La questione del 'mondo' a partire dal
detto di Bruno "mettere sotto sopra il mondo rinversato"
di
Aldo Masullo
Rileggiamo una straordinaria pagina
di Giordano Bruno nel De l’infinito, universo e mondi.
BURCHIO - Cossì dumque gli
altri mondi sono abitati come questo?
FRACASTORIO - Se non cossì
e se non megliori, niente meno e niente peggio: perché è
impossibile ch’un razionale et alquanto svegliato ingegno possa imaginarsi
che sieno privi di simili e megliori abitanti, mondi innumerabili che
si mostrano o cossì o più magnifici di questo; i quali
o son soli, o a’ quali il sole non meno diffonde gli divinissimi e fecondi
raggi, che non meno argumentano felice il proprio soggetto e fonte,
che rendeno fortunati i circonstanti partecipi di tal virtù iffusa.
Son dumque infiniti gl’innumerabili e principali membri de l’universo,
di medesimo volto, faccia, prorogativa, virtù et effetto.
BURCHIO - Non volete che tra altri
et altri vi sia differenza alcuna?
FRACASTORIO - Avete più volte
udito che quelli son per sé lucidi e caldi, nella composizion
di quali predomina il fuoco; gli altri risplendeno per altrui participazione,
che son per sé freddi et oscuri: nella composizion de quali l’acqua
predomina. Dalla qual diversità e contrarietà depende
l’ordine, la simmetria, la complessione, la pace, la concordia, la composizione,
la vita. Di sorte che gli mondi son composti di contrarii; e gli uni
contrarii, come le terreacqui, vivono e vegetano per gli altri contrarii,
come gli solifuochi. Il che credo intese quel sapiente che disse Dio
far pace ne gli contrarii sublimi; e quell’altro che intese il tutto
essere consistente per lite di concordi et amor di litiganti.
BURCHIO - Con questo vostro dire
volete ponere sotto sopra il mondo.
FRACASTORIO - Ti par che farrebe
male un che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato? (Opere
italiane - I. Dial. metaf., ed. G. Gentile, Bari 1925, Laterza,
pp. 362-363).
Subito incuriosisce il fatto che qui,
nel cuore della grande discussione intorno al mondo, tema inquietante
della nuova astronomia, antiaristotelica e antitolemaica, il discorso
cioè il trattamento logico del contenuto concettuale "mondo"
in un contesto fisico, facendosi eloquenza, obbedendo cioè al
trattamento retorico della forma, usi il termine "mondo" con
il significato metaforico interno al contesto della cultura popolare,
dove "il mondo sotto sopra" significa l'ordine sociale - l'ordine
della "normale" quotidianità - rovesciato!
La novità, che Bruno introduce
nel repertorio retorico delle metafore, è l'immagine del metter
sotto sopra un ordine che si trova già messo sotto sopra, la
pratica di una negazione della negazione: raddrizzare l'ordine capovolto,
restituirlo alla normalità, ristabilire l'ordinaria gerarchia
tra enti e tra valori. Si tratta della rivoluzione come restaurazione,
secondo il modello della fisica astronomica, in cui la "rivoluzione"
di un corpo è il compimento della sua orbita, ossia il suo ritorno
al punto in cui esso si trovava all'inizio del movimento.
Il "mondo" rovesciato, che
qui s'intende "rovesciare" a sua volta, dunque raddrizzare,
è l'episteme cosmologica, considerata dal punto di vista sia
del merito (pp. 361-2, 363) sia del metodo (p. 365).
Il fatto è che nel rovesciarsi
dell'episteme il significato stesso del termine "mondo" è
rivoluzionato rispetto al luogo comune aristotelico. Per Aristotele
il nome di "mondo" significa "il convesso del primo mobile,
che, di perfetta rotonda figura formato, con rapidissimo tratto tutto
rivolge, rivolgendosi egli, circa il centro, verso il quale noi siamo".
