
che in precedenza vi erano ospitate e sfamate; il progresso economico,
invece, rende impossibili, inattuabili o impraticabili modi di «procurarsi
da vivere» un tempo efficaci, facendo in tal modo dilatare la
superficie dei terreni inutilizzabili che giacciono incolti e/o abbandonati.
«Il
pianeta è pieno» è un’asserzione afferente
alla sociologia e alla scienza politica. Essa segnala la scomparsa
delle «terre di nessuno»: dei territori definiti (o definibili)
e trattati (o suscettibili di esser trattati) come «disabitati»
e «vuoti» (ossia, senza un «proprietario sovrano»
di cui occorre tenere conto) e pertanto aperti alla colonizzazione e
al popolamento. Per la maggior parte della storia moderna tali territori,
oggi perlopiù assenti, hanno rivestito il ruolo cruciale di discariche
per rifiuti umani (le gaspillage, les déchets humains)
che venivano sfornati, in quantità sempre crescenti, in altre
parti del mondo: quelle in «modernizzazione» permanente.
La
nuova «plenitudine del pianeta» (la portata mondiale della
modernizzazione e quindi la diffusione planetaria del modo di vita moderno)
ha due conseguenze indirette alle quali ho brevemente accennato all’inizio
di questo articolo.
La
prima conseguenza è l’occlusione degli sbocchi che, nel
passato, permettevano di drenare e mondare le (relativamente scarse)
enclave moderne del pianeta dalle loro scorie sovrabbondanti (cioè
dell’eccedenza dei rifiuti rispetto alla capacità delle
attrezzature di riciclaggio) che il modo di vita moderno non poteva
desistere dal produrre su una scala sempre più vasta. Quando
il modo di vivere moderno ha smesso di essere un privilegio riservato
a terre elette, i territori «vuoti» o «di nessuno»
(più precisamente, i territori che, in virtù della differenza
di potere, potevano essere considerati e trattati come se fossero vuoti
e adespoti), sfogo primario per lo smaltimento dei rifiuti umani, sono
svaniti. Per quel che riguarda gli «esseri umani in esubero»
generati nelle aree del pianeta che sono salite di recente a bordo del
«TIR della modernità» (o che ne sono state travolte),
questo genere di sbocchi non è mai esistito, poiché nelle
società cosiddette «premoderne», prive del problema
dei rifiuti (sia umani che non umani), non se ne è presentata
la necessità.
A
sua volta, l’esiziale mutamento sopra descritto fa sì che
alcune società rivolgano contro se stesse l’affilatissima
lama delle pratiche di esclusione. Quando si dà normalmente la
possibilità che l’eccesso di popolazione (cioè chi
non si presta a essere reintegrato in modelli di vita normali, né
riconvertito in un membro «utile» della società)
venga deportato al di là dei confini del recinto in cui vengono
perseguiti equilibrio economico e stabilità sociale, le persone
momentaneamente in esubero che sono sfuggite alla deportazione e restano
dentro il recinto vengono destinate al riciclaggio. Esse sono
«out», ma solo temporaneamente; il loro «stare fuori»
è un’anomalia che impone e mobilita terapie: occorre aiutarli
a «rientrare» quanto prima. Sono «l’esercito
di riserva del lavoro» e vanno posti e mantenuti in una condizione
tale che consenta loro di tornare al servizio attivo alla prima occasione.
Tutto questo però muta quando i canali di drenaggio del surplus
umano sono intasati. La linea che divide l’inabilitazione passeggera
dalla consegna categorica e definitiva ai rifiuti è confusa e
non più decifrabile. Giacché la «parte di scarto»
dell’umanità ridondante presenta il problema più
straziante e si sottrae agli strumenti d’intervento e agli stratagemmi
abituali, è probabile che susciti le più vive attenzioni
e preoccupazioni. Le nuove politiche, da escogitare alla svelta per
reagire al nuovo problema, con ogni probabilità includeranno
i metodi messi a punto per affrontare quello vecchio. Per maggiore sicurezza,
saranno favorite le misure di emergenza dirette al problema delle «scorie
interne» e, prima o poi, verrà data loro precedenza su
tutte le altre forme di intervento sulla sovrabbondanza, temporanea
o meno.
Tutti
questi intoppi e queste avversità tendono a essere amplificati
nelle parti del mondo che con il fenomeno (prima sconosciuto) della
«popolazione in soprannumero» e con il problema del suo
smaltimento devono vedersela in ritardo: quando il pianeta è
già pieno, quando non restano terre «vuote» che fungano
da siti di smaltimento rifiuti e quando ogni asimmetria dei confini
volge a loro svantaggio. I territori circostanti difficilmente richiederanno
le loro eccedenze, né è probabile che vengano costretti
ad accettarle e accoglierle (mentre a suo tempo imposero ad altri di
farlo). Questi «ritardatari» della modernità sono
lasciati cuocere nel proprio brodo alla ricerca di soluzioni locali
a problemi generati da dinamiche globali. Essendo stati indotti da forti
pressioni a lasciare il proprio territorio aperto alla circolazione
globale del capitale e delle merci, hanno minato la vitalità
delle imprese familiari e comunitarie che un tempo erano capaci e desiderose
di assorbire, occupare e nutrire tutti gli esseri umani che nascevano,
e, nella maggior parte dei casi, assicurare la loro sopravvivenza. Solo
adesso essi sperimentano quella separazione dell’economia dalle
unità familiari che i pionieri della modernità conobbero
centinaia di anni fa, con tutto il contorno di perturbazioni sociali
e miseria umana che l’accompagna, ma anche godendo del lusso di
soluzioni globali (cioè le abbondanti «terre di nessuno»,
«vuote» e agevolmente utilizzabili per depositarvi la popolazione
in esubero che non viene più assorbita da un’economia affrancata
dai vincoli familiari e comunitari) ai loro problemi generati localmente:
un lusso che ai ritardatari non è dato.
