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Simone Weil e la "percezione perfetta"
del mondo
di Federica Negri
L'estetica è generalmente considerata
come una disciplina particolare, mentre è la chiave delle verità soprannaturali.
(Q, III, 364) (1)
Universo, massa compatta di obbedienza
con punti luminosi.
Tutto è bello. (Q, III, 415)
L’itinerario filosofico di Simone Weil può
essere interamente interpretato come una lunga e approfondita indagine
sulla percezione; questo problema filosofico, si configura da subito
come basilare e si delinea come una ricerca sul significato della percezione,
delle sue modalità, delle sue caratteristiche e della sua possibilità
di approdare ad una forma perfetta.
Con questa breve indagine, vorrei tentare di far vedere
come la ricerca di una perfetta percezione del mondo sia per Simone
Weil così fondamentale da costituire realmente la spina dorsale
di tutta la sua elaborazione filosofica, dai primissimi scritti liceali
a quelli della maturità, passando attraverso gli scritti politici
degli anni Trenta, per terminare con le ultime riflessioni mistiche
dei Quaderni.
Per comprendere i termini della questione, penso che sia
utile richiamare brevemente il contesto filosofico nel quale prende
forma la domanda weiliana sulla percezione, ricordando l’importanza
dei "maestri di percezione", avuti da Simone Weil durante
gli anni della sua formazione, ossia Alain e, indirettamente, Jules
Lagneau.
Compito della filosofia è, in generale,
aiutare l’uomo a comprendere il mondo in cui si trova a vivere
dandogli, se possibile, alcune indicazioni sul modo per vivere meglio.
Da questa constatazione elementare ha origine il tentativo di spiegare
tutta la realtà, dal perché dell’esistenza al perché
di questo tipo di esistenza; in ogni caso, però, l’interrogazione
ha origine sempre da un uomo – o meglio una donna – di fronte
al mondo. La comprensione di tutto - anche delle cose difficili –
passa perciò inevitabilmente attraverso il corpo, perché
solo attraverso questo l’uomo sente il contatto del mondo.
Noi siamo ontologicamente determinati da un corpo e da
una mente razionale, non possiamo mai, in nessun caso, dimenticare questa
nostra costituzione perché è questa a determinare la possibilità
del nostro rapporto con il mondo.
Noi conosciamo, astraiamo e formiamo dei
concetti, con cui possiamo costituire in seguito metafisiche, partendo
dal contatto con il mondo, e non possiamo mai dimenticare questa genesi
"sporca", ossia l’origine sensibile e corporea della
conoscenza. La mente dipende strutturalmente dal corpo nel suo contatto
con l’esterno, non può mai dimenticarsene, "L’anima
è legata al corpo; e mediante il corpo, a tutto l’universo."(3)
Il lavoro filosofico di Simone Weil, sin
dai primissimi scritti degli anni del liceo, tenta di indagare in profondità
questa interdipendenza tra mente e corpo nella percezione partendo,
secondo me, da una interpretazione molto particolare delle implicazioni
delle due parti nella conoscenza. Ritengo che la soluzione adottata
da Weil ricalchi, in un certo senso, la costruzione spinoziana di un
parallelismo tra le idee e le cose, tra la mente e il corpo.
Un corpo umano è materia pesante,
materia che si può illuminare, opaca alla luce, materia viva,
materia unita ad un pensiero per mezzo di un legame misterioso ed
in tal modo materia che partecipa a differenti equilibri. (4)
Lo scopo della ricerca è sostanzialmente cartesiano,
tuttavia la forma adottata è assolutamente spinoziana ed implica
un maggiore peso della materia all’interno della problematica
filosofica.
Ogni piano è caratterizzato da una propria norma
di conoscenza pur dipendendo sempre dall’altro per completarsi;
il problema fondamentale è non confondere mai i due piani e non
pensare di trovare la razionalità nel sensibile e viceversa,
perché altrimenti si cadrebbe nel gioco senza fine dell’immaginazione.
L’immaginazione è il peggior
errore nel quale può incappare l’uomo, perchè a
stento, spesso, la si distingue dalla reale conoscenza;
per iniziare a capire di cosa si tratta, potremmo definire l’immaginazione
come un "trasferimento nell’oggetto di ciò che ha
luogo nel corpo del soggetto". (5)
I brani in cui Weil analizza la problematica dell’immaginazione
sono talmente numerosi da rendere immediatamente chiara il fatto che
si tratta un nodo fondamentale di tutta la sua filosofia. Se può
sembrare strana la presenza dell’immaginazione in una filosofia
che mira, prima di tutto, all’eliminazione degli errori della
percezione come preliminare fondamentale alla ricerca, bisogna tener
presente che le immagini non sono solo il risvolto negativo del lavoro
della percezione, ma indicheranno più avanti con molta chiarezza
la forma più pura di percezione, quella dei segni divini.
