Mondo e mondi nella riflessione
di Hannah Arendt
di Margarete Durst
Che il mondo costituisca una
categoria portante del pensiero di Arendt risulta innanzitutto dagli
scritti dell’autrice, in cui il termine assume una rilevanza problematica
estremamente significativa, dalla prima opera, la tesi di dottorato
su Il concetto d’amore in Agostino
1,
all’ultima, La vita della mente2, edita postuma. Nel
primo lavoro si attribuisce al filosofo, uno dei più citati da
Arendt, un dislocamento dell’amore dal mondo a Dio e, di conseguenza,
un disinvestimento d’interesse dalla terra, abitata dalla pluralità
degli uomini, alla città celeste: la nuova Gerusalemme. Nel secondo
testo - avviato tanti anni dopo, con alle spalle, oltre a un lungo e
complesso itinerario di ricerca attraverso aree disciplinari diverse
(sempre limitrofe a quella filosofica), un’intensa attività di
pubblicista su questioni di forte attualità, accompagnata in
alcuni casi da un personale impegno pratico - il mondo, nel puntellare
le due parti compiute dedicate al pensiero e alla volontà, si
configura in maniera assai più articolata, rivelando una forte
tensione alla differenziazione. Young Bruehl ha sintetizzato questo
percorso nel bel titolo della sua biografia di Arendt, Per amore
del mondo3, che mi sembra colga la continuità
di una riflessione tanto sfaccettata quale quella arendtiana nel nucleo
problematico del testo giovanile. Nucleo centrato su quella che, anni
dopo, la stessa Arendt ha chiamato la "passione di pensare",
cioè sulla sete di significato, di senso, che non si soddisfa
delle risposte parcellizzate e di settore, e che l’autrice indirizza
al mondo quale dimora della pluralità umana.
Va osservato che Remo Bodei nel
suo libro su Agostino, Ordo amoris4, nel sottolineare
la dimensione di universalità che, nella prospettiva agostiniana,
acquista l’amore umano per contagio da quello divino, collega un simile
ampliamento di orizzonte non al distacco dal mondo, come fa Arendt,
bensì a una ricomprensione innovativa dello stesso, tale da rendercelo
trasfigurato. Temi, questi ultimi, che ritroviamo nei testi arendtiani
ma collegati al potere che hanno l’arte, la storia e la narrazione di
edificare e di salvare il mondo attingendo alla forza innovativa della
natalità. L’arte in particolare, pur essendo al pari della storia
e della narrazione "cosa di pensiero"5, pertanto
aleatoria e fragile, mostra una "permanenza" che le permette
di rendere "trasparente la stabilità del mondo"6,
e questa capacità è indice di un aggancio estremamente
intenso alle potenzialità creative offerte ad ogni uomo e donna
da una dote tanto preziosa quanto fragile quale è la nascita.
La natalità è appunto la forza creativa che si trae dalla
nascita, cioè dal fatto elementare che si viene messi al mondo
da altri e che tale immissione, nell’introdurre nel mondo un cambiamento
irreversibile, offre ad ogni essere umano un potenziale innovativo che
sta a ciascuno/a di noi sfruttare allorché ci si trova a misurarsi
con il mondo ricevuto in eredità da altri7. Nel rapporto
tutto immanente che l’uomo ha con il mondo si profila dunque una forma
di emergenza, si può dire di trascendenza assumendo il termine,
come fa anche la nostra autrice, nel senso, tipico della tradizione
esistenzialista, di apertura ad un’alterità sempre mondana che
dispone alla progettualità e all’esercizio della libertà
attraverso la scelta. Dove decidersi ed agire significa esercitare la
capacità di pensare cioè di sapere cosa si sta facendo.
