Mondializzazione e
privazione:
una riflessione sul mondo tra Heidegger e Marx
di Bruno Moroncini
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Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
Giuseppe Ungaretti
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1 ) Vorrei cominciare con una considerazione
non filosofica ma di tipo storico e partire perciò dal testo di
un grande storico inglese, Arnold Toynbee, che spiazza o potrebbe
spiazzare la convinzione, in qualche modo inconsapevole, della totale
identificazione dell’Occidente col mondo, ossia di un mondo unico che
coincide con ciò che l’Occidente ritiene essere il mondo o
riesce a dire del mondo. Il breve intervento di questo storico inglese
si intitola Il mondo e l’Occidente, The world and the West
(1).
La tesi di Toynbee è che il mondo di cui dobbiamo parlare non
è l’Occidente ma è esattamente il resto del mondo.
L’Occidente non è nemmeno una parte del mondo, perché il
mondo in senso stretto è tutto ciò che non è
l’Occidente. L’osservazione di partenza di questo testo di Toynbee
è che "l’Occidente non è mai stata l’unica parte
importante del mondo", né "il solo attore della storia moderna e
questo nemmeno all’apogeo della sua potenza"(2),
apogeo che nel 1952 secondo Toymbee è forse già passato.
Il rapporto tra l’Occidente e il mondo è sempre stato un
rapporto conflittuale, dal momento che il mondo ha sempre dovuto subire
l’aggressione da parte dell’Occidente. Questo è soprattutto
chiaro nella storia moderna, perché l’Occidente, come sappiamo,
ha in vario modo, portando la guerra e facendo pressioni di altro
genere, costretto il mondo ad aprirsi all’Occidente, nella forma, ad
es., più ovvia e immediata di nuovo mercato da occupare. Dunque
il mondo ha sempre subito questa irruzione violenta da parte
dell’Occidente, che appunto è penetrato nel resto del mondo, che
aveva invece la propria tradizione, i propri stili di vita, le proprie
credenze, i propri sistemi religiosi e che non aveva vissuto o subito
quello che noi chiamiamo invece la "modernizzazione", tratto peculiare
del solo Occidente. Il mondo, dice Toynbee, si è difeso in
più modi di fronte a questo intervento così violento da
parte dell’Occidente e la ricostruzione che egli fa delle varie
modalità di incontro-scontro tra l’Occidente, da un lato, e il
mondo islamico e il mondo dell’estremo oriente, cioè il
Giappone, la Russia e l’India, dall’altro, serve ad elaborare quella
che lui defini-sce come una specie di legge della psicologia storica.
La tesi è la seguente: quando una cultura come quella
occidentale tenta di invadere una parte del mondo o un altro mondo con
un’invasione strettamente culturale, per es. col tentativo di
conversione di tipo religioso, in genere il mondo resiste, e anche
duramente, all’invasione che l’Occidente ha tentato. Quando invece
l’Occidente ha invaso il mondo attraverso le innovazioni tecnologiche e
fondamentalmente le innovazioni di tipo bellico, il resto del mondo si
è lasciato invadere con maggiore facilità, proprio nella
convinzione che si potesse separare l’importazione delle tecniche
dall’importazione invece dei modelli culturali e delle forme e degli
stili di vita.
Pensate per esempio al fatto che Bush vuole
importare la democrazia nel mondo islamico: ecco, questo è un
tipo di invasione che per Toynbee produrrebbe resistenza, mentre invece
è più facile che una cultura passi in un altro mondo in
maniera surrettizia e lo invada senza ricorrere a particolari forme di
violenza, proprio se in primo luogo entrano le innovazioni
tecnologiche. Questo processo è stato oltretutto favorito dal
fatto che spesso il mondo ha ritenuto che, per la sua salvaguardia, era
necessario impadronirsi delle tecniche occidentali e dunque, con molta
facilità, importava innovazioni tecnologiche, tipi di armi
diverse senza rendersi conto che, in realtà, l’uso stesso o
comunque la possibilità di usare queste tecniche implicava
necessariamente l’acquisizione anche delle forme culturali occidentali.
In tal modo questa invasione, inizialmente più dura, in
realtà era un’invasione, come dire, morbida perché il
mondo non resisteva davanti all’effetto intrinseco dell’importazione
delle tecniche, per cui adottando queste ultime finiva per adottarne
anche la cultura corrispondente. Tutto questo, comunque, ha sempre
comportato una difficoltà nei rapporti fra l’Occidente e il
mondo che, in fondo, è ancora, nonostante questo testo sia stato
scritto nel ’52, quello con cui abbiamo a che fare oggi. Tuttavia,
oltre ad accusare l’Occidente di sfruttamento attraverso i fenomeni
della colonizzazione o i fenomeni di aggressione e di intervento
violento sul mondo, va anche detto però che probabilmente
c’è una responsabilità delle élites del mondo che
non sono mai riuscite nell’unica operazione che si richiedeva loro, e
cioè quella di riuscire a coniugare la modernizzazione che
l’Occidente portava, in forma quasi sempre aggressiva e violenta, e le
proprie forme di vita, i propri sistemi culturali, modernizzandoli
senza tuttavia perderli
(3).
L’esempio dell’Islam ovviamente è attualmente il più
facile e anche quello che rende più complicata questa
operazione, ma io penso per esempio all’India e al tentativo di Ghandi
di riuscire esattamente a fare questa operazione e cioè di
salvaguardare una tradizione propria del mondo indiano e
contemporaneamente portare l’India nella modernità. È
probabile che questo tentativo non sia sempre riuscito. C’è
un’osservazione di Toynbee che io ritengo estremamente interessante e
che riguarda le élites che molto spesso poi sono – e questo
è un altro problema di cui parleremo fra un attimo –
élites di stampo e cultura occidentali. Gran parte delle
élites che hanno condotto le lotte di decolonizzazione o anche
di liberazione si erano formate in molti casi nelle università
europee ed in paesi che erano i paesi colonizzatori. Queste
élites, una volta tornate nei propri paesi, hanno tentato di
utilizzare paradossalmente contro l’Occidente esattamente quello che
avevano appreso dalla cultura occidentale. Queste élites, va
detto, quasi sempre hanno fallito. Credo che questo si possa
riconoscere. Certo anche per colpa del fatto che l’Occidente, pur
dovendo a un certo punto riconoscere l’impossibilità di
proseguire nelle forme tradizionali della colonizzazione, molto spesso
non ha voluto però mollare effettivamente la presa e di
conseguenza attraverso altri mezzi ha continuato a esercitare una forma
di dominio su questi paesi. Ma è anche vero che c’è
probabilmente un limite di queste stesse élites. Da questo punto
di vista mi sembra importante una delle osservazioni che Toynbee fa
riguardo all’India: "L’urto dell’Occidente (nel caso per esempio
dell’India) ha portato con sé un aumento progressivo di
provviste alimentari grazie all’irrigazione, all’introduzione di nuove
coltivazioni e al miglioramento dei metodi agrari, tutte metodologie e
tecniche ovviamente di ispirazione occidentale; e finora in tali paesi
quest’aumento di disponibilità alimentari è andato non
già ad elevare il tenore di vita di una popolazione stazionaria
o crescente in modo graduale, ma a mantenere la più numerosa
popolazione possibile a livello antico, che era ed è appena
più su del punto zero. La morte per inedia"
(4).