Bruno invece con il nome di "mondo" intende "l'agiungere
mondo a mondo, come astro ad astro in questo speciosissimo etereo seno",
così come hanno ritenuto i "sapienti ch'hanno stimati mondi
innumerabili ed infiniti" (p.369). Insomma, il "mondo"
di cui parla Bruno è l'"universo", che è fatto
di un'infinita pluralità di mondi, ognun dei quali è universo:
"il mondo ed universo è uno, se dev'essere perfetto"
(p.400): ovvero se la perfezione dell'universo sta nella sua infinità,
e dunque non può esser fatto che di parti infinite, ogni mondo
in quanto parte dell'universo infinito è esso medesimo infinito.
Con Bruno non c'è più
l'aristotelico mondo "convesso del primo mobile", e dunque
centro dell'universo. Né più l'uomo, l'animale pensante
che abita il mondo, è al centro della realtà naturale.
La fine del geocentrismo comporta la fine dell'antropocentrismo.
Tuttavia, per quanto non più
centro assoluto, il mondo rimane centro, e centro rimane l'uomo come
il vertice dell'angolo che in ogni determinata visione definisce il
campo del visibile. L'uomo resta l'unico "punto di vista",
l'"origine" stessa della rappresentabilità del mondo.
Il punto di vista ogni volta, nella sua identità, non è
confondibile con alcun altro e diverso punto di vista. In questo senso
esso è assoluto. Proprio perciò la cultura del Seicento,
portando a maturazione la nuova episteme, s'interroga sull'essere non
più dell'ente ma della rappresentazione.
Non meno rimangono centri tutti gli
altri punti di vista. In quest'altro senso ogni punto di vista è
relativo.
In conclusione la relatività
del punto di vista (relatività non contraddittoria con la sua
assolutezza) significa semplicemente che il punto di vista, ogni effettivo
punto di vista, se non s'identifica con nessuno degli altri effettivi
o possibili punti di vista, tuttavia si trova sempre in relazione (effettiva
o possibile) con ognuno di essi.
È chiaro allora che la "democrazia"
è la struttura essenziale del modo d'essere "punto di vista".
Un punto di vista privilegiato, nel suo "splendido isolamento",
è impensabile. Che il potere imponga il suo punto di vista è
arroganza pratica, mai fondata veridicità.
A proposito del punto di vista inteso
come centralità di un pensiero rispetto al suo panorama, in uno
dei passaggi del De immenso, Bruno scrive: "giova ora dirigere
il cammino là dove sorge Venere; da essa la Terra è visibile
non meno di quanto Venere a sua volta lo sia per la Terra" (Opere
latine, tr. it., Torino, UTET, p.594). La Terra è il luogo
da cui noi guardiamo tutto ciò che si ritrova squadernato nell’Universo,
ma noi stessi, mentre siamo il punto di vista da cui si guarda tutto
l’Universo, siamo anche una parte dell’Universo che può essere
guardata da un altro punto di vista. Nello stesso brano si legge pure:
"Continua il tuo cammino: volgiti là: perché rimane
attonito e smarrito il tuo senso, non avvezzo a tale spettacolo, il
tuo senso che viene meno a se stesso? È per te cosa straordinaria
andare verso una nuova Terra o una nuova Luna. Non stare in ansia, anche
questo è un mondo simile"
La reciproca relazione dei punti di
vista, l’equipollenza di tutti i centri – perché ognuno è
centro non più né meno dell’altro –, ma anche l'emozione
che la fantasia del possibile guardare la Terra da un luogo fuori di
essa, dunque relativizzata, provoca in chi su di essa è abituato
a considerarsi nell'assoluto centro dell’universo, tutto questo ci pone
già di fronte a quella situazione di inversione del punto di
vista e dell’orizzonte, che sarà sperimentata soltanto all’inizio
del XX secolo, quando cominceranno i voli, non dico gl'interplanetari,
ma puramente e semplicemente i voli. Allora sarà possibile guardare
dall’"alto" ciò che, stando sulla terra, noi guardiamo
dal "basso". Ci si accorgerà così, proprio sulla
base dell’esperienza sensibile, che non c’è un alto e un basso,
ma tutto è relativo ai punti di vista.