Il mondo, come per intero la
condizione umana, è dunque segnato dalla contingenza ed esposto
al rischio dell’annullamento e della perdita proprio perché esiste,
perché è una realtà fattuale e non gode di alcuna
assolutezza. L’impatto della vita umana con il mondo risulta per tale
verso strutturale e il concetto di mondo acquista per tale via un fondamentale
tratto umanistico, senza che per questo l’essere umano venga investito
di funzioni prometeiche o demiurgiche. Infatti il mondo è qualcosa
che non si può pensare di forgiare a proprio piacimento perché
lo si riceve in eredità con la nascita e come ogni eredità
richiede un’accoglienza e un riconoscimento, cioè una ricezione,
le cui componenti passive non possono essere ignorate, pena il misconoscimento
della stessa condizione umana. Come ogni ricezione anche questa non
è, però, mai del tutto passiva, anche nel caso che non
s’intenda fare fruttificare tale eredità investendola in un progetto
d’azione per la salvaguardia e il rinnovamento del mondo ricevuto in
consegna. Per altro verso anche il mondo si trova a dover accogliere
e riconoscere il nuovo che ogni essere umano, nascendo, introduce in
esso, e che può diversamente esprimersi a seconda delle modalità
in cui si viene accolti e riconosciuti. Questa spiccata coloritura umanistica
nell’assimilare il mondo alla comunità umana non pretende ignorare
la componente naturale, quindi animale, della vita umana, ma sottolinea
come uomini e donne si caratterizzano quali esseri biologici che "abitano
la terra" forgiando strumenti, elaborando tecniche, ideando progetti
operativi e mettendoli in pratica, in sintesi: trasformando il mondo
in una dimora dove poter vivere in base alla loro idea di vita nel mondo.
Da qui anche lo scarto tra mondo dato e mondo immaginato suscettibile
di tradursi in conflitto tra diverse idee di mondo e tra diversi mondi
dati.
In questo approccio arendtiano
al mondo, oltre che all’eco del pensiero heideggeriano (su cui mi soffermerò
più avanti), avverto delle risonanze agostiniane legate soprattutto
alla complessità del nesso tra mondo dato e mondo immaginato.
Mondo, in questo secondo caso, del pensiero e del cuore (o dell’anima
intesa come sede degli affetti) perché ideato e desiderato, sempre
però a partire da una situazione data che si pensa e vuole "diversa".
Rispetto ad Agostino rimane comunque la differenza che i mondi di cui
parla Arendt sono comunque terreni, ‘mondi di questo mondo’, edificati,
immaginati, salvati da esseri umani in grado di agire e pensare in quanto
le loro vite hanno un inizio e una fine, e potranno quindi durare, al
di là della morte, esclusivamente nel ricordo delle generazioni
future. Laura Boella, esaminando il rapporto di Arendt con Agostino,
insiste molto, e a ragione, su questo iato8, ma ritengo che
tale legame vada ulteriormente indagato perché - posto che per
la filosofa, negatrice di ogni dualismo, il mondo è interamente
dell’apparenza - il potere di pensare un mondo diverso implica una capacità
trasfigurativa nei confronti del mondo quale appare che postula un’esperienza
di mondanità ‘altra’. In altri termini, il carattere della mondanità
che è costitutivo della condizione umana, come si dimostra in
La condizione umana. Vita activa (tappa fondamentale del discorso
arendtiano sul mondo), risulta controverso per lo scarto, già
messo in luce, tra la datità del mondo e i mondi possibili che
prospettano situazioni di vita diverse: non esperite ma esperibili,
non pensate ma pensabili. D’altronde chi, come Arendt, ritiene che per
dire di conoscere la giustizia e il bene bisogna essersi imbattuti in
almeno una persona giusta e buona, e che per dire di amare l’umanità
occorre amare almeno una persona9, non è possibile
scindere pensiero ed esperienza, tanto più quando in questione
è il mondo, cioè una precondizione sia dell’uno che dell’altra.