Credo che questa sia una valutazione storico-politica sugli errori e le
colpe delle élites che hanno governato gran parte dei paesi che
noi chiamiamo oggi del Terzo o Quarto mondo, che, in fin dei conti,
hanno pure beneficiato, basti pensare al petrolio, di una
quantità di profitti che venivano da queste ricchezze oppure
dagli usi di metodologie e tecniche importate dall’Occidente senza che
ciò sia servito ad innescare un processo di accumulazione
capitalistica, come nel caso della Europa moderna, che potesse essere
(ecco la scommessa di cui parlavo prima) indirizzato in un altro modo
proprio dall’uso creativo ed originale delle specificità
culturali di queste parti del mondo. In realtà è come se
l’opzione fosse secca: o si diventa come l’Occidente o si è
destinati, paradossalmente, ad un aumento del tasso di povertà e
ad un peggioramento progressivo delle proprie condizioni complessive
pur godendo di una situazione economica e sociale non molto diversa da
quella precedente all’invasione occidentale; è un’illusione
credere di poter conservare il proprio livello di vita, alto forse se
paragonato alle esigenze, di fronte al cambiamento indotto
dall’esterno: l’effetto vero è la regressione. E, infatti,
Toynbee conclude l’osservazione precedente dicendo che "siccome gli
aumenti progressivi di produttività dovranno prima o poi
risolversi in margini di rendimento decrescenti il tenore di vita di
questa popolazione inflazionata sembra destinato a calare e non esiste
alcun margine fra il tenore attuale e il puro e semplice disastro in
grande scala": tesi, che enunciata nel ’52, mostra una bella
capacità di preveggenza su quello che è accaduto negli
anni successivi.
Ora, il punto importante sul quale io volevo
soffermarmi rispetto a questo rapporto strano, anche paradossale se
volete, fra l’Occidente e il mondo – rapporto che spiazza la nostra
immediata convinzione che il mondo sia uno e che il mondo sia
l’Occidente e che l’Occidente metta la propria impronta sul mondo per
cui l’espansione del mondo coincide con quella dell’Occidente –
è che sembra che Toynbee introduca una specie di spaccatura, una
linea di frattura all’interno di questa totalità (
totalità solo apparente come avrebbe detto Benjamin) fra
l’Occidente e il mondo. Toynbee – stiamo parlando del 1952 – da
intellettuale liberal-borghese come probabilmente è, è
molto preoccu-pato che questa situazione appena descritta abbia come
unico sbocco quello di una vittoria su larga scala del comunismo,
cioè che il comunismo, quello sovie-tico o quello che aveva
vinto in Cina nel ’49, diventi la soluzione che il mondo userà
contro l’Occidente; e il comunismo è d’altronde, dice
esplicitamente Toynbee, un’eresia occidentale. Cioè siamo di
nuovo di fronte a quella strana situazione per cui l’Occidente, nel
momento stesso in cui invadeva e violentava il mondo, offriva tuttavia
contemporaneamente al mondo la possibilità di liberarsi
dell’Occidente e di prendere una direzione storica che non fosse quella
propria dell’Occidente. L’Occidente aveva sviluppato al proprio interno
anche una forma di autocritica dell’Occidente ed il mondo avrebbe
potuto – proprio facendo leva su questa eresia occidentale – rovesciare
il rapporto di forze con l’Occidente. Ovviamente le cose sono andate
(forse in una maniera che Toynbee, in qualche modo, si augurava)
diversamente perché questa ipotesi, almeno nella modalità
storica con la quale si era data e con cui Toynbee ne poteva parlare
nel ’52, come sappiamo, a un certo punto è semplicemente
collassata e dunque per il mondo io ho l’impressione che le cose si
stiano mettendo in termini che sono ancora più complicati di
quanto Toynbee potesse pensare nel ’52, perché allora almeno
c’erano l’eresia occidentale e il marxismo e il comunismo, anche nel
modo con cui si era realizzato poteva essere un’arma in mano al mondo
per riuscire a venir fuori da questa logica conflittuale fra il mondo e
l’Occidente. Oggi il mondo non sembra avere a disposizione nemmeno
questo, nel bene e nel male.
Questa premessa in realtà è
una premessa che mi è sembrata importante fare perché
chiuderò questo mio intervento con un tentativo di lettura del
concetto di mondializzazione il quale altro non è che è
il modo con cui si è parlato in anni precedenti al nostro della
globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno recente e
fondamentalmente sta ad indicare, come sapete, l’abolizione delle
frontiere nell’ambito del commercio mondiale, la possibilità
anche di dislocazione dei luoghi di produzione da un paese all’altro e
dunque il sostanziale passaggio ad una interdipendenza mondiale, per
quanto questa interdipendenza mondiale non sia mai del tutto radicale
per cui assistiamo a varie forme di chiusura locale e ai tentativi da
parte degli stati-nazione di opporsi a questo movimento della
globalizzazione. In questo senso una delle questioni che viene
affrontata in molti ambiti, sia filosofici, per esempio da un filosofo
francese come Jean-Luc Nancy, sia economici, sociologici e politici,
è se quello che noi chiamiamo da alcuni anni la globalizzazione
non sia in realtà quello che era stato compreso dagli storici e
dagli economisti del passato, e infine dallo stesso Marx, come il
fenomeno della mondializzazione, cioè della formazione del
mercato mondiale. Allora il problema della formazione del mercato
mondiale è anche il problema se questo mercato, appunto, questa
forma di unificazione del mondo, comporti veramente l’abolizione di
quello che Toynbee invece poteva pensare come una forma di frattura
interna fra il mondo e l’Occidente.
2) Ma prima di arrivare a Marx, vorrei fare
un detour attraverso un luogo di grande portata della
riflessione filosofica novecentesca, la meditazione di Heidegger sul
concetto di mondo, la cui caratteristica principale rispetto a quello
che si è detto fino ad ora è che in essa non esiste
nessuna distinzione fra l’Occidente e il mondo. Certo quest’ultimo
è un concetto della filosofia, è un’idea, e Heidegger
potrebbe replicare a questa osservazione che non era suo compito
occuparsi di storia e che dunque questa distinzione o separazione o
conflittualità fra il mondo e l’Occidente probabilmente non era
e non poteva essere fatta propria da una riflessione di tipo filosofico
o di meditazione ontologica quale quella che egli tentava. Però,
nonostante questo, allo stesso modo con cui si può notare che in
Heidegger l’esserci è asessuato, oppure che la corporeità
nelle sue forme più materiali e sensibili, è in qualche
modo, se non ignorata, sorpassata, sorvolata di slancio, si potrebbe
anche far notare che egli prende la nozione di mondo, ne fa una storia,
la sottopone ad un certo lavoro concettuale e le attribuisce una
funzione estremamente importante nel suo dispositivo filosofico,
saltando a piè pari appunto quelle che potrebbero essere
certamente delle considerazioni di tipo storico e politico, ma che non
si comprende perché non potrebbero essere categorizzate in
chiave filosofica. È noto che uno degli esistenziali trattati e
analizzati in Essere e Tempo è esattamente l’essere nel
mondo, cioè l’essere nel mondo è un dato costitutivo, si
potrebbe dire trascendentale, dell’esserci, è parte costitutiva
della sua essenza. Poiché l’essenza dell’esserci è
l’esistenza e l’esistenza è il fatto che nell’esserci ne va
sempre del suo essere e l’esserci è caratterizzato da Heidegger
sempre nella modalità dell’essere nel mondo, allora il mondo
è un concetto non derivato, non aggiunto, non accidentale, ma
essenziale perché senza questa nozione di mondo non potremmo
stabilire qual è la natura propria dell’esserci.