L'idea della "centralità"
della Terra produce peraltro effetti ancora nel più alto pensiero
post-moderno, come per esempio in un celebre manoscritto di Husserl.
L’uomo, vi si legge, è legato alla Terra, però adesso
può volare, può andare sugli altri corpi celesti; tuttavia,
ovunque l’uomo vada, da qualunque punto di vista guardi la Terra, egli
è sempre sulla Terra: non nel senso materiale della parola, bensì
nel senso mentale. La Terra è ciò su cui poggiamo i piedi
idealmente, è il punto di vista dal quale ci poniamo comunque.
Idealmente la Terra si sposta insieme con noi. "Non vi è
che una umanità e una Terra. Ad esse appartengono tutti i frammenti
che eventualmente sono o sono stati separati" (L'arche-originaire
Terre ne se meut pas, ined. scritto tra il 7 e il 9 maggio 1934,
tr. fr. in "Philosophie", N.1, gennaio 1984, Paris, p. 20, Les Ed. de
Minuit).
C’è ancora una cosa da osservare,
molto importante. Il punto di vista, se ben pensato, è l’unica
cosa che non sia visibile a partire da esso. Il punto di vista è
il vertice del mio panorama ma non vi rientra. È il principio
del mio vedere ma non posso vederlo. Quindi, il punto di vista è
un luogo di contraddizioni della nostra esperienza. Il che fa sì
che si determini un fenomeno molto importante non solo sul piano antropologico
ma anche nella fenomenologia della coscienza.
Questo fenomeno consiste nel fatto che
da un lato, in quanto punto di vista, io stesso sono compreso nel mondo,
ma dall’altro il mondo è parte di me, perché io lo comprendo
(dal verbo cum-prehendere, "prendo-insieme"). Al tempo
stesso, nella terminologia di Goethe, l’uomo è "comprendente
[ umfangende]
" e "compreso [
umfangen] "
(E.Cassirer, Individuo e cosmo nel Rinascimento [
1927] , tr.it. Firenze 1935, p. 296,
La Nuova Italia).
Siffatto paradosso echeggerà
nelle polemiche interne alla fenomenologia, fra Husserl e Heidegger.
Come può la coscienza essere
in uno "compresa" e "comprendente"? Come può
essere la coscienza un momento della realtà e, al tempo stesso,
comprendere dentro di sé la realtà? Non è questo
oggi il nostro tema e quindi subito ce ne allontaniamo. Ho voluto, tuttavia,
ricordarlo per alludere all’enorme potenza trasformatrice che Bruno,
con il suo pensiero, introduce nella mentalità moderna. Per essa
davvero il mondo si "rinversa", e non per restare rovesciato,
cioè mal posto, ma per essere restituito alla sua retta posizione,
alla sua verità, alla sua episteme autentica.
Vorrei ora introdurre una considerazione
che avrebbe potuto fare anche da prologo al mio discorso. Tutto il pensiero
occidentale, a partire da Platone e Aristotele, e ancor prima anzi da
Parmenide, poi attraverso Bruno – e vedremo in quale modo – sta intrappolato
nella terribile idea che genera l'angoscia l’uomo.