Ci troviamo così di fronte
al paradosso di un mondo che è e non è per intero il mondo
che appare, e tale paradosso emerge dal contesto stesso della condizione
umana, i cui caratteri costitutivi si richiamano l’un l’altro e trovano
senso nel rapporto reciproco, investendo gli uomini e le donne che abitano
la terra di una problematicità non risolvibile sul piano meramente
logico. L’individualità plurale costitutiva di ogni essere umano
si riflette così nell’unità-molteplicità del mondo,
di cui è segno immediato il polimorfismo della terra (ispiratore
di pagine divenute famose di La vita della mente10),
la varietà delle situazioni storiche, degli assetti sociali,
dei modi della produzione, delle tradizioni culturali e delle tipologie
dell’azione e del discorso. Il mondo quale terra abitata dagli uomini
è dunque prolifico di pluralità e, da qui, di diversità;
quella diversità che dà al mondo la chance di rinnovarsi
e di durare, salvandosi dal dissolvimento cui lo esporrebbe tanto la
mera ripetizione quanto l’innovazione ad oltranza. La pluralità,
in tal senso, salvaguarda il mondo dalla distruzione perché è
comunque indicativa di una relazione che mette al riparo dalla caduta
nell’identico, nell’unicità dell’uguale, in cui Arendt intravede
sempre lo spettro del totalitarismo. L’annullamento della distanza,
che con la vicinanza è garanzia di ogni relazione, espone infatti
l’essere umano - per costituzione individuo al plurale - al pericolo
della perdita di mondo11, che avanza nelle società
contemporanee tramite l’omologazione indotta dai comportamenti improntati
al "si" conformistico (si dice, si fa, si pensa). Proprio
in quanto interrelata, la pluralità impegna invece ad articolare
i rapporti e ad esercitare la pratica della disgiunzione e dell’associazione
per intessere trame connettive tra i vari mondi dell’universale mondo
umano, in grado di contrastare tanto le spinte centrifughe di tipo dissipativo,
che più espongono alla frammentazione, quanto le spinte centripete
che sfociano in assimilazioni agglutinanti delle diversità.
Diversità di mondi, dunque,
che hanno bisogno, per essere riconosciuti come mondi umani, di rimanere
agganciati al mondo quale dimora dell’universale comunità umana.
L’individualità-plurale marca pertanto anche il mondo, estromettendolo
da qualsivoglia prospettiva ontologica e metafisica in cui si adombri
un’entità per sé sussistente. Il mondo umano non è,
inoltre, parto di un Pensiero, Logos, Spirito, Idea o Ragione che dir
si voglia, ma ha le sue radici nella disposizione ad essere affetti,
a provare, a sentire, in una relazione d’alterità pre-intenzionale
di matrice corporea che ci accomuna all’animalità, propria della
vita come zoe, manifestandosi in noi in vita come bios, intenzionalmente
orientata12. Da qui il distacco, al di là delle molteplici
affinità, tra la concezione del mondo di Arendt e quella di Heidegger.
Distacco in cui gioca un ruolo anche la riflessione condotta dalla prima
sui testi dedicati da Merleau-Ponty alla percezione, che sono alla base
di una filosofia della corporeità ancora da svolgere ma indubbiamente
centrata sul rapporto uomo-mondo. Diversa è la valorizzazione
del prelogico operata, sulla scia di Dilthey e della sua filosofia della
vita, da Heidegger, in quanto è connessa all’interazione tra
precomprensione e comprensione che risulta meno centrata sulla relazione
uomo-mondo di quanto non appaia la valorizzazione arendtiana della corporeità
sensibile-affettiva. E’ comunque indubbio che anche Heidegger riconosce
al mondo una funzione di perno della condizione umana, inoltre egli
si rifà, al pari di Arendt, alla tradizione filosofica kantiana
che tende a riferire il termine fondamentalmente alla sintesi e alla
rappresentazione della totalità delle cose finite. Determinante
rimane, però, per lui lo sfondo di riferimento all’ente in quanto
tale che costituisce il tutto come l’oltre, che è al di là
di ogni visione mondana. Anche l’immagine heideggeriana di mondo quale
"dispiegarsi della contrada", che differendo dal mondo come
orizzonte dei fenomeni apre lo spazio dell’incontro, non riguarda l’incontro
interumano, che più interessa ad Arendt, bensì quello
con l’ente che trascende l’esperienza fenomenologica del mondo legata
alla rappresentazione; esperienza che per la nostra autrice è
intrascendibile.