Come si sa ‘esserci’ è un termine
tecnico del lessico heideggeriano ed è in base a motivazioni
ermeneutiche e ontologiche se Heidegger non usa il termine uomo, ma
ricorre all’antico tedesco dasein modificandone il senso;
tuttavia è evidente che, parlando dell’esserci, la questione per
Heidegger, come per qualunque altro filosofo degno di questo nome,
è di capire ciò che specifica l’uomo, l’uomo nel mondo o,
come diceva Scheler, il posto dell’uomo all’interno del mondo,
cioè che cosa rende l’uomo tale o che cosa è in generale
antropogenico. Heidegger avrebbe rifiutato questa terminologia
perché gli sarebbe sembrata appunto troppo legata alle scienze
empiriche, ad una considerazione soltanto esistentiva, empirica, ma,
pur ponendo la questione dell’uomo ad un livello che egli stesso
definiva ontologico, era pur sempre la questione dell’uomo quella che
affrontava. Nell’Essenza del fondamento, che è un testo
del 1928 e dunque è immediatamente successivo a Essere e
Tempo, Heidegger fa una brevissima, rapidissima storia del concetto
di mondo partendo esattamente dal termine greco kosmos. Che
cos’è il mondo? Il mondo, per Heidegger, non è una
congerie di fatti, un insieme di tutti gli enti, ma è il come
questi enti si manifestano, è l’idea di un ordine
che struttura dall’interno il manifestarsi di questa totalità
degli enti. A questo proposito Heidegger cita i presocratici: prima un
frammento di Anassagora che sostiene che "non stanno disgiunte le une
dalle altre le cose nell’unico ordine del mondo e non sono tagliate con
la scure, non il caldo è separato dal freddo né il freddo
dal caldo"
(5),
che cioè mette l’accento su questa connessione, su questa
complessione del mondo che non è la pura e semplice messa
insieme di elementi semplicemente accostati; e poi il famoso frammento
di Eraclito in cui si dice che il mondo comune è quel mondo che
viviamo da svegli mentre invece quando dormiamo i mondi si separano, si
isolano e non si relazionano più. Il rinvio ai presocratici
serve appunto ad Heidegger per fondare questo concetto di mondo che
è inteso appunto come una totalità indivisa e che sta ad
indicare il modo della presentazione della totalità dell’ente e
il modo con cui quest’ultima si apre all’esserci, si presenta, si
manifesta per l’esserci. C’è a questo punto un passaggio
attraverso il concetto di kosmos medioevale che è
interessante: Heidegger afferma che il mondo è quel luogo che
è caratterizzato dalla lontananza da Dio, dunque il mondo, nel
senso della mondanità, è in relazione con un altro mondo,
con un’altra sfera; questa sfera dice Heidegger è quella che si
caratterizza per dei caratteri che sono i caratteri propri che la
tradizione cristiana attribuisce a Gesù e cioè gli
elementi della vita, della luce e della verità. Che cosa vuol
dire Heidegger con questa notazione? Vuol dire che la nozione greca di kosmos,
di mondo ordinato, di mondo pulito, nel mondo cristiano viene –
mis-interpretando la tradizione greca – ridotta a pura e semplice
realtà mondana e terrestre in cui sono totalmente assenti gli
elementi che secondo la prospettiva cristiana sono invece fondanti e
che sono appunto la verità – cioè il mondo come luogo di
una disvelatezza di qualche cosa che si situa al di là del
mondo, che è oltre mondana in questo senso, non necessariamente
trascendente ma che dando il senso al mondo non coincide letteralmente
col mondo; la vita – cioè il principio del movimento che
è anche un principio appunto di crescita e di maturazione non
soltanto organica ma spirituale in questo caso; e la luce – immagine
questa della luce che come si sa è una metafora chiave della
metafisica cristiana, di una parte della metafisica cristiana: la luce
nel senso di ciò che infonde vita e calore. Allora per il mondo
cristiano, per l’universo cristiano, il mondo diventa soltanto la vita
terrestre e invece gli elementi che per questa prospettiva cristiana
sono i più importanti appartengono ad un altro mondo.
Perché questo passaggio è importante? Perché
quello che interessa Heidegger in questa rapida ricostruzione del
concetto di mondo è di arrivare rapidamente alla concezione
moderna, il che vuol dire rapportarsi, dopo aver saltato a piè
pari le ultime propaggini della metafisica, cioè Wolff e
Baumgarten, alla fislofia di Kant.
Infatti in Kant accanto alla determinazione
tradizionale del mondo (da cui la cosmologia razionale come parte della
metafisica speciale), cioè al mondo come totalità di enti
retti da un principio o legge razionali, si affaccia nell’ambito
dell’antropologia un significato esistentivo che però ha perso i
tratti cristiano-medievali. Anche se il mondo è trattato come
una totalità di enti essi però sono visti come degli
oggetti conoscibili da un essere razionale finito, sono cioè
rapportati all’uomo, non a Dio o all’ente in generale. Ora parlare di
un essere razionale finito significa anche parlare, nell’accezione
heideggeriana, di un essere storico. E infatti quello che colpisce a
leggere questi passaggi de L’essenza del fondamento è la
rapidità, un po’ pindarica per la verità, con cui
Heidegger passa dalla cosmologia razionale all’antropologia, ossia il
modo con cui pone in primo piano una distinzione, quella fra la
filosofia come concetto scolastico (Schulbegriff) e la filosofia
come concetto cosmico (Weltbegriff), che certo era già
presente nella Critica della ragion pura, ma che acquista tutta
la sua importanza proprio in quei testi tardi di Kant, come appunto l’Antropologia
pragmatica, in cui si tematizza la conoscenza filosofica come
conoscenza tipica dell’uomo di mondo, dell’uomo cioè fatto
esperto dal suo rapporto col e al mondo.
Ciò che, secondo Heidegger, diviene
sempre più rilevante in Kant è il mondo come luogo
storico e culturale, cioè come quell’ambito in cui l’uomo gioca
anche la propria destinazione, in cui mette alla prova l’eredità
che ha ricevuto e la trasforma in un compito storico-destinale. Essere
un ‘uomo di mondo’ significa allora sviluppare una conoscenza che non
è più una conoscenza puramente razionale e trascendentale
ma una conoscenza concreta, una conoscenza storica, una conoscenza che
è legata appunto anche alle situazioni emotive, alla
destinazione, o anche a ciò che Heidegger chiama la deiezione,
cioè al trovarsi da parte dell’esserci in una data situazione
linguistica, temporale storica e se si vuole anche di classe - insomma
anche se Heidegger cose del genere non le dice mai, noi però
possiamo farlo, possiamo utilizzarlo e forzarlo addirittura a dire che
a esempio c’è una bella differenza ad essere un esserci che
nasce in Italia nel 2003 da un esserci che invece si trova deietto, che
ne so, nell’Africa centrale; e questo è un problema che ci
riallaccia esattamente alle questioni che ho provato a sollevare a
partire da Toynbee.