Le
guerre e i massacri tribali, la proliferazione di «eserciti guerriglieri»
(spesso poco più che bande criminali leggermente camuffate) tutti
presi a decimarsi a vicenda, ma che nel frattempo assorbono e annientano
la «popolazione in esubero» (soprattutto persone «inoccupabili»
in patria e giovani senza prospettive), rappresentano una di quelle
«soluzioni locali a problemi globali» di cui i «ritardatari
della modernità» sono costretti a servirsi. Centinaia di
migliaia di persone vengono scacciate dalle proprie case, assassinate
od obbligate a fuggire per mettersi in salvo fuori dai confini del proprio
paese. Probabilmente, nelle terre dei ritardatari (subdolamente e ingannevolmente
chiamati «paesi in via di sviluppo») l’unica industria
è la produzione di massa di profughi. Sono i suoi sempre più
numerosi frutti quelli che il primo ministro britannico propone di scaricare
«vicino al loro paese d’origine», in campi stabilmente
provvisori (subdolamente e ingannevolmente chiamati «zone protette»),
aggravando – con il proposito di mantenere locali i «problemi
locali» – i già ingovernabili problemi di «popolazione
in esubero» dei paesi limitrofi che mandano avanti un’industria
analoga, e bloccando così sul nascere ogni tentativo dei ritardatari
di calcare le orme dei pionieri della modernità, ossia perseguire
soluzioni globali (le uniche che funzionino) per problemi confezionati
in loco. Mentre scrivo queste parole, la NATO, nell’ambito di
un’altra variante di questo stesso tema, è stata sollecitata
a mobilitare i propri eserciti per aiutare la Turchia a sigillare il
suo confine con l’Iraq, in vista dell’imminente attacco
contro questo paese. Parecchi statisti di paesi pionieri hanno avuto
da eccepire, sollevando numerose riserve immaginarie; nessuno però
ha pubblicamente accennato al fatto che il pericolo da cui la Turchia
deve proteggersi è l’afflusso di profughi iracheni, freschi
senzatetto, non l’aggressione delle malconce e sfibrate truppe
irachene.2
Per
quanto scrupolosi, gli sforzi per arginare la marea della «migrazione
economica» non riescono al cento per cento (traguardo che probabilmente
sarà impossibile raggiungere anche perfezionandoli). Un’indigenza
prolungata crea milioni di disperati e, in un’epoca in cui tutto
il mondo è zona di frontiera e il crimine è globalizzato,
non ci si può di certo aspettare che scarseggino i servizi criminali
entusiasti di raggranellare qualche soldo, o qualche miliardo, speculando
sulla disperazione. Donde la seconda formidabile conseguenza dell’attuale
grande trasformazione: milioni di migranti che vagano lungo i percorsi
un tempo battuti dalla «popolazione in esubero» scaricata
dai vivai della modernità; ma in direzione opposta, e senza essere
(almeno finora) accompagnati e coadiuvati da eserciti di conquistadores,
mercanti e missionari. Restano ancora da dipanare e constatare nella
loro interezza le proporzioni che questa conseguenza e le sue ripercussioni
assumeranno.
In
un breve ma pungente scambio di opinioni, avvenuto verso la fine del
2001 in connessione con la guerra in Afghanistan, Garry Younge
3
rifletteva sulla situazione del pianeta un giorno prima dell’11
settembre, data che, per comune accordo, ha sconvolto il mondo e ha
inaugurato una fase completamente diversa della storia mondiale. Younge
ricordava come una «barcata di profughi afgani che fluttuava al
largo della costa australiana» (benvista dal 90 per cento degli
australiani) fosse stata infine abbandonata su un’isola deserta
nel cuore dell’Oceano Pacifico:
Ora diventa
interessante che fossero afgani, dato che l’Australia adesso è
impegnata a fondo nella coalizione, ritiene che non ci sia niente di
meglio di un Afghanistan liberato ed è pronta a mandare le proprie
bombe per liberarlo […] È altresì interessante
che il nostro attuale ministro degli Esteri paragoni l’Afghanistan
ai nazisti, ma, quando faceva il ministro degli Interni e un gruppo
di afgani approdò a Stanstead, disse che non c’erano da
temere persecuzioni e li rispedì da dove erano venuti.
Younge
conclude che il 10 settembre il mondo era «un luogo privo di leggi»
del quale tanto i ricchi quanto i poveri sapevano che «la ragione
[era] del più forte» (might is right), che il prepotente
poteva ignorare e aggirare il diritto internazionale (o checché
porti quel nome) tutte le volte che trovava scomode le sue disposizioni,
e che la ricchezza e il potere non determinavano solo l’economia,
ma anche la moralità e la politica dello spazio globale e –
quanto a questo – ogni altro aspetto che toccasse le condizioni
di vita sul pianeta.
La
sovranità, secondo la cinica e memorabile definizione di Carl
Schmitt, si fonda sul diritto all’eccezione. È questo che
conferisce alla regola sostanza e sanzione. Potremmo dire che in tutta
l’epoca moderna i poteri sovrani hanno esercitato quel diritto
tracciando le linee che dividevano «noi» da «loro»,
la presenza legittima da quella illegittima, il diritto di soggiorno
dalla condizione di «apolidia»
4
o dal destino dei sans papiers, ciò che è veramente
e interamente umano da ciò che non lo è del tutto, la
vita degna dalla unwertes Leben, il prodotto utile dello sforzo
d’ordine dai rifiuti, l’economicamente vitale dall’economicamente
superfluo.