L’antica allieva di Heidegger
pensa al mondo in termini segnatamente umanistici, comunitari e politici
e questo suo modo d’intendere il mondo, in cui si avvertono echi agostiniani,
è associabile alla concezione espressa da Kant nell’Antropologia
dal punto di vista pragmatico, opera che proprio per il fatto di
non rientrare nell’ambito del trascendentale a priori, e di essere pertanto
poco concettuale e sistematica, è stata sottovalutata dalla tradizione
filosofica novecentesca. Sempre a Kant, va inoltre collegata la sua
idea che il rapporto con il mondo postula l’arte del pensiero, ed in
specie quella capacità di assumere diversi punti di vista che
distingue chi sa pensare in maniera allargata. Tale capacità
costituisce in politica una virtù epistemica ed è quindi
indispensabile a orientare la volontà verso azioni in grado di
modificare l’ordine dato delle cose.
Va inoltre notato come la tripartizione
dell’ente elaborata da Heidegger in base all’analisi delle principali
tappe della storia del concetto di mondo, scandita su il materiale (la
pietra) senza mondo (weltlos), l’animale povero di mondo (weltarm)
e l’uomo formatore di un mondo (weltbildend)13, riecheggia
in tanti testi arendtiani, in particolare in La condizione umana
e in La vita della mente, deprivata dello spessore ontico che
le riconosce il filosofo. Ho trovato conforto alla tesi che nel mutuare
gran parte della terminologia heideggeriana, Arendt costruisca un discorso
proprio sul mondo nel recente saggio l’Interpretazione neoparmenidea
del concetto di mondo in Heidegger cui faccio qui riferimento14.
Infatti, nel rimarcare come il criterio discriminante di tale tripartizione
ruoti intorno alla categoria di vita e alla diversità tra la
dimensione del senza vita e quella della vitalità del vivente
sia irrazionale che razionale, l’autore sottolinea il ruolo fondante
che "l’ente in quanto ente" ha nei confronti del mondo; dove
invece per Arendt non ha senso parlare di "ente in quanto ente",
estraneo all’orizzonte delle rappresentazioni fenomeniche. Il discorso
heideggeriano sia sul mondo come accessibilità dell’ente, che
sull’avere mondo come il riferirsi, o il tenersi in rapporto, all’ente
che si rende accessibile presuppone un "ente in totale" assente
dalla riflessione arendtiana, sempre centrata sulla pluralità
degli enti, cioè degli esseri umani la cui dimora è la
terra. D’altronde, se per accettare che il mondo è l’"essere
patente dell’ente di volta in volta effettivamente aperto (offenbar),
ossia dell’ente che può diventare palese in un’evidenza che accade
con l’ente stesso"15, declinassimo al plurale l’ente,
snatureremmo l’approccio di Heidegger al mondo, basato sull’asserto
che "nell’evidenza dell’ente in quanto tale in totale si fonda
l’accessibilità dell’ente in quanto tale"16.
Mentre Heidegger (che per Arendt
resta sempre prototipo del filosofo puro) parla del mondo in relazione
ad una struttura ontologica determinata dalla differenza tra essere
ed ente, il che motiva quel differenziarsi nell’unità che egli
chiama esserci in cui si mantiene l’unità del tutto, Arendt non
menziona il tutto, in quanto attribuisce alla totalità un significato
critico in senso negativo. Dove per Heidegger è l’ente nella
sua totalità - l’ente nel suo insieme (das Seiende im Ganzen)
- all’origine dell’esserci, in quanto da lì muove quell’oltrepassamento
del tutto che produce un mondo, per Arendt ogni origine è legata
all’esserci, cioè all’individualità plurale; che significa
alla pluralità degli esseri umani uniti da vincoli di similitudine
e di differenza innestati nella portata di evento che ha il fatto della
nascita. Fatto che assurge ad evento per la ri-configurazione del mondo
che esso comporta da parte, innanzitutto, della comunità umana,
che nel riconoscerlo se ne fa carico, quindi del/la nuovo/a venuto/a
che se ne riappropria, allorché con il discorso e l’azione mette
al mondo se stesso manifestandosi come un nuovo "chi". Con
questo termine Arendt indica l’emergenza dell’individualità plurale
che ha saputo trarre forza dalla vita ricevuta da altri, per affermarsi
sulla scena mondana17. Per tale via "il chi" prospetta,
a quanti lo ascoltano e assistono alla sua azione, una capacità
d’intervento sul mondo che trasforma quegli spettatori in testimoni
di un evento, cioè di un fatto che modifica l’ordine dato delle
cose, tanto da indurli a rendersene partecipi con azione e discorso
propri.