Eraclito in un celebre frammento (91
Diels) sentenzia che di ogni "ente mortale", di ogni realtà
naturale, non si può disporre due volte a causa della rapidità
e repentinità del mutamento (metabolé). Si badi
bene: non si tratta qui del mutamento come passaggio (temporale) da
un momento ad un altro momento (ad esempio, prima stavamo beati al caldo
sole del parco, ora ci troviamo in questa specie di cripta sontuosa
ma gelida a celebrare la nostra pallida filosofia). In effetti, non
è possibile cogliere l'essere d'una cosa, data appunto la rapidità
del cambiamento, non del cambiamento come passaggio dal prima al dopo,
bensì come radicale inconsistenza della cosa, la quale già
mentre si forma si dissolve, insomma mentre è non è. Si
tratta della tesi tragica che le cose non cambiano nel passaggio da
un momento all’altro, ma, nel medesimo istante in cui sono, non sono,
mai dunque identiche con sé. Io credo che qui si configuri rigorosamente
il concetto di nichilismo ed esso si avvii ad accompagnare tutto il
pensiero occidentale.
Il nichilismo appena insinuatosi comincia
ad essere fronteggiato con apposite macchine ideologiche. Così
Parmenide sostiene che sì, le cose cambiano, non resistono neppure
nell’istante in cui presentandosi sembra che ci siano, ma queste sono
le cose solo "apparenti", fantasmi di sensi. Di contro, c’è
l’essere e l’essere non muta. Un gigantesco ministero ideologico della
difesa, installatosi nel pensiero occidentale comincia allora ad elaborare,
contro la devastante aggressione del sospetto che nulla sia, forti strategie
di rassicurazione, come fondamentale tesi del doppio mondo, l'ideale
al di là del reale,
Mentre Parmenide a modo suo e in altri
modi Platone e Aristotele avevano via via costruito sistemi di fortilizi
per arginare con paradigmi di stabilità la totale instabilità
di noi stessi, Bruno si trova nel bel mezzo del cammino del pensiero
occidentale, in un momento in cui bisogna inventare nuove difese contro
la minaccia dei nichilismo. Perché difese nuove? Il fatto è
che Bruno, pensando l’universo infinito, ha evocato non solo l’infinità
spaziale ma anche quella temporale. Egli ha detto che l’universo non
nasce e non perisce. Non esiste una cosmogonia e, quindi, non esiste
neanche una cosmoftorìa. L’universo non nasce e non perisce:
è eterno. Tuttavia, di che esso consiste? Certo di differenze.
Senza differenze non ci saremmo neppure noi; l’universo sarebbe come
una informe fusione. Invece noi continuamente ci differenziamo, la nostra
vita è un passare, una storia. L’unità dell’universo è
fatta delle innumerevoli rappresentazioni effettive, la cui differenza
diacronica è convertibile nell'identità sincronica di
una rappresentazione ideale, come in un unico "colpo d'occhio".
Le molteplici fasi successive di un processo fisico o storico sono così
sempre rappresentabili in una sinossi.
Mentre nell'"oggettività"
della rappresentazione la differenza è riducibile all'identità,
nella "soggettività" del vissuto la differenza è
irriducibile. Nel primo caso funzione originaria in gioco è lo
spazio, nel secondo caso è il tempo. Il tempo come differenza
irriducibile dei vissuti è appunto ciò che ha consentito
a Eraclito di dire che nessuna cosa è identica a sé neppure
in un medesimo istante, dato che l'istante è intrinsecamente
differenza. Si può dire anzi che l'istante nel senso forte (e
non nell'aristotelica accezione debole di artificio intellettuale o
finzione di "limite" di un continuo, spaziale non meno che
temporale) è in sé il tempo originario, cioè l'irresistibile
irrompere della differenza, come io stesso ho cercato di mostrare nel
mio libro Il tempo e la grazia (Roma 1995, Donzelli).
Perciò Bruno, sostituendo all’universo
statico di Aristotele e di Tolomeo l'universo che infinitamente si muove
e infinitamente si differenzia ma, pur differenziandosi, rimane uno,
può per la prima volta porre seriamente il problema di come pensare
il tempo.