A
proposito della Déclaration des droits de l’homme et
du citoyen, uno dei testi fondativi della società moderna,
Giorgio Agamben ha osservato (con il vantaggio di un senno di poi lungo
due secoli) che in essa «non è chiaro se i due termini
[uomo e cittadino] nominino due realtà distinte»
oppure se il primo termine debba ritenersi «già sempre
contenuto nel secondo»;
5
in altre parole, se il titolare dei diritti sia l’uomo che è
(o nella misura in cui è) anche un cittadino.
Questa
mancanza di chiarezza, con tutte le sue sinistre conseguenze, era già
stata notata da Hannah Arendt nel periodo immediatamente seguente alla
Seconda guerra mondiale, in un mondo che si riempiva improvvisamente
di «sfollati». La Arendt rievocava la vecchia e davvero
profetica premonizione di Edmund Burke
6,
secondo cui l’astratta nudità del «non essere altro
che umana» costituiva il più grave pericolo per l’umanità.
I «diritti umani», rilevava Burke, erano un’astrazione,
e gli esseri umani non potevano sperare di riceverne una gran protezione,
a meno che l’astrazione non fosse riempita con la polpa dei diritti
di un inglese o di un francese. «Il mondo non ha visto nulla di
sacro nell’astratta nudità della condizione di umano»:
così la Arendt ha riassunto la storia degli anni che sono seguiti
alle osservazioni di Burke. «I Diritti dell’Uomo, presunti
inalienabili, si sono dimostrati inapplicabili […] ogni qual
volta comparivano persone che non erano più cittadine di nessuno
Stato sovrano».
7
Nei
fatti, uomini e donne dotati di «diritti umani» ma privi
di qualsiasi altro requisito (cioè spogliati di altri diritti,
necessari a garantire e difendere quelli «umani», ma derivanti
da istituzioni) risultavano introvabili e, a tutti gli effetti, inimmaginabili.
Una potenza (puissance, power, Macht)
8
sociale, fin troppo sociale, era evidentemente necessaria per avallare
l’umanità degli umani. E in tutta l’epoca moderna,
questa potenza è consistita nella capacità di tracciare
un confine tra umano e inumano che, nei tempi moderni, si camuffa da
confine tra cittadini e stranieri. In un mondo suddiviso in possedimenti
territoriali di Stati sovrani, chi è senza patria (home-less)
è senza diritti. Non è che patisca perché non è
uguale davanti alla legge, ma perché non esiste legge che
gli si applichi, la cui protezione egli (o ella) possa invocare,
o alla quale possa fare riferimento nel protestare contro un trattamento
iniquo che abbia subìto.
[Profughi]
La maggior
parte delle azioni belliche che si compiono oggi, e le più spietate
e sanguinose tra esse, sono condotte da entità non statuali,
che non sono soggette a leggi statali né a convenzioni internazionali.
Sono al contempo esiti e (incisive) concause della continua erosione
della sovranità statale. Gli antagonismi fra tribù irrompono
sulla scena grazie all’indebolimento delle forze statali (o nel
caso dei «nuovi Stati» che non hanno mai avuto il tempo
di consolidarsi); una volta scatenati, essi rendono inapplicabili e
in pratica nulle e inefficaci le leggi emanate dagli Stati, sia quelli
affermati, sia quelli ai loro primi passi. La popolazione nel suo complesso
si trova in una dimensione priva di leggi (lawless); la parte
di popolazione che decide di abbandonare il campo di battaglia e riesce
a scappare cade in un altro tipo di «alegalità» (lawlessness),
quella delle terre di confine globali. Per di più, una volta
fuoriuscite dai confini del loro paese natale, le persone si trovano
prive dell’appoggio di un’autorità statale riconosciuta,
che potrebbe prenderle sotto la propria protezione, rivendicare i loro
diritti e intercedere in loro nome presso potenze straniere. I profughi
sono apolidi (stateless), ma in un senso nuovo: la loro apolidia
è elevata a un livello completamente inedito dalla inesistenza
dello Stato al quale potrebbero fare capo. Essi sono, come scrive Michel
Agier nella sua più penetrante ricerca sui rifugiati nell’epoca
della globalizzazione, 9
hors du nomos: al di fuori del diritto; non del diritto di questo
o quell’altro paese, ma del diritto in quanto tale. Sono reietti
e fuorilegge di tipo nuovo, i prodotti della globalizzazione e la personificazione
più compiuta del suo spirito da terra di frontiera. Per citare
ancora Agier, essi sono stati gettati in una condizione di «migrazione
liminare» (liminal drift), di cui non sanno né possono
sapere se sia transitoria o permanente; anche se per un certo periodo
stanno fermi, il loro movimento non è mai concluso, poiché
la meta (arrivo o ritorno) resta sempre vaga, e una destinazione che
potrebbero definire finale resta sempre inaccessibile. Non riescono
mai a sbarazzarsi della tormentosa sensazione che ogni stanziamento
sia caduco, indefinito e provvisorio.
La
brutta situazione dei profughi palestinesi, molti dei quali non hanno
mai vissuto fuori dei campi frettolosamente raffazzonati più
di cinquant’anni fa, è stata documentata con dovizia di
dettagli. A mano a mano che la globalizzazione impone il proprio tributo,
tuttavia, intorno ai punti più caldi della conflagrazione sorgono
come funghi nuovi campi (meno famosi e perlopiù inosservati o
dimenticati), prefigurando il modello che, negli auspici di Tony Blair,
l’Alto commissariato ONU per i rifugiati dovrebbe rendere obbligatorio.