Si può allora parlare
di una vivificazione, o di una rimessa in circolo, delle caratteristiche
salienti della condizione umana indotta per un contagio di umanità
mutuato per via sensibile e affettiva, quindi innanzitutto corporea.
Chiunque subisce tale contagio è stimolato ad esprimersi davanti
agli altri e a rivelare, "sulla scena del mondo", l’identità
che ha saputo far fruttificare dalla ramificazione di relazioni umane,
avuta in sorte. Si profilano in tal modo molteplici immagini, rappresentazioni
e idee diverse di mondo: quella interiorizzata dal "chi",
quella che questi manifesta a sé e agli altri scoprendo aspetti
della propria identità inaspettati, quella che risulta dai processi
di memorizzazione degli spettatori resisi testimoni, quella consegnata
dalla narrazione alla storia, quella innestata sull’elaborazione artistica
dell’evento. Ognuna di queste ‘visioni’ di mondo può, a sua volta,
stimolare un’attività immaginativa e ideativa in quanti/e ne
subiscono l’impatto, così da far scattare un corto circuito nella
disaffezione da mondo, cui rende avvezzi l’anonimia delle società
omologate.
Il mondo ha dunque a che fare
anche con la meraviglia e lo stupore che animano il pensiero e volgono
alla filosofia, tant’è che sia l’una che l’altro ci dischiudono
mondi in cui si desidera immettersi e addentrarsi per scoprirne sempre
nuovi aspetti. L’amore di mondo che circola nei testi di Arendt è
pertanto multiforme, ma non traligna mai in brama di possesso né
in gelosia patologica, perché muove dal paradosso vitale dell’individualità
plurale che esclude la riduzione all’uno della comunità umana.
Non c’è in Arendt alcun idea di umanità e di mondo come
un tutto assoluto, un’interezza totale, come non c’è l’idea di
un entità sopramondana cui, in qualche modo, si riallacci l’esistenza
del mondo. La contingenza fa del mondo una cosa fragile, che di conseguenza
richiede cura, ma il mondo sa convertire tale fragilità in forza
quanto più non ha pretese totalizzanti e assolutistiche, o non
declina le proprie responsabilità nei confronti della sua stessa
tutela - che significa tutela della condizione umana - appellandosi
alla perdita di un supposto fondamento originario. In linea con questa
impostazione, si può convenire con Heidegger quando dice che
è l’esserci dell’uomo a formare il mondo e che la formazione
del mondo (die Weltbildung) accade nell’uomo tramite la
struttura relazionale (das Gefüge der Beziehung) propria
dell’als (in quanto), successiva all’evidenza dell’ente18.
Sempre però se si mantiene fermo che non l’ente, o l’uomo al
singolare, abita la terra, ma la pluralità degli uomini: enti
finiti che vivono nel "fra", nello "Zwischen-sein",
nel "in-between", cioè in un luogo mai pienamente
localizzabile, cui si attaglia l’"in quanto" heideggeriano
che sottolinea il peso della situazione e, nel contempo, la crucialità,
per la costituzione di un mondo, dell’atto della scelta. Così
si può convenire con Heidegger quando collega il costituirsi
del mondo alla progettualità umana e all’atto, umano, di frantumazione
di un tutto indifferenziato, che nella riflessione di Arendt corrisponde
al totalitarismo. Da rimarcare è anche la convergenza di Arendt
con l’idea heideggeriana che il mondo costituisca l’insieme delle possibilità
in cui l’essere umano esiste, per cui un mondo rappresenta un modello
di possibili relazioni, un sistema, una struttura referenziale. Tutte
queste convergenze ed assonanze non incidono, però, su quella
distinzione pregiudicale determinata dal riferimento o meno all’ente
in quanto tale, che, in un caso, allontanandoci dalla terra, fa dell’esserci
una deiezione e, nell’altro, radica gli esseri umani nella terra anche
quando la trasvolano librandosi nel cosmo.