Per iniziare questa analisi dell’immaginazione,
farò riferimento a uno dei primi scritti, Imagination et perception,
del 1925 che Weil compose durante il liceo come dissertazione sulla
percezione proposta, come ogni anno, dal suo professor Alain. Questo
testo è uno dei tanti esempi del fatto che, da subito, per Weil
è ben definita la dinamica immaginazione-percezione.
Quand nous voyons le monde, l’image
que nous en avons ne le reflète donc pas seulement lui; il
nous reflète nous aussi. […] Le rêve projette
devant nous comme une réalité extérieure ce
qu’il y a de plus nous-même en nous, ce qu’il
y a de profond et qui, quand nous sommes éveillés,
se heurte à la dure surface des choses: c’est là
la jouissance, dit-on, que recherchent les fumeurs d’opium.
C’est de ce mariage entre le monde et nous que résulte
la perception.
Mais comment? Considérons de nouveau
l’exemple du mirage. Nous avons deux réalités
en présence, dont la rencontre formera le mirage: d’un
côté le voyageur qui a soif, c’est-à-dire
qui désire de l’eau. Comme tous ceux qui désirent,
son corps essaye de se soulager en faisant les mêmes mouvements
qu’il ferait si l’objet de son désir était
présent; il prendra la même attitude que s’il
voyait devant lui une belle nappe d’eau claire. Ensuite apparaîtra
l’image qui, pensons-nous, est normalement la cause de cette
attitude, et qui en est cette fois l’effet. C’est ce
que nous appelons l’imagination. Mais
cette imagination sans fondement dans la réalité joue
à vide: elle reflète le désir, puisque la reflète
comme deux glaces qui se renvoient l’une à l’autre
la même image: c’est une consolation vaine, vide de
tant contenu. […] Nous n’avons pas conscience des choses,
mais de nos attitudes en face des choses, contraints par elles.
Mais l’imagination supplée à ce que le monde
extérieur a forcément d’insuffisant pour nous,
puisqu’il nous est extérieur, et réalise ainsi
un compromis que nous appelons perception. (6)
L’analisi di Simone Weil – ancora evidentemente
influenzata dalla filosofia di Alain – mostra tuttavia alcuni
elementi che diventeranno poi tipici dell’elaborazione più
matura. Prima di tutto, Weil ritrova l’origine dell’errore
percettivo che scatena l’immaginazione nella stessa costituzione
umana, ossia nel fatto che il mondo essendo a noi esterno è,
per forza di cose, imperfettamente conoscibile, è altro da
noi; questa alterità non è facilmente accettata dall’uomo,
che tenta anzi di annullarla sovrapponendogli i propri desideri e bisogni.
Possiamo già riconoscere nell’immaginazione la caratteristica
più tipica che è proprio la tendenza a colmare il vuoto,
che la rende pericolosa, prima di tutto, per una corretta percezione
e, più avanti, nella ricerca di Dio. L’origine dell’immaginazione
erronea si può ritrovare, quindi, nel corpo umano che –
spinto da proprie necessità – agisce spesso sovrapponendosi
alla razionalità. Questa spiegazione della percezione, mi sembra
illustrare abbastanza chiaramente gli elementi spinoziani operanti in
Weil, che sono molto evidenti nella prima produzione e più sfumati,
ma ugualmente fondamentali, più avanti.
Il corpo e la mente sono studiati da Weil come entità
autonome, regolate da propri ritmi ed esigenze, con la propensione a
credersi unici, tentando spesso per questo motivo di assolutizzare le
proprie funzioni causando l’errore. Per evitare di ingannarsi
è, perciò, necessario mantenere un parallelismo funzionale
tra esigenze del corpo e della mente, considerandole parimenti importanti
nel gioco percettivo ma non sostituibili.
Una volta chiarito il fattore che determina la possibilità
d’errore non si è tuttavia ancora assicurati sull’efficacia
del nostro sforzo di percezione. Come si può essere sicuri di
vedere realmente il mondo? Quale requisito ci assicura di essere sulla
buona strada?