Per esempio, non vi sono indizi di chiusura imminente per i tre campi
di Dabaab – la cui popolazione totale è pari a quella del
resto della provincia keniota di Garissa, nella quale essi sono stati
ubicati nel 1991-1992 – ma, a tutt’oggi, essi non figurano
sulle mappe del Kenya. Lo stesso vale per i campi di Ilfo (aperto nel
settembre 1991), Dagahaley (marzo 1992) o Hagadera (giugno 1992).
10
Mentre
si dirigono nei campi, i futuri «ricoverati» vengono spogliati
di ogni singolo pezzo delle loro identità, tranne uno: quello
di profughi senza Stato, senza un posto e senza mansioni (stateless,
placeless, functionless). All’interno del campo
è rinchiusa una massa anonima, priva dell’accesso alle
elementari strutture da cui le identità sono prodotte e dei fili
che costituiscono il tessuto di qualsivoglia identità. Diventare
un «profugo» significa perdere
i media
su cui poggia l’esistenza sociale, ossia un insieme consueto di
cose e persone che trasmettono significati: terra, casa, villaggio,
città, genitori, proprietà, occupazioni e altri punti
di riferimento quotidiani. Queste persone in fuga e in attesa non hanno
nient’altro che la propria «nuda vita», il cui prolungamento
dipende dall’assistenza umanitaria.
11
Riguardo
all’ultimo punto, le inquietudini abbondano. La figura di chi
presta aiuto umanitario, retribuito o volontario, non è essa
stessa un importante anello della catena dell’esclusione? Sono
stati sollevati dubbi circa il ruolo degli enti di assistenza: non sarà
che, facendo del proprio meglio per togliere le persone dal pericolo,
essi – senza accorgersene – finiscono con l’assistere
proprio gli autori della «pulizia etnica»? Agier considera
l’ipotesi che l’operatore umanitario possa essere un «agente
di esclusione a minor costo» e (ancor più importante) un
espediente messo a punto per alleviare e dissipare l’ansia del
resto del mondo: assolvere i colpevoli e mitigare gli scrupoli, oltre
che sedare l’impressione di urgenza e il timore di imprevisti.
Mettere i profughi nelle mani di «operatori umanitari» (e
dimenticare le scorte armate che stanno sullo sfondo) sembra proprio
il modo ideale per conciliare l’inconciliabile: soddisfare la
travolgente richiesta di smaltire fastidiosi rifiuti umani pur appagando
un’acuta aspirazione alla rettitudine morale.
Forse la coscienza
sporca provocata dall’amara situazione in cui versa la parte dannata
dell’umanità può essere sanata.
Per ottenere questo risultato,
basterà consentire di fare il proprio corso al processo di bio-segregazione
(già in piena attività), alla repentina creazione e fissazione
di identità macchiate da guerre, violenza, esodo, malattie, miseria
e disuguaglianza. I portatori dello stigma sarebbero certamente tenuti
a distanza nel nome della loro umanità minore, ossia della loro
disumanizzazione tanto fisica quanto morale.
12
I
profughi sono rifiuti umani, senza alcuna funzione utile da svolgere
nella terra dove arrivano e (temporaneamente) soggiornano, e senza intenzione
né realistica possibilità di essere mai assimilati o inseriti
nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi
è ritorno né sbocco ulteriore (se non verso luoghi ancor
più remoti, come nel caso dei rifugiati afgani scortati dalle
navi da guerra australiane in un’isola lontana da tutte le rotte
battute). Il principale criterio con cui è decisa l’ubicazione
dei campi temporanei-permanenti è quello della distanza, che
dev’essere abbastanza grande da impedire che le esalazioni venefiche
della decomposizione sociale raggiungano luoghi abitati dalla popolazione
indigena. Fuori dai campi, i profughi sono un ostacolo e un disturbo;
dentro, essi cadono nell’oblio. Nel tenerceli, sbarrandogli ogni
possibile uscita, nel rendere definitivo e irreversibile il loro isolamento,
«la compassione di alcuni e l’odio degli altri» concorrono
a determinare il medesimo effetto: presa di distanza e mantenimento
a distanza.
13
Non
rimane null’altro che i muri, il filo spinato, i cancelli sorvegliati
e le guardie armate. Entro il perimetro che formano, essi definiscono
l’identità dei profughi, o meglio, sospendono il diritto
di questi ultimi ad autodefinirla. Tutte le scorie, comprese quelle
umane, tendono a essere ammucchiate indiscriminatamente nello stesso
deposito di immondizia. L’atto di consegnare qualcosa alla spazzatura
sopprime le differenze, le individualità e le idiosincrasie.
Per i rifiuti non servono distinzioni precise e sottili sfumature, a
meno che non siano destinati al riciclaggio; ma le prospettive di essere
rimessi in circolazione come membri legittimi e riconosciuti della società
umana sono, per i profughi, incerte e infinitamente remote (nel migliore
dei casi). Sono stati presi tutti i provvedimenti per garantire che
la loro esclusione sia permanente. Uomini e donne senza qualità
sono stati depositati in territori senza nome, dove tutte le strade
che riportano a luoghi investiti di un significato e a posti in cui
possono essere (e sono) forgiati significati socialmente decifrabili,
sono state bloccate per sempre.
[Iper-ghetti]
I rifiuti
umani della terra-di-confine globale, i rifugiati, sono la personificazione
stessa dell’emarginato (outsider), gli emarginati assoluti,
che riescono estranei dovunque si trovino e fuori posto in ogni posto,
tranne nei luoghi che sono essi stessi fuori luogo: i «non-luoghi»
(nowhere places), quelli che non compaiono su nessuna mappa che
le persone normali utilizzino nei propri spostamenti. Una volta che
sei fuori, lo sei a tempo indeterminato; un recinto presidiato con torri
di controllo è l’unico marchingegno necessario a fare sì
che la «indefinitezza» della esclusione regga per sempre.