In verità il vero luogo in cui
Heidegger tematizza la questione del mondo è il seminario
immediatamente successivo, quello del ’29-30 che si chiama Concetti
fondamentali della Metafisica e porta poi come sottotitolo queste
tre parole chiave della filosofia heideggeriana che sono il mondo, la
finitezza e la solitudine. Di questo seminario voglio soltanto
individuare un punto, che io credo sia importante, in cui Heidegger,
pur dichiarando esplicitamente che non fa dell’antropologia, dal
momento che l’antropologia è una disciplina empirica, pur
insistendo sul fatto che bisogna prendere distanza da ogni biologismo e
da ogni interpretazione dell’uomo come un ‘animal rationale’,
cioè come una componente del mondo vivente cui si aggiungerebbe,
come protesi o come potenziamento, questo elemento che è la
ragione-linguaggio, stabilisce egualmente la specificità
dell’uomo – risponde cioè a una questione eminentemente
antropologica – e lo fa attraverso il rapporto specifico che l’esserci
ha con il mondo rispetto all’animale da un lato e al non vivente
dall’altro. Certo la cosa strana ed interessante credo sia questa: non
si tratta più di indicare la posizione dell’uomo, cioè
che cosa renda l’uomo veramente tale, stabilendo dove finisce la parte
animale in lui e dove incomincia quella, invece, spirituale, razionale
e via di seguito, ma si tratta di cogliere la differenza fra l’uomo e
l’animale in riferimento alle modalità con cui l’animale e
l’uomo si rapportano al mondo. Cioè la differenza non passa
più dentro l’uomo fra la parte del suo essere che partecipa
della natura animale e quella che appartiene alla sfera della
razionalità, come per certi versi pensava ancora Kant, ma nella
modalità con cui animale e uomo si rapportano diversamente
rispetto al mondo.
Secondo Heidegger si tratta di fare
un’osservazione comparata fra tre modalità diverse di rapporto
che corrispondono ai tre regni della natura: "la pietra, scrive,
(l’ente materiale) è senza mondo (weltlos), l’animale
è povero di mondo (weltarm), l’uomo è formatore di
mondo (weltbildend)"
(6).
In Heidegger, tuttavia, nonostante la presa di distanza da ogni
biologismo, c’è un ricorso enorme alla biologia più
avanzata della sua epoca; c’è un costante utilizzo di quel che
è stato, probabilmente, il più grande studioso di
biologia e di comportamento animale che si sia mai dato, cioè
von Uexküll, autore letto e usato da moltissimi pensatori di
questo momento storico, un best-seller della cultura europea degli anni
trenta. Se Heidegger si rivolge a questo autore non è
perché egli abbia una visione biologistica dell’uomo, quanto
perché la sua analisi del comportamento animale in rapporto al
mondo gli serve per determinare per differenza lo statuto dell’esserci
umano. Quando abitualmente si pensa all’animale, al suo comportamento e
al suo rapporto col mondo, si ritiene risolta la questione cavandosela
con il ricorso all’istinto: quest’ultimo regolerebbe il comportamento
dell’animale e costituirebbe il suo modo di rapportarsi al mondo
esterno. Tutto giusto a patto di notare però, come Heidegger
mette in evidenza proprio sulla scorta delle ricerche di von
Uexküll, che in realtà se è vero che l’animale sulla
base di uno stimolo che può essere olfattivo, visivo etc.,
scatena una sequenza comportamentale che è quella che noi
chiamiamo istintuale la quale a propria volta lo pone in relazione con
una porzione di mondo, è tuttavia anche vero che essa finisce
per rinchiuderlo in questa porzione di mondo. L’esempio è quello
bellissimo dell’ape. L’ape è stimolata dalla presenza del fiore
e incomincia a succhiare il nettare, ma se si apre l’addome dell’ape,
ci si accorge che essa, per essere stata precedentemente stimolata
dalla presenza del nettare, continua tranquillamente a succhiare senza
rendersi minimamente conto che il nettare le cola giù
dall’addome aperto. L’ape di conseguenza è stupida, e infatti la
chiave, la categoria chiave che Heidegger utilizza per spiegare il
rapporto dell’animale col mondo, quella ragione per cui l’animale
è povero di mondo, è lo stordimento. L’animale, in
realtà, quando l’istinto si scatena è stordito,
cioè non capisce più niente. Se ad esempio vede la
femmina, che può essere anche una femmina dipinta sul muro,
l’animale è talmente stupido che avrà una serie di
reazioni che lo rendono pronto per l’accoppiamento. In questo caso
è certo che l’animale è in rapporto con un ambiente ma
questo rapporto è, come dire, univoco ed è anche un
rapporto chiuso, perché l’animale non è in grado di
uscire fuori da questa piccolissima cerchia cui è legato e in
cui e da cui è stato totalmente catturato
(7).
Insomma l’animale è ottuso, il che
vuol dire che l’animale non sta nel mondo nella modalità
dell’apertura. Questo spiegherebbe la grande polemica che Heidegger fa
con Rilke affermando che non è vero che l’aperto di cui parla il
poeta sia quello di cui parla lui, perché proprio il riferimento
all’animale che, dice Rilke, sta nell’aperto, in realtà è
falso perché l’animale non si apre a niente, l’animale si chiude
ogni volta che si scatena una catena istintuale, una sequenza di
comportamenti istintuali, l’animale si chiude in una parte di mondo.
Quindi non è vero che stia nell’aperto. Solo dell’uomo si
può dire che è nell’aperto. E se questo può essere
detto solo dell’uomo è perché egli non è guidato
da una struttura di tipo istintuale e il mondo per lui non è
quell’ambiente dove comparendo una femmina scattano immancabilmente i
comportamenti della seduzione, oppure apparendo il nettare l’ape non
può fare a meno di mettersi a girare e segnalare in tal modo
alle altri api la presenza del nettare oppure succhia il nettare e non
si rende conto che succhia a vuoto e via di seguito, ma è il
luogo della disvelatezza, dell’apertura a qualcosa di altro dal mondo,
a qualcosa che non è il mondo ed è al di là del
mondo.
Il mondo rimanda costantemente ad una
differenza, alla differenza, se vogliamo usare i termini tecnici di
Heidegger, fra l’essere e l’ente. Se il mondo è la
totalità dell’ente, lo è solo perché è allo
stesso tempo la manifestatività di ciò che non è
ente, ma a partire da cui l’ente è l’ente che è, vale a
dire l’essere. Nel suo intervento di stamattina Masullo l’ha chiarito
splendidamente: il mondo si deve manifestare e la manifestazione del
mondo deve essere pulita, deve essere chiara, trasparente. Il mondo in
questo è aperto: è aperto nel senso appunto che noi lo
trapassiamo con lo sguardo, dunque non restiamo legati agli aspetti
singoli del mondo, non restiamo chiusi in questo ente, questa piccola
porzione di mondo, ed il resto non lo si vede più, ma siamo
costantemente, per così dire, al limite del mondo: come se noi
stessimo sempre situati sulla linea dell’orizzonte, pronti a slanciarci
al di là del mondo. Questo ci permette poi di totalizzare il
mondo (l’animale non totalizza nulla) e ci permette anche di
circoscriverlo e ci permette per esempio, come viene detto in Essere
e Tempo, attraverso quella situazione emotiva fondamentale che
è l’angoscia, di vederlo collassare come mondo in cui siamo
chiusi ed essere chiamati, destati invece, al fatto che attraverso il
mondo si manifesta qualche altra cosa che non è il mondo, anche
se solo attraverso il mondo noi possiamo essere posti in rapporto con
esso e che questo altro è ciò che Heidegger chiama
l’essere.