C’è una bellissima pagina di
Bruno negli Eroici furori (parte prima, dialogo quinto), in cui
si parla del tempo come dell’instans. Va sottolineata la struttura
latina della parola in-stans: "ciò che sta sopra,
ciò che incombe".
L’"istante" è nel pensiero
di Bruno non l'artificio intellettuale del "limite", quel
che strumentalmente rende misurabile la grandezza "continua"
del tempo fisico, come per Aristotele, ma l'unitario atto metafisico
dell’infinito differenziarsi, in forza del quale lo stesso spiegarsi
dei tempi convenzionali degli orologi, dei calendari e così via,
è reso possibile.
Insomma la pluralità dei tempi
sta sotto l’unità del tempo, la pluralità dei momenta
sotto l'unità dell’instans.
Passiamo ora ad una considerazione che
si trova sempre nel De infinito, universo e mondi. Ad un certo
punto vi si dice – è una battuta assai singolare – che l’idea
della pluralità dei mondi ha il suo sostegno nell’esigenza di
rendere possibile il dialogo, mancando il quale – parole testuali di
Bruno – "non s’arrebbe bontà civile, la quale consiste nella
civile conversazione" perché in questo caso – cioè
se non ci fosse una pluralità di mondi – "non arrebono fatto
bene gli dei creatori dei diversi mondi di non far che gli cittadini
di quelli avessero reciproco commercio". (Dial. ital.- I. Dial.
metaf., cit., p. 399).
Gli dei che hanno fatto i mondi - la
molteplicità dei mondi - avrebbero fatto male se avessero fatto
tutto ciò senza pensare che essa è finalizzata all’allargamento
del dialogo tra gli uomini. Il dialogo deve poter senza limite allargarsi
non solo tra gli uomini che sono su questo mondo, ma tra tutti i possibili
uomini che si trovassero su tutti i mondi possibili. Il che, in una
versione cosmologica, è poi quello che, in una versione politico-sociologica,
sarà molto più tardi il tema di alcune filosofie contemporanee
– si pensi ad Habermas e ad Apel – vale a dire il principio della illimitata
espandibilità del dialogo come condizione fondativa dell'etica.
Il dialogo è veramente tale solo quando si può illimitatamente
espandere. In effetti anche al dialogo si può applicare la legge
dell’entropia: se in quattro ci mettessimo a conversare, ci diremmo
cose nuove una volta, cose nuove una seconda volta; ma se stessimo sempre,
per anni interi, solo tra noi a conversare, alla fine parleremmo senza
dirci più nulla, diventeremmo stupidi. Il discorso mentale in
tanto è possibile nel suo potere in quanto è illimitatamente
aperto al non ancora.
In Bruno l'idea dell’illimitabilità
del dialogo è esplicita. L’infinità dei mondi non è
tanto quella fisicamente intesa, quanto l'infinità degli universi
mentali, ovvero delle culture. Il principio ordinatore del mondo, come
si ammonisce nello Spaccio della bestia trionfante, è
"la communione degli uomini, la civile conversazione", e perciò
"nessuna legge, che non è ordinata alla prattica del convitto
umano, deve essere accettata" (Dial. ital., II - Dial. morali,
cit. , pp. 88-89)
In questo, che oserei definire trascendentale
principio etico-politico, appaiono contenersi le ancor oggi tutt'altro
che esaurite potenzialità civilizzatrici del pensiero di Bruno.
Esso, per noi uomini del post-moderno, risuona come un non rassegnato
grido contro ciò che su questo piano implica la malinconica conclusione
del grande biologo Jacques Monod. Nel suo più celebre libro si
avvertiva che l'uomo attraverso la scienza "finalmente sa di essere
solo nell'immensità indifferente dell'Universo da cui è
emerso per caso" (Il caso e la necessità [
1970] , tr. it. di A.Busi, Milano 1970,
Mondadori, p. 143).