Per
quel che riguarda gli esseri umani in esubero che sono già «dentro»,
la cui esclusione territoriale è impedita dalla saturazione del
pianeta, il discorso è diverso. Data l’assenza di posti
vuoti nei quali essi potrebbero esser deportati, o verso i quali potrebbero
dirigersi di propria iniziativa in cerca di sostentamento, i siti di
smaltimento devono essere allestiti presso le località che hanno
reso quegli individui «eccedenti». Tali siti spuntano in
tutte le città, o almeno nelle più grandi. Si tratta di
ghetti urbani, o – per rifarci al parere di Loïc Wacquant
14
– di «iper-ghetti».
I
ghetti, vengano chiamati o meno con il loro nome, sono istituzioni antiche.
Essi servono allo scopo della «stratificazione composita»,
cioè a far coincidere le distinzioni di classe o di casta con
la suddivisione territoriale. I ghetti possono essere volontari o imposti
(benché solo questi ultimi, di solito, ne portino il nome e il
marchio infamante); la principale differenza tra i due tipi riguarda
il lato dal quale si presenta il «confine asimmetrico»,
ossia gli ostacoli ammassati, rispettivamente, all’ingresso o
all’uscita dal territorio del ghetto. Anche nel caso dei «ghetti
involontari», tuttavia, oltre alle decisive forze che «spingono»
nel ghetto, hanno un piccolo ruolo anche quelle che «attirano»
(o trattengono) al suo interno. Tali ghetti solevano essere «mini-società»
che riproducevano in miniatura tutte le principali istituzioni che provvedevano
alle necessità quotidiane e coadiuvavano nelle attività
comuni della vita fuori dal ghetto. Essi offrivano anche ai loro abitanti
un certo livello di sicurezza e almeno una parvenza del sentimento di
appartenenza al luogo, cosa che fuori dal ghetto non avrebbero potuto
trovare. Riprendendo la descrizione del modello dominante nei ghetti
afroamericani dell’ultimo secolo effettuata da Wacquant,
la forza
economica della borghesia di colore (medici, avvocati, insegnanti, uomini
d’affari) si fondava sulla fornitura di merci e servizi ai loro
fratelli di classe inferiore; e tutti gli abitanti neri della città
erano uniti nel comune rifiuto della subordinazione di casta e nel durevole
interesse a «promuovere la razza» […] Di conseguenza,
il ghetto postbellico era integrato sia dal punto di vista sociale,
sia da quello strutturale; persino i gaglioffi che si guadagnavano
da vivere con traffici illeciti come il «numbers game»,
15
lo spaccio di alcolici, la prostituzione e altri svaghi scabrosi, erano
collegati con le diverse classi.
16
I
ghetti tradizionali potevano pure essere dei recinti circondati da barriere
(fisiche e sociali) insormontabili, ancorché invisibili, e in
cui le poche vie d’uscita residue erano estremamente difficili
da percorrere. Ammettiamo anche che fossero strumento di una segregazione
classista e castale, che apponeva sui propri abitanti il marchio disonorevole
dell’inferiorità e del rifiuto sociale. Però non
erano (a differenza degli «iper-ghetti» che da essi si sono
evoluti e ne hanno preso il posto verso la fine del Novecento) delle
discariche in cui gettare la popolazione eccedente, superflua, inoccupabile
e priva di qualunque funzione. Diversamente dal suo predecessore classico,
il ghetto nuovo, a detta di Wacquant, «non funge da bacino di
riserva di forza lavoro industriale al quale attingere, ma è
un puro sito per la raccolta di rifiuti, cui sono destinati coloro dei
quali la società circostante non ha, economicamente o politicamente,
bisogno». Abbandonati dalla classe media della loro etnia, che
non conta più solo sulla clientela nera e ha preferito comprarsi
l’accesso alla maggiore sicurezza offerta dai ghetti volontari
delle «comunità fortezza» (gated communities),
gli abitanti del ghetto non sono in grado di inventare, da soli, funzioni
economiche e politiche per cui e con cui riuscire utili, in alternativa
a quelle che la società che li circonda ha loro negato. In definitiva,
mentre
il ghetto nella sua forma tradizionale fungeva in parte da scudo protettivo
contro la brutale esclusione razziale, l’iper-ghetto ha perduto
il ruolo positivo di tampone collettivo, riducendosi a micidiale apparato
di nuda segregazione sociale.
Detto
altrimenti, il ghetto nero americano si è trasformato in una
pura e semplice discarica per lo smaltimento dei rifiuti, che non ha
di fatto alcuno altro scopo. «È regredito a marchingegno
unidimensionale di semplice segregazione, un deposito umano nel quale
sono abbandonati quei settori della società urbana ritenuti loschi,
derelitti e pericolosi». Wacquant fa rilevare parecchi processi
sociali, paralleli e tra loro coordinati, che riportano i ghetti neri
americani sempre più vicino al modello para-carcerario delle
«istituzioni totali» alla Goffman: la «carcerizzazione»
dell’edilizia popolare, che rievoca con sempre maggiore insistenza
le case di detenzione (i nuovi «progetti» sono delimitati
da recinti, e il loro perimetro è sottoposto a pattugliamenti
di sicurezza più serrati e a controlli autoritari; si hanno «perquisizioni
casuali, segregazioni, coprifuochi e conteggi dei residenti: tutte procedure
abituali di una efficiente gestione carceraria»,
17
come ha osservato Jerome G. Miller); oppure, la trasformazione delle
scuole statali in «istituzioni di confinamento» il cui fine
primario non è di istruire, ma di assicurare «custodia
e controllo»:
in realtà,
sembra che lo scopo principale di queste scuole sia semplicemente quello
di «neutralizzare» dei giovani ritenuti abietti e turbolenti
tenendoli sotto chiave per la giornata in modo che almeno si astengano
dai crimini di strada.