Non a caso per Heidegger il rapporto
determinante della terra è con la natura, non con il mondo, e
con una "natura come tale", diversa da quella - "svelata"
- che appare all’essere umano. La terra infatti è la natura che
l’esserci incontra all’interno del mondo, mentre la natura "come
tale" non è intramondana19, benché sia
sempre presupposta come presente sullo sfondo di quella mondana. Il
rapporto tra terra e mondo finisce così per regolarsi in base
all’andamento di quello della terra con la "natura in quanto tale",
inclinando di volta in volta o verso l’opposizione, o verso l’apertura
conflittuale, o verso il sostegno reciproco. In ogni caso c’è
una disgiunzione tra terra e mondo che per Arendt è lesiva della
condizione umana.
L’idea di mondo di Arendt affonda
dunque le sue radici nella condizione umana che ci fa tutti individui
al plurale, in quanto esseri che vengono messi al mondo con la nascita
e che prima di lasciare il mondo con la morte abitano il mondo, cercando
di renderlo una dimora adeguata ai loro bisogni e ai loro desideri,
per consegnarlo quindi ai nuovi venuti che essi hanno il compito di
educare così da permettergli di "rimetterlo in sesto"
a modo loro20. Infatti, la tradizione non può pretendere
di esercitare un ruolo di dominio perché, inframezzata com’è
da tante fratture, non funge più da cerniera tra una generazione
e l’altra; per cui "i nuovi" (così Arendt, mutuando
l’uso dal latino, chiama i giovani che entrano nell’età adulta),
attingendo a frammenti significativi di passato, possono trasformare
il presente avviando nuovi inizi. Lo scarto tra mondo dato e mondo immaginato
influenza dunque anche il rapporto con la tradizione e il legame tra
le diverse generazioni, valorizzandone le componenti di discontinuità.
Analogamente a quanto accade in Kant, l’idea arendtiana di mondo scaturisce
dal fenomenico e lo oltrepassa sempre per riferirsi ad esso, per cui
si può dire che trascende il mondo dato solo in quanto la sua
stessa idealità le conferisce un’autonomia rispetto alle effettive
situazioni mondane. Autonomia che è propria del pensiero che
fa sorgere la domanda: dove si sta quando si pensa?, visto che ci si
astrae dal corpo, dal tempo e dallo spazio, che pure sono coordinate
strutturali della condizione umana. Ma anche l’anomalo mondo del pensiero,
per quanto possa librarsi al di là del tempo e dello spazio,
è parte del mondo umano perché tale congiunzione è
inscritta nella condizione umana la cui intrinseca paradossalità
ci induce sempre di nuovo a ri-pensare il mondo.
Da quanto detto consegue che,
per parlare di mondo nel senso arendtiano del termine, deve essere tutelata
la condizione umana nella sua interezza, quindi ognuna delle sue caratteristiche
salienti: nascita, terra, morte, pensiero, azione e discorso. Queste
caratteristiche attengono ad ogni individuo al plurale e un mondo che
si arroga il diritto di mortificarle, anche in un solo essere umano,
non può chiamarsi mondo perché infrange le radici stesse
della convivenza umana21. Mondi che innalzano delle barriere
contro uomini e donne per estrometterli dalla comune appartenenza umana
sono solo dei sistemi di vita mortiferi, cui occorre contrapporre l’immagine
di un mondo diverso, in grado di far proliferare più mondi, intesi
quali differenti sistemi di vita accomunati dalla tutela della condizione
umana. L’immagine di un simile mondo non scaturisce dal nulla, né
germina da sola, pur quando sembra emergere dalla fantasia solitaria
di un singolo isolato dai rapporti sociali. In tutta una trama di frammenti
di mondi dissolti nel lungo corso della storia si riflette un’immagine
dell’universale mondo umano che ha il potere di stupire, affascinandolo,
chiunque si trovi a vederne anche un piccolo tassello.