Simone Weil afferma che è la necessità
a renderci sicuri del contatto reale con il mondo; la necessità
è "la dura superficie delle cose" contro la quale urtiamo
violentemente quando ci accorgiamo della realtà, in una parola,
è la percezione dell’alterità del mondo.
Sulla problematica della necessità Weil si interrogherà
a lungo, attribuendogli sempre una collocazione fondamentale nel suo
percorso filosofico sino alla fine.
Si può dire che Simone Weil cercherà la
percezione pura attraverso le diverse esperienze, che hanno arricchito
in maniera così peculiare la sua esistenza: tramite l’insegnamento
al liceo, il lavoro in fabbrica o attraverso la breve ma decisiva esperienza
nella guerra civile spagnola.
Weil ritiene che la comprensione di qualsiasi avvenimento
debba essere una conquista svolta in prima persona perché, essendo
basato sulla percezione, dipende essenzialmente dal corpo e dalla mente,
e non può che essere frutto di una esperienza singolare. L’esperienza
del mondo deve passare attraverso il corpo della filosofa, deve filtrarvi
completamente attraverso per essere assimilata e compresa.
Lo scontro con la necessità pone Weil di fronte
al mondo reale e costituisce la stella polare che guida la sua ricerca;
per questo motivo, l’esercizio di percezione sarà sempre
un preliminare atto di pulizia filosofica irrinunciabile.
Affinché noi, intelligenze finite, limitate
da un corpo, possiamo dominare la materia illimitata, è necessario
che questa sia sottomessa al limite. Se non ci fossero invarianti,
saremmo interamente schiavi del tempo. Non avremmo né ricordi
né progetti.
(Ritornare all’analisi della percezione
secondo Lagneau e Alain. Immergersi per una volta a fondo in questa
purificazione). (Q, II, 149)
Ciò che nella percezione è reale
e la distingue dal sogno, non sono le sensazioni, ma la necessità
che vi è presente. (Q, III, 80)
La necessità che limita l’uomo nel suo cammino
di conoscenza, lo rende perciò al contempo sicuro della via intrapresa;
ma ciò che egli conosce non è molto, nel senso che rimane
e rimarrà sempre un fondo inconoscibile nel mondo, qualcosa
d’altro.
Nel momento in cui Weil chiede di conoscere questa alterità,
la domanda di verità che sorregge la sua ricerca diventa assoluta
e capovolge ogni valorizzazione attuata sino a quel momento. Ciò
che veramente ha valore non è questo mondo che non può
spiegarsi da sé completamente, ma è l’altro,
ossia Dio, dal quale il primo deriva ma da cui differisce completamente,
proprio per la mancanza di autogiustificazione. Il mondo da centro della
conoscenza diventa punto di partenza di una ricerca senza fine che dovrebbe
portare Weil a scoprire ciò che si nasconde alla percezione del
mondo stesso ma che lo fonda.
È a questo punto che le premesse filosofiche del
cammino weiliano chiariscono la paradossalità della situazione:
da una parte, per Weil la percezione conoscitiva dipende interamente
dalla mente e dal corpo umano e si basa, in maniera imprescindibile,
sul contatto con la materia; dall’altra, Weil stessa ci dice che
la conoscenza deve spingersi oltre il mondo, verso ciò che non
è materia. In pratica, si tratta di arrivare alla percezione
della purezza attraverso l’impurità della materia, e per
questo motivo si dovrà sempre essere attenti a "salvare
i fenomeni".
Questa impresa sembra destinata irrimediabilmente allo
scacco, ma per Weil proprio l’apparente impossibilità la
rende non solo praticabile ma, senza dubbio, l’unica via possibile
di ricerca. Ho già sottolineato, infatti, come per Simone Weil
sia la necessità a distinguere nettamente la percezione dal sonno
dell’immaginario; ciò che si percepisce come necessità
è, per essere più precisi, la contraddizione del reale,
ossia la presenza di elementi contrastanti che non si lasciano ricondurre
pacificamente gli uni agli altri.
Le contraddizioni nelle quali lo spirito si imbatte
uniche realtà, criterio del reale. Non c’è contraddizione
nell’immaginario. La contraddizione è la prova della
necessità.
Applicazione a tutti gli ambiti. (Q,
II, 288-289)
E ancora
La contraddizione è legittima quando
la soppressione di un termine porta a distruggere o a svuotare della
sua sostanza l’altro termine. La necessità è il
criterio supremo in ogni logica. Soltanto la necessità mette
lo spirito a contatto con la verità. (Q, IV, 156)
La necessità che sperimentiamo a contatto con la
contraddizione è la verità perché è altro
dal mondo, non si lascia trasformare completamente nella nostra razionalità,
non è totalmente assimilabile. Si tratta, infatti, di una traccia
lasciata da Dio, di uno spiraglio che, se correttamente interpretato,
permette all’uomo di cambiare il suo modo di leggere l’esperienza.