È
in atto anche un cambiamento nella direzione opposta, che modifica la
natura delle prigioni americane, le loro funzioni latenti e manifeste,
i loro scopi espliciti e taciti, le loro strutture fisiche e le loro
abitudini; sicché i ghetti urbani e le carceri si incontrano
a metà strada, convergendo appunto nella discarica dei rifiuti
umani… Per citare nuovamente Wacquant:
la «Grande Casa»,
che incarnava l’ideale correzionale di un trattamento volto al
recupero dei detenuti e al loro reinserimento nella comunità,
ha lasciato il posto a un «deposito» lacerato da divisioni
razziali e funestato dalla violenza, orientato esclusivamente a neutralizzare
dei rifiuti sociali confiscandoli fisicamente alla società.
Per
quanto concerne i ghetti urbani, e in particolare quelli che spuntano
come funghi nelle città europee con una consistente popolazione
immigrata, questa trasformazione non è completa. A differenza
dei neri americani, gli immigrati recenti (o relativamente recenti)
che ci abitano non sono rifiuti umani prodotti in loco; sono «scorie
importate» da altri paesi, con una vaga speranza di riciclarsi.
La questione se tale riciclaggio sia o meno possibile, e quindi se il
verdetto di destinazione alla spazzatura sia definitivo e totalmente
vincolante, resta aperta. Questi ghetti urbani restano – potremmo
dire – «mezze locande» o «strade a doppio senso».
È a causa di questa natura provvisoria, irrisolta e non del tutto
definita che essi rappresentano fonti e bersagli di un’acuta tensione,
che sfocia quotidianamente in scaramucce di esplorazione e scontri di
confine.
Forse
quest’ambiguità, che differenzia i ghetti a popolazione
immigrata e mista delle città europee dagli «iper-ghetti»
americani, non è tuttavia destinata a durare. Come ha rilevato
Philippe Robert,
18
i ghetti urbani francesi, che in origine funzionavano come stazioni
di «transito» o di «passaggio» per nuovi immigrati
di cui si prevedeva che sarebbero stati presto assimilati e assorbiti
dalle strutture urbane consolidate, non appena l’occupazione non
regolamentata è diventata precaria e volatile, e si è
diffusa la disoccupazione di lungo periodo, si sono trasformati in «spazi
di confinamento». È allora che il risentimento e l’animosità
della popolazione nazionale crebbero fino a diventare un muro che relegava
i «nuovi-arrivati-trasformati-in-emarginati» in un recinto
invisibile, eppure praticamente impenetrabile. I quartiers, già
socialmente degradati e tagliati fuori dalla comunicazione con le altre
zone delle città, divennero a quel punto «i soli luoghi
in cui [gli immigrati] potessero sentirsi chez soi, al riparo
dagli sguardi ostili del resto della popolazione». Hughes Lagrange
e Thierry Pech
19
19
osservano inoltre che quando lo Stato, avendo abdicato alla gran parte
delle proprie funzioni economiche e sociali, ha scelto la «politica
di sicurezza» (e, più concretamente, di incolumità
personale) come perno della sua strategia – mirante a recuperare
la propria autorità decaduta e a ripristinare la propria funzione
protettiva agli occhi della cittadinanza – l’afflusso di
nuovi arrivati ha cominciato a essere apertamente od obliquamente additato
come responsabile dell’inquietudine e dei diffusi timori che scaturivano
dalla precarizzazione sempre più forte del mercato del lavoro.
I quartiers degli immigrati venivano rappresentati come fucine
di microcriminalità, mendicità e prostituzione, a loro
volta accusate di essere tra le cause primarie della crescente ansietà
dei «cittadini comuni». Acclamato dai suoi cittadini alla
disperata ricerca di fonti cui far risalire la propria ansia, lo Stato
esibì di fronte a tutti i suoi muscoli. Flaccidi e indolenti
in tutti gli altri campi, essi si mostrarono turgidi e implacabili nel
criminalizzare le frange della popolazione più deboli e dall’esistenza
più precaria, e nel mettere a punto politiche sempre più
dure e inflessibili, e spettacolari campagne anti-crimine, dirette precisamente
ai rifiuti umani di origine straniera ammassati nei sobborghi delle
città francesi.
Loïc
Wacquant sottolinea un paradosso:
20
Le stesse persone che ieri
hanno combattuto con evidente successo la battaglia per «meno
Stato», per togliere vincoli al capitale e al modo in cui esso
impiega la forza lavoro, oggi hanno l’ardire di richiedere «più
Stato» per arginare e occultare le conseguenze sociali deleterie
della deregolamentazione delle condizioni di impiego e del deterioramento
della protezione sociale per le fasce più basse dello spazio
sociale.
Naturalmente,
ciò è tutto meno che un paradosso. L’apparente mutamento
di atteggiamento è strettamente conforme alla logica del passaggio
dal riciclaggio allo smaltimento dei rifiuti umani. Tale metamorfosi
è stata abbastanza rivoluzionaria da richiedere una collaborazione
intensa e risoluta del potere statale, e lo Stato si è prestato.