Tuttavia l’aspetto interessante di questo
discorso su cui vorrei richiamare l’attenzione è che la
differenza fra l’uomo e l’animale è elaborata da Heidegger
paradossalmente secondo un modello molto tradizionale, nel senso che
per stabilire che cosa è l’uomo si cerca ancora una volta di
dire in che cosa l’uomo non sia un animale. È vero che Heidegger
ha liquidato le ipotesi biologiste e ha voluto mettere una distanza
molto esplicita con la vecchia concezione dell’uomo come ‘animal
rationale’, ma è anche vero che alla fine il termine di
riferimento continua ad essere l’animale, perché il problema
è che ad Heidegger non viene mai in mente che gli uomini possano
diventare come le pietre, cioè che all’uomo possa capitare, in
un’epoca dell’essere, nel senso appunto di un nuovo modo della
manifestazione dell’essere, di diventare privo di mondo come una
pietra, l’ente materiale. La pietra viene sì messa in gioco in
questa osservazione comparativa, ma solo per essere immediatamente
tolta di mezzo. La condizione del non avere mondo Heidegger non la
calcola minimamente. La differenza di nuovo è fatta fra la
povertà di mondo, che è propria dell’animale, e invece
l’apertura al mondo, l’essere nel o l’essere al mondo che caratterizza
l’uomo. La differenza è sempre una differenza con l’animale e
tuttavia Heidegger può sostenere egualmente di non cedere in
nulla ad una interpretazione naturalistica dell’uomo o ad
un’interpretazione metafisica, dove per metafisico si intenda il fatto
che l’uomo sia questa specie di ibrido, di doppio, formato da natura e
spirito. L’antropogenesi per Heidegger si compie dunque nel rapporto al
mondo, l’uomo si fa tale in quanto è questo ‘a’
dell’essere-al-mondo. Il senso dell’uomo, la sua dignità,
risiedono nel mondo e nella capacità di dar forma al mondo. E se
l’uomo può dare forma al mondo è perché la sua
essenza è mondana, consiste nell’essere al mondo, nell’essere
apertura al mondo. Il che significa ancora una volta: vita, luce e
verità.
3) Ad essere onesti non è che
Heidegger non si rendesse conto della mondializzazione/globalizzazione
del mondo: questa stessa riflessione sul mondo, la tripartizione del
rapporto col mondo - esserne privi, esserne poveri e formarlo -
è stata elaborata molto probabilmente perché ad Heidegger
era chiaro che la modernizzazione capitalistica, l’industrializzazione,
cioè tutto ciò che egli poi ha chiamato con un unico
nome, e cioè ‘tecnica’ – letta, e in ciò c’è tutta
la grandezza di Heidegger, come un’epoca dell’essere e non come un
qualcosa di empirico o di storico nel senso della Historie,
della storiografia, ma di storico in senso essenziale e destinale (geschichtlich)
– poteva condurre esattamente alla scomparsa del mondo. Ma a differenza
di Heidegger che non sembra rinunciare al riferimento alla vita animale
per determinare l’essenza dell’uomo, noi non possiamo schivare la
domanda: che cosa accade al mondo e quindi all’uomo, che cosa accade
all’essere nel mondo, all’essere-al-mondo da parte dell’uomo, quando il
mondo si mondializza e/o si globalizza, quando si forma il mercato
mondiale, quando il mondo è governato da istituzioni
internazionali, sovranazionali, in una parola mondiali e quando
purtroppo anche le sue guerre diventano mondiali? Non accade forse che
il mondo scompare, si perde, che si diviene senza mondo, privi di mondo
come le pietre? Certamente continuano ad esistere uomini, ma l’uomo nel
senso di quell’ente che nel suo stesso esistere in quanto
essere-al-mondo è domanda sul senso dell’essere, cioè
sulla verità, ebbene questo tipo d’uomo, questa idea dell’uomo,
non esiste più, è definitavamente morta. La fine del
mondo che viene così teorizzata, in concomitanza coi fenomeni
della mondializzazione o della globalizzazione, va di pari passo con il
rischio della fine dell’uomo.
La fine dell’uomo non è un problema
nuovo: è stata tematizzata più volte e in questa sede mi
limiterò a due esempi oltre che a un richiamo a Nietzsche da cui
tutti gli altri bene o male discendono. Affermando infatti che l’uomo
è qualcosa che deve essere superato, Nietzsche intendeva dire
che così com’era, così come risultava costituito sia per
opera dell’evoluzione naturale che delle vicissitudini storiche, l’uomo
era qualcosa di non determinato, non finito, non completo, ma passibile
di un’ulteriore mutazione, tesi questa che procedeva di pari passo con
quella della scomparsa delle opposizioni tradizionali fra mondo vero e
mondo apparente, per cui la fine del mondo si accompagnava sempre al
problema della fine dell’uomo. Il primo dei due esempi che farò
è quello delle lezioni di Kojeve sulla Fenomenologia dello
spirito in cui viene sostenuto che la fine della storia annunciata
da Hegel nella forma del riconoscimento generalizzato delle
autocoscienze si è infine realizzata. Da cui la questione: che
cosa si dà dopo? Se la storia, che è una storia di lotta
per l’affermazione costante del riconoscimento, è giunta al suo
termine, con che tipo di mondo e di uomo avremo a che fare? Kojeve fa
due ipotesi: secondo la prima, l’uomo tornerebbe ad essere un semplice
animale – ma, direbbe Heidegger, come fa a tornare alla povertà
di mondo quando, invece, era entrato in un mondo storico? In base alla
seconda ipotesi, elaborata da Kojeve dopo un viaggio in Giappone,
l’uomo post-storico diventerebbe come i giapponesi, i quali pare che
non conoscano i conflitti di classe ma conoscono, invece, le cerimonie,
hanno sviluppato cioè una capacità di estetizzare la loro
esistenza, di formalizzarla, e non hanno più bisogno di
ricorrere alla lotta e al conflitto per risolvere i loro problemi
(8).
Il secondo esempio è quello della
tesi della ‘fine dell’uomo’ sviluppata da Foucault negli anni settanta
del secolo scorso. In base a questa tesi l’uomo è l’oggetto
delle cosiddette scienze umane ed è dunque un concetto legato ad
una determinata situazione storica, ad un certo stadio della storia dei
saperi scientifici, ad una certa configurazione dell’archivio del
dicibile. Modificatasi la situazione, cambiato lo statuto dei discorsi
e delle discipline, l’uomo ha cessato di essere il punto di riferimento
della ricerca archeo e genealogica e il suo posto è stato preso
dalla rete impersonale del potere, dai rapporti di forza e dall’analisi
del corpo. Da questo punto di vista l’uomo cui eravamo abituati
è finito.
Si può dire comunque che ciò
cui abbiamo assistito durante il corso del ‘900 è stato un
fenomeno che, a dispetto di Heidegger e del suo progetto, non
può che essere definito come il fenomeno della fine del mondo.
Nel 1993, dunque in tempi abbastanza recenti, Jean-Luc Nancy ha
affrontato in maniera diretta questo tema della fine del mondo. In un
saggio che si chiama appunto Il senso del mondo si trova questo
enunciato che non sarà forse particolarmente profondo dal punto
di vista teoretico, ma che in compenso è molto suggestivo e fa
capire subito qual è la posta in gioco: "Non c’è
più un mondo, più un mundus, né un cosmos,
né un ordine composto e completo all’interno o dall’interno del
quale trovare uno spazio, un soggiorno e segni per orientarsi. O ancora
non c’è più il ‘qui-in-basso’ di un mondo che fa passare
verso un aldilà del mondo o verso un oltre-mondo. Non c’è
più uno Spirito del mondo, né una storia davanti al cui
tribunale si possa essere portati. Detto altrimenti, non c’è
più senso del mondo"
(9).