Il pensiero di Bruno è il canto
della ragione, la quale non può rinunciare alla prospettiva in
cui la sua stessa essenza consiste. La pluralità dei mondi, la
illimitatezza del dialogo, il nostro immaginare compagni in altri luoghi
dell’universo, e così l'autoalimentarsi del pensiero si contrappongono
alla desolazione che l'uomo di oggi va disegnando di sé.
La solitudine dell'uomo argomentata
dalla scienza "post-moderna" colpisce a morte la dialogica
prospettiva del pensiero "moderno".
Ma l'assoluto della solitudine è
la negazione di relatività e infinitamente aperta pluralità
della relazione: è la negazione stessa della ragione
Il mondo rovesciato è il mondo
che non è "mondo" ma "immondo", non puro
ma contaminato.
L'idea dell’immondità del mondo,
che domina tutta la cultura medievale, è il pensiero del luogo
in cui, agostinianamente, si raccoglie l’umanità come massa
damnationis.
Con il Rinascimento, essenzialmente
con Bruno, il mondo cessa di essere un'idea, una rappresentazione mentale,
e diventa un problema. Non è più una dottrina della teoresi
ma un compito della prassi. Cessa insomma di essere un filosofema dottrinario
per diventare una riflessione etica ed un progetto politico, l'impegno
per la trasformazione dell'umanità sociale come condizione per
la trasformazione dell'umanità personale.
Il mondo originario, incorrotto, il
"mondo" stesso che, quale contrario dell'"immondo",
veniva immaginato come il mondo celeste, l’"altro mondo",
con il corredo di astratte rappresentazioni e di strutturate emozioni,
istituzionalizzate nella cultura del "sacro" nel senso cristiano,
all'epoca di Bruno si avvia decisamente a secolarizzarsi. Le categorie
del sacro divengono categorie laiche.
Cos’è questo se non un processo
attraverso cui l’immondità cerca di scoprire dentro di sé
la mondità, e più precisamente la mondità non come
un trascendente ma come un immanente? Questo è l’avvio della
trasformazione moderna, è il mondo rovesciato che viene a sua
volta rovesciato per essere rimesso in piedi.
In fondo, noi siamo esposti, nella nudità
delle nostre intelligenze e delle nostre volontà, alla complessa
e conflittuale influenza delle forze del mondo. In ultima analisi dobbiamo
sentirci responsabili non di fronte a regole, leggi, comandi, sovrani,
ma esclusivamente dinanzi a quell’umanità che, quando incontriamo
e interroghiamo e ascoltiamo altri uomini, questi e gli altri immaginabili
uomini, ciascuno e tutti insieme noi siamo.
Naturalmente noi oggi ci troviamo di
fronte ad una situazione più grave e dolorosa di quella in cui
si trovò Bruno.
Siamo alla presenza di un’immondità
divenuta, per dirla con la Arendt, una "banalità".
La banalizzazione del male, il male divenuto talmente compenetrato con
il mondo da apparire banale, non più rilevabile, insomma tale
che "non fa più differenza", ci pongono in uno stato
d'indifferenza.
Non siamo neppure più interessati
alla salvezza.
Secondo quanto annuncia il famoso verso
di Hölderlin riportato da Heidegger, ciò che ci perde è
ciò che ci salverà. Ebbene, cos'è che ci perde?
Ci perdono la nostra coscienza, la nostra volontà, la nostra
libertà.
Ma, se coscienza e volontà e
libertà si sono dissolte nell'insensatezza dell'indifferenza,
allora bisogna ammettere che neppure ciò che ci perde può
salvarci, dal momento che proprio è perduto.
Per non cedere alla disperazione, ci
abbandoniamo all'indifferenza.
La banalità del male non può
far altro che sempre ancora rinforzare se stessa.
L'immondità diviene essa il mondo:
"così va il mondo"! Il mondo risulta capovolto nel
suo contrario, rovesciato nell'immondo.
"Ti par che farrebe male un
che volesse mettere sotto sopra il mondo rinversato?"