Anzitutto, smantellando l’assicurazione collettiva contro la fuoriuscita
individuale (supposta temporanea) dal tran tran produttivo, cioè
quel genere di protezione che tanto la sinistra quanto la destra dello
schieramento politico hanno trovato ovviamente giusta fintanto che lo
scivolone (e quindi la collocazione tra i rifiuti della produzione)
era ritenuto transitorio ed era visto come uno stadio di riciclaggio
breve e propedeutico alla «riabilitazione» e al ritorno
al servizio attivo nella forza industriale; la popolarità bipartizan
di quelle tutele, tuttavia, si dileguò velocemente quando le
prospettive di recupero cominciarono a sembrare remote e incerte, e
le strutture di riciclaggio ordinarie si rivelarono sempre più
incapaci di accogliere tutti quelli che erano scivolati o erano rimasti
fuori fin dal principio. In secondo luogo, progettando e costruendo
nuovi e ben fortificati siti di smaltimento rifiuti, azione con cui
si era certi di procurarsi un appoggio popolare sempre crescente, a
mano a mano che svanivano le speranze di riuscire nell’opera di
riciclaggio, diventava inservibile il metodo tradizionale di smaltimento
dei rifiuti umani (cioè esportare la forza lavoro eccedente),
si diffondeva e si intensificava la diffidenza verso una incondizionata
«smaltibilità», di pari passo con l’orrore
evocato dalla vista dei «rifiuti umani». L’immediata
vicinanza di agglomerati di rifiuti umani, estesi e in crescita, destinati
probabilmente a durare parecchio o per sempre, richiede politiche segregazioniste
più rigorose e misure di sicurezza straordinarie, onde evitare
che siano messi a rischio la «salute della società»
e il «normale funzionamento» del sistema sociale. Le famose
funzioni parsoniane di «gestione della tensione» e «mantenimento
della struttura», che ogni sistema deve assolvere per poter sopravvivere,
oggigiorno si riducono quasi interamente alla separazione stagna dei
«rifiuti umani» dal resto della società, alla sospensione
(nei loro confronti) del quadro giuridico in cui si svolgono le attività
del resto della società, e alla «neutralizzazione»
dei rifiuti stessi. Le «scorie umane» non si possono più
dislocare in siti di smaltimento lontani e situati ben al di fuori dei
limiti della «vita normale». Occorre quindi che siano sigillati
in contenitori chiusi ermeticamente.
Il
sistema penale offre contenitori del genere. Secondo il puntuale e conciso
riassunto dell’attuale trasformazione redatto da David Garland,
le prigioni che – nell’epoca in cui la detenzione mirava
al recupero – «funzionavano come termine estremo del settore
correzionale», oggi sono «concepite in modo assai più
esplicito come un meccanismo di esclusione e di controllo». Sono
i muri, e non ciò che accade tra quei muri, a «esser visti
oggi come l’elemento più importante e più prezioso
dell’istituzione».
21
Nel migliore dei casi, l’intento di «riabilitare»,
di «riformare», di «rieducare» e di riportare
la pecorella smarrita all’ovile è soltanto un impegno verbale
di circostanza; e, quando viene pronunciato, gli fa da contraltare un
coro inferocito di ululati assetati di sangue, in cui i giornali popolari
più seguiti interpretano il ruolo del direttore, e i politici
di primo piano cantano le parti da solista. Lo scopo principale e forse
unico delle prigioni è dichiaratamente quello di smaltire i rifiuti
umani, e di farlo in modo definitivo e irreversibile. Scartati una volta,
scartati per sempre. Per un ex detenuto libero sulla parola o in libertà
vigilata, il rientro nella società è quasi impossibile,
e quello in carcere è quasi certo. Anziché facilitare
e guidare il percorso di reinserimento nella comunità dei detenuti
che hanno scontato il periodo di pena, la funzione degli assistenti
sociali che supervisionano chi usufruisce della sospensione condizionale
è quella di mantenere la comunità al riparo dal pericolo
costante momentaneamente a piede libero. «Gli interessi dei colpevoli
condannati, ammesso che siano presi in considerazione, sono ritenuti
fondamentalmente opposti a quelli del pubblico».
22
Anzi,
i rei tendono a essere visti come «intrinsecamente malvagi e depravati»,
non «sono come noi», le eventuali somiglianze sono puramente
accidentali…
Tra «noi» e «loro»
non possono esservi né reciproca comprensione, né canali
di intesa, né un’effettiva comunicazione […]
Che l’indole del reo
sia frutto di tare genetiche o dell’esser cresciuto in una cultura
antisociale, il risultato è il medesimo: una persona oltre i
limiti accettabili, incorreggibile ed estranea alla comunità
civile…
Coloro che non si inseriscono
o non sono capaci di adattarsi devono essere scomunicati e scacciati
con la forza.
23
In
breve, le prigioni, come tante altre istituzioni sociali, sono passate
dalla fase del riciclaggio a quella dello smaltimento dei rifiuti. La
nuova destinazione che è stata loro assegnata è sulla
prima linea nella battaglia per venire a capo della crisi in cui l’industria
di smaltimento dei rifiuti è caduta a seguito del trionfo planetario
della modernità e della recente saturazione del mondo. Tutte
le scorie sono potenzialmente tossiche, o almeno, essendo definite scorie,
rischiano di contaminare e turbare il corretto ordine delle cose. Se
il riciclaggio non è più redditizio e le possibilità
di attuarlo (almeno nell’odierno contesto) non sono più
realistiche, la maniera giusta di trattare i rifiuti è accelerarne
la degradazione e la decomposizione, mentre li si isola nel modo più
sicuro possibile dall’ambiente umano normale.
Il lavoro, l’assistenza
sociale e l’aiuto della famiglia erano i mezzi abituali tramite
cui gli ex galeotti venivano reintegrati nella società convenzionale.