Se ci ricordiamo che per Heidegger l’esserci era quell’ente che poneva
la domanda sul senso dell’essere perché la sua esistenza
coincideva con l’essere-nel-mondo o, come scrive Nancy, con
l’essere-al-mondo, si comprende facilmente che il fenomeno della fine
del mondo comporta anche la fine del senso, la fine del senso del mondo
e la fine del mondo del senso. La storia del ‘900 sembra essere andata
quindi in una direzione opposta a quella heideggeriana.
Ora è molto probabile che Heidegger
si sia reso conto di questa situazione, che abbia capito che il senso
del mondo appunto non era qualche cosa che andava trovata in un altro
mondo – questo spiegherebbe la sua presa di distanza dal mondo
medioevale, dalla concezione del mondo medioevale – che il mondo
storico era il mondo dove si dava la verità, dove si dava la
vita e tutte le sue possibilità e che abbia creduto di
conseguenza, per usare una distinzione terminologica e concettuale che
è propria anche di Masullo, che bisognava lasciar perdere il
senso, se per senso intendiamo il significato che noi vogliamo
attribuire al mondo e alla totalità, ma si poteva lasciare
semplicemente il livello del senso, inteso questa volta non come
significato ma come sentire il rapporto immediato che si ha col mondo.
La tesi di Heidegger, nell’unica volta in cui parla esplicitamente di
un’etica, cioè di un modo di condursi, è quella
dell’abbandono, cioè del lasciar essere, del corrispondere senza
più nessuna pretesa di dare un senso al mondo, cioè un
significato, stabilizzato e definitivo, perché sarebbe in fin
dei conti una fuga dalle responsabilità che invece il mondo come
costante apertura e manifestatività dell’essere ci pone
(10).
Che Heidegger non sia stato all’altezza di questa sua stessa decisione,
trova conferma, a mio parere, nel fatto che egli abbia aderito, anche
se per un anno, al nazismo, e poi se ne sia subito staccato.
Perché Heidegger aveva fatto un ragionamento simile in parte a
quello che secondo Toynbee avrebbero dovuto fare le élites del
mondo: si può coniugare la tecnica con il senso, il fenomeno
della modernizzazione-mondializzazione-globalizzazione con ciò
che nel linguaggio della metafisica occidentale si chiama la
verità dell’essere? Ora Heidegger ritenne che il nazismo, in
quanto movimento storico-politico, fosse un modo di rispondere
esattamente a questo problema, cioè riuscisse a coniugare - cosa
che ad Heidegger sembrava non essere riuscito alle democrazie
occidentali, cioè all’occidente, e che non riuscisse nemmeno
all’Unione Sovietica, cioè a quell’altro modo, al modo eretico,
di essere occidentale – a tenere assieme il senso e il dominio mondiale
della tecnica. La mia opinione è che Heidegger si sia accorto di
essersi sbagliato, ma nel senso che comprese che il nazismo non era
andato sufficientemente avanti su questa strada. Questo spiegherebbe
tutto quello che egli scrive in quegli anni bui, e di cui abbiamo
saputo dopo, e cioè che, negli anni successivi al ’33, quando
legge Nietzsche soprattutto, egli attacchi esattamente il biologismo e
il naturalismo dell’ideologia nazista. Infatti, il problema
dell’individuazione di che cos’è è l’uomo Heidegger
voleva riuscire a coglierlo liquidando qualunque ipotesi biologista, ma
proprio usando la biologia più avanzata e più recente,
stabilendo che il problema non era quello che l’uomo era anche un
animale ma stabilendo la differenza fra uomo e animale rispetto al loro
rapporto al mondo. Infine il fatto che per lui il nazismo fosse in
realtà una fuga dalla responsabilità storica di coniugare
senso e tecnica, se per un verso spiega il suo distacco dalla politica
attiva, le sue dimissioni dal rettorato ed anche le sue affermazioni
successive di essere stato in fin dei conti un sorvegliato speciale del
regime, dimostra d’altra parte che egli non era cambiato, che era
restato quello che era sempre stato: un ‘vero’ nazista. Era il nazismo
storico in realtà a non corrispondere a ciò che egli
aveva creduto e sperato.
Una controprova di tale affermazione la
possiamo trovare in una frase pronunciata da Heidegger in una
conferenza del 1949 che è stata utilizzata per inchiodarlo alle
sue responsabilità, per far vedere quanto il suo atteggiamento
davanti ai campi di concentramento fosse cinico; una frase che, non a
caso, in occasione della pubblicazione della conferenza, Heidegger
eliminò e che poi, una volta messi in circolazione i
dattiloscritti, fu costretto a reinserire. La frase è la
seguente: "La fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas è
nella sua essenza la stessa cosa di una agricoltura come industria
alimentare motorizzata, la stessa dei blocchi e della riduzione dei
paesi alla fame (probabile riferimento alla Germania trattata dai
vincitori come un paese sconfitto e da punire), la stessa cosa della
fabbricazione delle bombe all’idrogeno"
(11).
Si è sempre rimproverato ad Heidegger il carattere blasfemo
dell’accostamento, il paragone fra la produzione in serie dei cadaveri
nei campi di concentramento e l’industrializzazione dell’agricoltura.
Ma Heidegger voleva dire proprio questo: una tecnica totalmente
dispiegata ma in pieno oblio dell’essere, cioè senza che si
riesca a coniugare il dominio della tecnica con il senso dell’essere,
non può produrre che l’indifferenza, l’indistinguibilità
fra la produzione dei cadaveri e quella delle barbietole o dei tuberi.
È evidente che, se la tecnica domina, se c’è l’impianto
(ed è il titolo della conferenza), allora non è
più possibile fare queste differenze perché la differenza
sarebbe possibile soltanto se noi riuscissimo a ristabilire un rapporto
al mondo dal momento che solo nel rapporto al mondo l’essere potrebbe
nuovamente manifestarsi all’uomo. Un uomo che invece, qualunque cosa ne
pensasse Heidegger nel 1929-30, non solo aveva cessato di essere
formatore di mondo e neppure si era accontentato di diventare come
l’animale povero di mondo, ma era diventato privo di mondo come una
pietra, come un ente materiale qualsiasi, e che, prima morto asfissiato
nelle camere a gas e poi bruciato nei forni crematori, si era infine
trasformato in cenere
(12).
4) Prima di avviarmi alla conclusione con un
richiamo a Marx, provo a ricapitolare: il problema che abbiamo davanti
è che il novecento ha posto la questione del mondo non tanto nel
senso di una ricaduta verso la povertà, come se noi
retrocedessimo al livello dell’animale, ma nel senso invece di una
privazione di mondo, cioè di un collasso del mondo inteso
appunto come luogo dove si manifesta il senso e la possibilità
del senso e dunque della dignità umana. Questo mondo è
esattamente ciò che sta venendo meno.
Si tratta allora di vedere se sia possibile
leggere il fenomeno della mondializzazione che implica necessariamente
quello della fine del mondo e della fine del senso in una chiave che da
un lato tenga conto del dispositivo di Heidegger riconosciuto come uno
dei più adeguati al compito della comprensione della
modernità, e dall’altro sia in grado di superarlo, di procedere
oltre. Nessuna meraviglia se questa chiave la individueremo in Marx,
cioè in un dispositivo di pensiero che dal punto di vista della
temporalità empirica e della storiografia viene ‘prima’ di
quello heideggeriano: le eredità storiche, come abbiamo capito,
non seguono la cronologia dei calendari.