La contraddizione provata è reale e sperimentabile
perché propria della condizione umana e sinonimo di una insufficienza
difficile da superare, quella del punto di vista nel quale siamo ontologicamente
posizionati.
[…] Il fatto è che ci sono due ragioni.
C’è una ragione soprannaturale. È la
conoscenza, gnosi, γνωσις,
di cui il Cristo è la chiave, la conoscenza della Verità
il cui soffio è inviato dal Padre.
Ciò che è contraddittorio per la ragione
naturale non lo è per quella soprannaturale, ma questa dispone
solo del linguaggio dell’altra. Tuttavia la logica della ragione
soprannaturale è più rigorosa di quella naturale.
(Q, IV, 134)
Una volta scoperta questa doppia strada verso il mondo,
il tentativo di Simone Weil è quello di ripartire ancora una
volta dall’esperienza per essere sicura di non cadere preda dell’immaginazione,
e cercare così la "lettura delle letture", provare
cioè ad eliminare il punto di vista unico attraverso una attenta
raccolta dei molteplici punti di vista che arricchiscono la vita umana.
In questo senso, la lettura del mondo deve essere sempre più
una non-lettura che ricerca la Verità non legandosi a
qualche presunta verità particolare, ma lascia parlare i molti
frammenti di verità che si possono ritrovare nel mondo.
Le riflessioni di Weil sulla lettura – ora raccolte
in appendice al IV volume dei Quaderni – sono straordinariamente
illuminanti sulla centralità di questa problematica e collocano
la nozione di lettura al centro dell’itinerario filosofico
della percezione, ridisegnandone le coordinate in funzione trascendentale.
Il contesto e la ricerca sono talmente cambiati, rispetto ai primi scritti
filosofici, da poter indurre erroneamente a parlare di una svolta nel
pensiero di Simone Weil; in realtà, secondo me, Weil cerca ancora
di percepire con corpo e mente il mondo e di comprenderlo. A riprova
di questa continuità vi sono moltissimi dettagli, come la riproposizione
dell’analisi classica del cubo – ereditata da Lagneau e
Alain – e quella del bastone da cieco di Cartesio. Le stesse immagini
per indagare perché solo dai fenomeni di questo mondo possiamo
iniziare il nostro cammino.
Perché il soprannaturale è nascosto nel
visibile
Bello, presenza manifesta del reale. Di una realtà trascendente.
Ma questo è implicito. La realtà non è che
trascendente. Perché ci è data solo l’apparenza.
Τó óν.
(Cubo in senso trascendente. E vi sono cubi di cubi).
(Q, II, 324)
Weil vuole imparare a leggere in altro modo ciò
che si percepisce tramite i sensi, il mondo.
Non si scelgono le sensazioni, ma, in larga misura,
si sceglie ciò che si sente attraverso di esse; non istantaneamente,
ma mediante un apprendistato. Una francese che riceve una cattiva
notizia da una lettura in inglese, fremerà, piangerà,
sverrà se conosce l’inglese; altrimenti no. Così
mediante l’apprendistato si muta il potere che le sensazioni
hanno di modificarci. Il mondo è un testo a più significati,
e si passa da un significato a un altro mediante un lavoro; un lavoro
a cui il corpo prende sempre parte, come, quando si impara l’alfabeto
di una lingua straniera, tale alfabeto deve penetrare nella mano
a forza di tracciare le lettere. Altrimenti ogni mutamento nel modo
di pensare è illusorio. (Q, IV, 405-406)
La lettura è frutto perciò di una lunga
e dura educazione, che è, prima di tutto, un lavoro svolto grazie
all’apporto fondamentale del corpo.
Si impara a leggere i molti significati del mondo e vi si distinguono
alcuni elementi privilegiati i simboli che Weil indica come μεταξú,
intermediari privilegiati della comprensione. Il mondo si rivela ad
una attenta lettura disseminato di simboli che servono a distogliere
il nostro sguardo dal reale e ad indirizzarlo verso Dio. Simbolismo
e necessità del mondo sono complementari e non possono essere
compresi in maniera indipendente l’uno dall’altro.