Con il declino di queste risorse, la reclusione si è tramutata
in un bando a più lunga scadenza, da cui gli individui hanno
poche probabilità di ritornare a una libertà non sottoposta
a sorveglianza…
Oggi la prigione
è usata come una specie di riserva, una zona di quarantena nella
quale, in nome della sicurezza pubblica, vengono confinati individui
dichiarati pericolosi.
24
La
costruzione di nuove prigioni, l’estensione della gamma delle
trasgressioni punibili con la detenzione, la politica della «tolleranza
zero» e le condanne più dure e severe sono frammenti dell’opera
di riorganizzazione dell’industria di smaltimento dei rifiuti
(vacillante e sulla via del fallimento) su basi più consone alla
nuova condizione del mondo globalizzato.
*
In che misura
le nowhereville dei profughi sono «assaggi» del mondo
che verrà, e i loro detenuti sono gettati/spinti/costretti nel
ruolo di suoi esploratori pionieristici? A domande come queste si può
(se si può) rispondere solo con il senno di poi.
Per
esempio, possiamo ora constatare (con il beneficio dell’ottica
retrospettiva) che gli ebrei che abbandonarono i ghetti nel XIX secolo
furono i primi a sperimentare e intendere appieno l’incongruenza
del progetto di assimilazione e l’aporia dell’allora dominante
precetto dell’autoaffermazione, in seguito confermate da tutti
coloro che si inserivano nella modernità emergente. E cominciamo
ad accorgerci adesso – sempre con il beneficio dell’esperienza
– che l’intellighenzia multietnica postcoloniale (come Ralph
Singh in Mimic Men di Naipaul, il quale non poteva dimenticare
di aver offerto una mela al suo insegnante preferito, come ci si attendeva
che tutti i bambini inglesi bene educati facessero, benché sapesse
perfettamente che sull’isola caraibica dove si trovava la scuola
non ci fossero mele) fu la prima a saggiare e appurare le crepe micidiali,
l’incoerenza e la friabilità della dottrina della costruzione
dell’identità, che poco dopo sarebbero state sperimentate
dal resto degli abitanti del mondo liquido-moderno.
Verrà
forse un tempo in cui scopriremo il ruolo di avanguardia degli odierni
rifugiati nel sondare cosa significhi vivere in dei non-luoghi (nowherevilles)
e nel saggiare l’ostinata permanenza della transitorietà,
che potrebbero diventare l’habitat comune dei cittadini di questo
nostro pianeta globalizzato e gremito.
(traduzione dall’inglese di Massenzio
Taborelli)
Note
1
[I titoli dei paragrafi sono redazionali in quanto il testo inviatoci
dall’Autore è una composizione di parti di conferenze
non pubblicate o articoli già pubblicati in inglese negli ultimi
anni].
2
All’epoca della guerra del Golfo, «quando Saddam Hussein
scatenò i suoi elicotteri da combattimento sui curdi iracheni,
questi tentarono di fuggire a nord verso la Turchia, per le montagne,
ma i Turchi si rifiutarono di farli entrare. Li respinsero fisicamente
indietro agli attraversamenti del confine. Ho udito un funzionario
turco affermare che “noi odiamo questa gente. Sono dei fottuti
porci”. I curdi rimasero quindi bloccati sulle montagne a dieci
gradi sotto zero, provvisti spesso solo dei vestiti che indossavano
al momento della fuga. I bambini patirono più di tutti: dissenteria,
tifo, denutrizione […]». (Si veda
Maggie O’Kane, “The most pitiful sights I have ever seen”,
The Guardian, 14 febbraio 2003, pp. 6-11.
3
Garry Younge, “A world full of strangers”, Soundings,
inverno 2001-2, pp. 18-22.
4
L’originale «statelessness» è convenzionalmente
tradotto con «apolidia», ma qui (e nel seguito del testo)
l’autore utilizzerà stateless e statelessness
per indicare più in generale la condizione di chi è
(anche provvisoriamente) sprovvisto di una cittadinanza per così
dire esercitabile; o, meglio ancora, di chi – abbia o
meno cittadinanza formale – è privo della capacità
di far valere i diritti che essa teoricamente dovrebbe implicare,
ossia è una sorta di apolide «di fatto». (N.d.T.)
5
Giorgio Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino,
1996.
6
Edmund Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese, Cappelli,
Bologna, 1930.
7
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità,
Milano, 1967.
8
Si veda la nota del traduttore [dell’edizione in inglese, N.d.T.]:
Means without Ends; Notes on Politics, University of Minnesota
Press, 2000, p. 143.
9
Si veda Michel Agier, Aux bords du monde, les réfugiés,
Flammarion 2002, p.55-6.
14
Si veda Loïc Wacquant, “Urban outcasts: stigma and division
in the black American ghetto and the French urban periphery”,
International Journal of Urban and Regional Research, 3/1993,
pp.365-83; “A black city within the white; Revising America’s
black ghetto”, Black Renaissance Fall/Winter 1998, pp.142-51.
15
Gioco d’azzardo illegale basato sulla comparsa di combinazioni
di numeri in giornali. (N.d.T.)
16
Si veda Loïc Wacquant, “Deadly symbiosis: When ghetto and
prison meet and mesh”, Punishment and Society 1/2002,
pp.95-134.
17
Jerome G.Miller, Search and Destroy: African-American males in
the criminal justice system, Cambridge UP 1997, p.101.
18
Si veda “Une généalogie de l’insécurité
conteporaine”, intervista con Philippe Robert, Esprit December
2002, pp.35-58.
19
Si veda Hughes Lagrange & Thierry Pech, “Délinquance:
les rendez-vous de l’tat social”, Esprit December
2002, pp.71-85.
20
“Comment
la ‘tolérance zéro’ vint à l’Europe”,
p.40.
21
The Culture of Control, pp. 177-78.