Per incominciare prendo spunto da un altro
testo di Nancy, un testo recentissimo, che s’intitola La creazione
del mondo o la mondializzazione
(13).
Nancy prende le mosse da una lunga citazione di un passo di Marx dell’Ideologia
tedesca, la cui lettura non può che produrre un moto
d’ilarità: Marx è un autore e l’Ideologia tedesca
un testo che da anni non si leggono più, eppure questo passo
sembra scritto ieri e se non si sapesse da che cosa è tratto lo
si potrebbe prendere per un articolo pubblicato su un numero molto
recente di un qualunque quotidiano. Se la domanda, ieri come oggi,
riguarda la natura e lo statuto della mondializzazione/globalizzazione,
la risposta di Marx è che lo sviluppo storico del capitale
comporta la scomparsa progressiva delle nazioni e la tendenza alla
storia universale "cosicchè se in Inghilterra viene inventata
una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in
Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa
invenzione diventa un fatto storico universale; oppure lo zucchero e il
caffè dimostrano la loro importanza storica universale nel
secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti,
provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi
a insorgere contro Napoleone e divenne quindi la base reale delle
gloriose guerre di liberazione del 1913"(14).
Quindi se si volesse attualizzare il ragionamento di Marx, si potrebbe
dire che la guerra per il petrolio potrebbe portare l’Iraq a fare una
gloriosa guerra di liberazione, e poi non è detto che ciò
non possa accadere. Con la base della situazione attuale del popolo
iracheno si può non essere molto fiduciosi, però tutto
è possibile.
La prima conseguenza che Marx trae da queste
considerazioni è che nella valutazione del fenomeno storico
della mondializzazione, cioè della formazione del mercato
mondiale e dell’interdipendenza fra gli stati, le economie e gli
assetti sociali, bisogna calcolare anche "il fatto empirico che i
singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano
storico universale, sono sempre stati asserviti ad un potere a loro
estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto
del cosiddetto spirito del mondo), ad un potere cioè che
è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza
si rivela come mercato mondiale"
(15).
Ciò che Marx e Engels stavano descrivendo nel 1845-1846
coincide, mi sembra, con ciò che noi oggi chiamiamo
‘globalizzazione’ e molto correttamente questo evento era da loro
rubricato sotto l’etichetta della mondializzazione, ossia della
formazione del mercato mondiale e della storia come storia universale.
Allora non possiamo non porci la domanda: la mondializzazione
capitalistica, cioè la formazione del mercato mondiale, coincide
con quella nozione e quella esperienza del mondo di cui parla Heidegger
tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta o piuttosto deve
essere identificata con la totale privazione del mondo? Heidegger come
l’avrebbe vista, e come di fatto l’ha vista, la mondializzazione, come
una chance o al contrario come la perdita totale di
umanità e la resa completa al dominio della tecnica? Il punto
è che Marx fa un’operazione esattamente inversa a quella tentata
da Heidegger negli anni Trenta. Se è vero infatti che la
mondializzazione, la formazione del mercato mondiale, si presenta agli
individui come un potere ad essi estraneo e oppressivo – tanto che essi
hanno tentato di raffigurarselo come un dispetto del cosiddetto Weltgeist,
dello spirito del mondo, il che è un riferimento più che
polemico nei confronti di Hegel –, è anche vero però che
questa formazione del mercato mondiale è la condizione – non una
fra le tante, ma la condizione essenziale, la condizione vera e propria
- per una loro totale emancipazione.
Scrive Marx: "Con il rovesciamento dello
stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista
e l’abolizione della proprietà privata, che con essa
s’identifica, questo potere così misterioso per i teorici
tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la
liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la
storia si trasforma completamente in storia universale. Che la
ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla
ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si
è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui
vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione
pratica con la produzione(anche spirituale) di tutto il mondo e messi
in condizione di acquistare la capacità di godere di tutta la
terra (creazioni degli uomini). La dipendenza universale, questa forma
spontanea di cooperazione degli individui sul piano storico universale,
è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e
nel dominio cosciente di queste forze reali le quali, prodotte dal
reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno
dominati come forze assolutamente estranee"
(16).
È più che chiaro che per Marx la liberazione degli
individui da questo potere estraneo coincide con il fatto che la storia
cessi di essere una storia locale e diventi una storia universale. Il
che, in altri termini, vuol dire che la possibilità
dell’emancipazione passa esattamente attraverso la sottomissione ad un
potere estraneo. Si deve formare una potenza astratta, estranea, che
è esattamente quella del mercato mondiale, perché poi sia
possibile la rivoluzione comunista. Gli individui non potrebbero
liberarsi se non si fosse realizzato questo piano unico, questo
universo – di fede avrebbe detto Bruno – in cui però dialogano e
convivono gli infiniti mondi, vale a dire gli individui, i punti di
vista, le prospettive, nessuno dei quali può pretendere di avere
un’esclusiva e di valere da condizione assoluta. Non c’è nessun
punto di vista che possa pretendere di imporsi come il punto di vista
che centralizza tutti gli altri, che li sottomette; ed è per
questo che dobbiamo distinguere tra l’unità e
l’universalità, nel senso che l’universale di cui parla Bruno
è quello che non pretende affatto di unificare, sotto un
comando, un dominio, la infinita pluralità dei punti di vista,
ma è tale da fare in modo che questa pluralità non resti
irrelata, scissa, ma entri nello scambio e si apra all’incontro e alla
interdipendenza, che la ricchezza spirituale e reale degli individui
dipenda interamente dalla ricchezza delle relazioni reali
dell’univer-sale. È chiaro, dopo quanto si è detto, che
soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai
vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la
produzione, anche spirituale, di tutto il mondo e messi in condizione
di fare in modo che tutta la terra sia una loro creazione.
Si comprende allora perché Nancy
citando questo passo dell’Ideologia tedesca possa parlare della
‘creazione del mondo’
(17)
e renderla equivalente alla ‘mondializzazione’: dal punto di vista di
Marx questi non sono due fenomeni non solo distinti ma addirittura,
come in Heidegger, opposti, sono lo stesso fenomeno. Proprio
perché implica la fine del mondo, la fine del mondo come
manifestazione del senso, e la sua trasformazione in una potenza
estranea, in una forza pietrificante, la mondializzazione si rovescia
in creazione del mondo, in emancipazione. La dialettica marxiana pone
in relazione gli estremi in quanto estremi, tiene ferma esibendola la
contraddizione: la dipendenza universale, l’estraneazione congiunta
alla mondializzazione/globalizzazione, si rovesciano in controllo
consapevole, in creazione del mondo. Si può sempre dire che Marx
sia un po’ troppo hegeliano, sia un po’ troppo coscienzialista ma
questa è l’accusa minore che gli si possa fare; in
realtà, quello che mi sembra più importante, è che
egli faccia coincidere la mondializzazione, la formazione del mercato
mondiale, con la creazione del mondo: per arrivare a questo esito
c’è bisogno di un passaggio, che consiste nel mettere il mondo
sottosopra, di rivoltarlo visto che esso è a sua volta
invertito, ‘renversato’. Questo mondo va messo di nuovo a testa in su,
e dunque dobbiamo mettere sottosopra un mondo che è
oggettivamente invertito, non invertito nella ideologia ma invertito
nella realtà. Il comunismo insomma si gioca tutto in funzione di
un passaggio al piano universale, si appropria dello sviluppo delle
forze produttive, che, come il Manifesto sosterrà in
modo esplicito alcuni anni dopo, fa collassare i mondi privati, i mondi
piccoli, i mondi locali, i mondi nazionali, i mondi delle piccole
comunità, delle comunità familiari, di tutte le
comunità appunto che stringono e che impediscono lo sviluppo
dell’individuo.