Due sono i simboli privilegiati da Weil nella sua ricerca,
la bellezza e il malheur, la sventura; questi due simboli implicano
delle esperienze che hanno molti lati in comune, perché sono
in grado, più di molte altre, di volgere immediatamente l’attenzione
dell’uomo all’altro da sé.
Tutte le volte che si riflette sul bello, si è
arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto
al riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente,
perché questo studio deve essere cominciato a partire da
Dio.
Il bello consiste in una disposizione provvidenziale
grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute,
richiamano in silenzio la nostra attenzione.
La bellezza è veramente, come dice Platone,
una incarnazione di Dio.
La bellezza del mondo non è distinta
dalla realtà del mondo. (Q, IV, 371)
La bellezza vista da Simone Weil non è diversa
dalla realtà di questo mondo; non c’è bisogno di
andare in un altro luogo per trovare la chiave della salvezza, basta
saper leggere i fenomeni per scorgervi i simboli di cui sono intessuti.
Per spiegare la qualità dell’attenzione necessaria a questo
cambiamento, Weil ricorre spesso al mito platonico della caverna, che
mostra anche l’ineliminabile sventura e sofferenza che si accompagna
allo strappo verso la Verità.
In fondo vi è solo una via di salvezza in Platone;
i diversi dialoghi indicano parti diverse del cammino. La Repubblica
non dice a cosa è dovuta la prima violenza sul prigioniero
incatenato tale da strappare le catene e trascinare lo sventurato
a forza. Occorre cercare nel Fedro. È la bellezza,
per mezzo dell’amore. (Ogni valore che appare nel mondo
sensibile è bellezza). Una volta che il ricordo di Dio è
entrato nell’anima, il Fedro parla di studi, ma non
dice quali. Vanno cercati nella Repubblica. Questa non dice
cosa viene dopo le scienze. Il Simposio e il Filebo
lo indicano. È la contemplazione della bellezza nell’ordine
del mondo concepita a priori. Quindi viene la bellezza come
attributo di Dio, e quindi il Bene. Poi il ritorno nella caverna;
è il Timeo.
Il prigioniero della caverna costretto con la
violenza a volgersi, a camminare verso l’orifizio, e che fugge
per ritornare alla sua parete, e che di nuovo è tirato con
violenza – è Core nell’inno a Demetra. (Q,
III, 39-40)
Il dolore e la bellezza riescono a condurci fuori dalla
caverna verso la vera Luce; ma questa uscita altro non è che
l’acquisizione della capacità di leggere la molteplicità
di significati della simbologia del reale.
Tralasciando, solo per brevità, una spiegazione
dell’uso rivoluzionario fatto da Weil delle immagini in questa
ricerca della percezione perfetta, voglio tuttavia solo sottolineare
un fatto fondamentale: Simone Weil non elimina affatto tutte le immagini
perché non tutte sono frutto dell’immaginazione
umana; alcune, come abbiamo visto, sono quei simboli del soprannaturale,
che sono le tracce di Dio. Dopo averle riconosciute grazie ad una attenta
lettura Weil le carica di una potenza infinita, ne amplifica la
carica semantica rendendole l’unico elemento di purezza e verità
del mondo.
É il συμβολον
del Simposio, la scarpetta di vaio di Cenerentola, l’anello
della principessa nella fiaba del calzolaio. Dio, quando è
venuto a trovarci ed è sparito, ci ha lasciato qualcosa di
se stesso. Altrimenti la ricerca sarebbe vana. (Q, IV, 318)
Bellezza e dolore si sovrappongono e si confondono.
Nel bello – per esempio il mare, il cielo –
c’è qualcosa d’irriducibile. Come
nel dolore fisico. Lo stesso irriducibile. Impenetrabile per l’intelligenza.
Esistenza di cosa altra da me.
Affinità del bello e del dolore.(Q,
II, 262)
Gli esempi e le citazioni potrebbero continuare a lungo,
ma penso che questi siano già sufficienti per inquadrare l’importanza
di questa problematica; imparare a percepire realmente la bellezza e
il dolore significa comprenderne il valore lacerante e conservarlo coraggiosamente
come tale. Significa, ancora una volta, percepire la contraddittorietà
del mondo senza cercare di sovrapporre falsi significati. Significa
fare vuoto per lasciar essere il simbolo. Sperimentare la contraddizione
e percepirla continuamente ci garantisce di essere sulla giusta strada
e di non aver falsato la pienezza del mondo con una misera interpretazione
parziale.