Vorrei chiudere citando un passo dei Lineamenti
fondamentali dell’economia politica in cui tutto questo discorso si
connette per Marx, come d’altronde per Nancy, con il tema del valore:
"Il capitale, scrive Marx, attua la produzione della ricchezza stessa e
perciò lo sviluppo universale delle forze produttive, la
rivoluzione permanente delle sue premesse esistenti, come presupposto
della sua riproduzione. Il valore non esclude nessun valore d’uso; e
perciò non include nessun particolare genere di consumo ecc, di
relazioni come condizione assoluta, e parimenti ogni grado di sviluppo
delle forze produttive sociali, delle relazioni, del sapere non sono
altro per esso che un ostacolo che esso si sforza di sormontare.
Persino il suo presupposto – il valore – è posto come prodotto,
non come presupposto aleggiante al di sopra della produzione" (18).
Anche in questo caso noi abbiamo la tendenza a valutare la formazione
del mercato mondiale, vale a dire l’incessante trasformazione dei
valori d’uso in valori di scambio, in modo negativo, come una perdita
di senso dell’umano. È d’altronde ancora una volta la posizione
di Heidegger: la mondializzazione, lo sviluppo della tecnica, la
riduzione a ‘fondo’ disponibile della totalità dell’ente, che
altro non indicano sotto un nome diverso che il fenomeno capitalistico
per eccellenza, vale a dire la trasformazione di ogni valore d’uso in
valore di scambio, di ogni oggetto in merce, costituiscono per
Heidegger un processo storico-epocale che denota la scomparsa o la
sempre maggiore difficoltà di riuscire a tematizzare il senso
e/o la verità dell’essere. Il processo della valorizzazione ha
invece in Marx un tutt’altro senso: come nota anche Nancy (19),
esso finisce per produrre una forma-valore che non solo non coincide
con nessun valore d’uso ma che va addirittura al di là del
valore di scambio, dal momento che di questa forma-di-valore il valore
di scambio non è altro che la sua manifestazione invertita,
cioè feticistica. Messo a testa in su, reinvertito, il valore di
scambio non retrocede verso il valore d’uso, ma, rivelandosi come
plus-valore, si svela anche come più-che-valore, una forma di
valore che oltrepassa l’ambito del mercato e dello scambio. Questo
valore che non è più un valore, che non è
più relativo ma tende a essere assoluto, ossia sciolto da
qualunque condizione storico-empirica, sociologica, psicologica etc,
che cos’è se non quello che Kant definiva la ‘dignità’ e
opponeva al prezzo? Privo di prezzo o piuttosto al di là del
prezzo, cioè del suo valore di scambio, il valore è
quell’eccedenza – plus-valore e più-che-valore – che sfugge,
programmatica-mente si potrebbe dire, al regime d’equivalenza proprio
dello scambio e insieme alla riduzione naturalista-biologista del
valore d’uso. Un tale valore che non è neppure il valore del
lavoro, se è vero che per Marx tale valore non esiste ed
è piuttosto il lavoro sotto forma di plus-lavoro a produrre il
valore, non coincide con nessun valore d’uso particolare, o per dirlo
meglio, non ne esclude nessuno; piuttosto li attraversa tutti, li
trasforma, li afferra nel suo movimento e in tal modo li rende
universali, li apre alla dimensione della mondializzazione e/o della
globalizzazione, li include nella creazione del mondo. Questo movimento
per il quale non esiste più un valore d’uso che sia privilegiato
o che detti legge sulla produzione e sul consumo in generale, ma in cui
e per cui tutto diventa valore di scambio e trasformandosi in valore di
scambio produce quel di più che Marx chiama il plus-valore, vale
a dire la quota di valore che non è reinvestibile all’interno
del sistema degli scambi e che dunque non è di nuovo
trasformabile in una merce pronta per essere venduta sul mercato,
quella parte del valore che appunto per questo è senza prezzo e
possiede soltanto dignità, questo movimento è esattamente
l’equivalente della mondializzazione, della formazione del mercato
mondiale. Soltanto il mercato mondiale, facendo collassare il mondo, il
mondo nel senso che ad esso dava Heidegger, rendendo gli esseri umani
privi di mondo, è la condizione dell’emancipazione umana, a
patto ovviamente che si dia quell’inversione che è la
rivoluzione per Marx e che consiste nel rimettere il mondo come stava
prima, dal momento che il mondo per crescere si è dovuto
‘rinversare’.
Il mondo è antropogenico, fonda la
dignità dell’uomo, a condizione di essere il mercato mondiale,
il mondo della mondializzazione capitalistica, a condizione insomma che
l’uomo diventato come pietra o cenere sia quell’ente che non ha mondo,
che è privo di mondo, che è senza mondo.
Note
1)
Cfr. A. Toynbee, Il mondo e l’occidente (1952), tr. it. di G.
Cambon, Sellerio, Palermo 1992.
2)
Ivi, p. 11.
3)
Su questo punto si vedano le importanti considerazioni svolte da
Giacomo Marramao nel suo Passaggio a Occidente, Bollati
Boringhieri, Torino 2003, soprattutto il primo capitolo.
4)
A. Toynbee, Il mondo e l’occidente, cit. p. 54.
5)
M. Heidegger, L’essenza del fondamento, tr. it. di P. Chiodi in
Id., Essere e tempo. L’essenza del fondamento, Utet, Torino
1969, pp. 644-658.
6)
M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo -
finitezza - solitudine, tr. it. di P. Coriando, il Melangolo,
Genova 1983, p. 232.
7)
Ivi, p. 302 sg.
8)
Su questo punto rinvio al mio La scena del presente. ‘Storicismo’ e
‘fine della storia’ in Michel Foucault, in AA. VV., Genealoga
dell’umano. Saggi in onore di Aldo Masullo, Guida, Napoli 2000, p.
365 sg.
9)
J-L. Nancy, Le sens du monde, Galilée, Paris 1993, p. 13.
10)
Su questo punto si veda J-L. Nancy, L’"etica originaria" di
Heidegger, tr. it di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996.
11)
M. Heidegger, Conferenze di Brema e di Friburgo, Adelphi,
Milano 2002, pp. 49-50. Si tratta della seconda conferenza pronunciata
a Brema nel 1949, intitolata L’impianto.
12)
Sul rapporto di Heidegger col nazismo mi sia permesso rimandare al mio Mondo
e senso. Heidegger e Celan, Cronopio, Napoli 1998.
13)
J-L. Nancy, La création du monde ou la mondialisation,
Galilée, Paris 2002, pp. 18-19.
14)
K. Marx F. Engels, L’ideologia tedesca, tr, it. di F. Codino,
in K. Marx F. Engels, Opere, vol. V, 1854-1846, Editori
Riuniti, Roma 1992, p. 36.
15)
Ibidem.
16)
Ivi, pp. 36-37.
17)
J-L. Nancy, La création du monde ou la mondialisation,
cit. p. 23.
18)
K. Marx, Lineamenti fondamentali dell’economia politica, tr.
it. di E. Grillo, la Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 184.
19)
J-L. Nancy, La création du monde ou la mondialisation,
cit., p. 25.