È il lavoro percettivo a caratterizzare lo sforzo
filosofico di Simone Weil, anche nel momento in cui il suo scopo è
ormai quello di non essere più una creatura per arrivare finalmente
alla Verità.
É necessario far uso della sofferenza in quanto
contraddizione provata. Quest’uso la rende mediatrice, e quindi
redentrice. É necessario usarne in quanto smembramento.
Il bello è l’apparenza manifesta del reale.
Il reale è essenzialmente la contraddizione. Perché
il reale è l’ostacolo, e l’ostacolo di un essere
pensante è la contraddizione. In matematica il bello risiede
nella contraddizione. L’incommensurabilità, λογοι
αλογοι, è stata
il primo risplendere del bello in matematica.
Il reale nella percezione non è lo sforzo
(Maine de Biran) ma la contraddizione provata mediante il lavoro.
(Q, III, 43)
La necessità di strapparci da questo mondo e tornare
a Dio de-creandoci deriva, per Weil, dall’impossibilità
di redenzione del mondo da parte di Dio; Dio non tornerà mai
nella storia, non può farlo perché dal momento della creazione
si è condannato all’esilio, si è ritirato in sé
escludendo ogni intervento nella realtà.
Dio ha abdicato alla sua onnipotenza divina e si è
svuotato. Abdicando alla nostra piccola potenza umana diventiamo,
nel vuoto, uguali a Dio.
Il Verbo divino era uguale a Dio nella divinità.
Si è svuotato ed è diventato schiavo. Noi possiamo
diventare uguali al Verbo divino nel vuoto e nella schiavitù.
(Q, IV, 350)
Dio crea il mondo autolimitandosi, si autoesclude dalla
sua creatura per lasciarla libera e non interviene più; anche
i simboli non sono perciò altro che segni di un’assenza
incolmabile, delle porte sul divino. La salvezza dell’uomo
dipende, perciò, totalmente e unicamente dalla sua corretta percezione
del mondo, alla ricerca dei simboli che lo indirizzano a Dio.
Questo è il limes della filosofia weiliana,
la soglia di quella porta che lei stessa non ha voluto storicamente
valicare, escludendo la reincarnazione di Cristo e la funzione salvifica
della Chiesa storica, ben sapendo quale errore enorme sarebbe stato
colmare con una scelta lo spazio vuoto dell’attesa. Sarebbe stato
come sigillare per sempre una porta.
Quello che mi interessava mostrare attraverso questa breve
riflessione sulla filosofia weiliana – pur con tutti i limiti
dovuti alla brevità della trattazione – era come l’intera
speculazione filosofica di Simone Weil sia interpretabile in maniera
estremamente coerente ed organica, proprio grazie al fil rouge
della ricerca di una corretta percezione del mondo; tutta la sua filosofia
cresce radicandosi su questa esigenza e la mantiene sino alla fine come
insostituibile cartina di tornasole.
Non esiste una svolta mistica nel senso
di un rinnegamento delle precedenti posizioni, perché Simone
Weil è persuasa che il mondo in sé sia misticamente pervaso
di simboli e vuole, perciò, portarsi dietro tutto il suo pesante
fardello di carne per arrivare a percepire la presenza dell’assenza
di Dio, decreandosi finalmente per tornare in Lui.
Note
(1) Fonte privilegiata delle
mie citazioni è l'opera di Simone Weil, in particolare, spesso farò
riferimento ai Quaderni; per questo motivo, ritengo utile far uso di
sigle. Indicherò con Q, le citazioni tratte dai Quaderni, seguite dal
numero del volume in numeri romani. Simone WEIL, Quaderni, I, tr. italiana
a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1982; Quaderni, II, tr. italiana
a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1985; Quaderni, III,
tr. italiana a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1988; Quaderni,
IV, tr. italiana a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993.
(2)
S. WEIL, Lezioni di filosofia 1933- 1934, tr. it. di L. Nocentini, a
cura di M. C. Sala, con una Nota di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1999,
p. 19.
(3)
S. WEIL, Œuvres complètes, edizione critica in corso di pubblicazione
sotto la direzione di A. Devaux e F. de Lussy: I, Premiers écrits philosophiques,
a cura di G. Kahn e R. Kühn, Gallimard, Paris 1988, p. 92.
(4) S. WEIL, Sulla scienza,
Borla, Roma 1998, p. 218.
(5) S. WEIL, Lezioni di filosofia
1933- 1934, cit., p. 30.
(6) S. WEIL, Œuvres complètes,
cit., I, p. 298.
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