Anche l’iter della biografia
di Rahel Varnhagen, scritta da Arendt in età giovanile e edita
molti anni dopo, può esemplificare il complesso percorso con
cui la nostra autrice articola la sua concezione di mondo, caratterizzandola
in senso via via più politico, cioè comunitario e pubblico
ma, nel contempo, sottolineandone la fragilità e l’esposizione
alla rovina. Alla luce del fatto del totalitarismo, Arendt opera infatti
una storicizzazione del caso Rahel che la porta a collegare il destino
di questa donna alla sua incapacità di giudicare il mondo considerandolo
da diversi punti di vista; segno questo di una mancanza di visione politica
i cui effetti tragici assumeranno portata universale nel XX secolo.
L’introspezione romantica tipica delle donne dei salotti mondani è
in tal senso corresponsabile, per la sua tendenza ad estraniare dal
politico, della perdita o mancanza di mondo di cui la stessa Rahel è
vittima. Infatti, tentando di contrastare l’esistenza impostole dalla
sua ebraicità con le strategie tipiche della società del
tempo (in cui il riconoscimento di una donna passava attraverso il matrimonio)
ella si vota all’insuccesso. Come osserva S.Benhabib, dandosi all’uomo
giusto Rahel sperava di ottenere il "mondo" che le era negato
come ebrea e come donna, ma "dove" stava il mondo e da "chi"
era composto?22. Per rispondere a tale domanda Rahel avrebbe
dovuto esercitare quella capacità di pensare con mente allargata
che dispone al giudizio e al giudizio politico. In questo modo avrebbe
potuto cogliere lo scarto tra il mondo umano e l’illusorio mondo dei
salotti mondani prima di patirlo sulla propria pelle; avrebbe cioè
capito che solo il fragile spazio di apparenze che tiene unita l’universale
comunità umana può dirsi propriamente mondo.
In controtendenza con la tradizione
filosofica in cui si era formata, Arendt assume il paradosso del mondo
come uno stimolo per il pensiero e coglie anche nell’affanno con cui
uomini e donne cercano di affermarsi nel mondo, con il seme di un autentico
bisogno di appartenenza, il segno di un amore di mondo che ha bisogno
di esprimersi nel mondo stesso, altrimenti finisce con l’alienarsi in
mondi fittizi o con l’incapsularsi nell’io; leggiamo infatti: "l’alienazione
del mondo moderno - la sua duplice fuga dalla terra all’universo e dal
mondo all’io" 23.
Questa prospettiva conduce la nostra autrice ad assumere un atteggiamento
critico verso alcuni comportamenti e preferenze del mondo moderno ed
in specie delle società contemporanee, quali per un verso quella
al narcisismo (fenomenologia psichica di cui non coglie, accomunata
in questo alla scuola di Francoforte, con l’eccezione di Marcuse, il
lato vitale e creativo24)
e, per altro verso, quella al sapere tecnologico altamente specialistico.
Ciò può insinuare nella riflessione arendtiana sul mondo,
spesso modulata sui toni di un umanesimo forte e talvolta audace, delle
tonalità malinconiche e nostalgiche25.
Ma, a mio avviso, si tratta di coloriture che controbilanciano la visione
di un uomo "weltbildend", edificatore di un mondo, e che riconducono
l’eroismo dei personaggi omerici alla vita quotidiana, i cui protagonisti
sono gli uomini e le donne anonimi.
Arendt infatti guarda il mondo
sia con occhio disincantato sia con occhio rapito dallo stupore, e sfruttando
questo sguardo duplice, opera una continua rimessa a fuoco del mondo;
si pone così al riparo dal pericolo, per inseguire visioni ideologizzate
di mondo, di non vedere i fatti che accadono sotto gli occhi di tutti.
Quei fatti - per il buon senso innegabili ma che l’intellettuale può
illudersi o far finta di non vedere - che ci costringono a rivedere
i nostri sistemi teorici e ci ancorano al mondo: dimora dell’universale
comunità umana.
Note
1
H.Arendt, Der Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen
Intepretation, Springer, Berlin, 1929; tr.it. di L.Boella, Il
concetto d’amore in Agostino, Milano, 1992 (cfr., tra gli studi
recenti L.Savarino, "Quaestio mihi factus sum". Una lettura
heideggeriana di "Il concetto d’amore in Agostino", in
Hannah Arendt, a cura di S.Forti, cit., pp.249-269). Cfr. per ogni
riferimento bibliografico S.Forti, Bibliografia degli scritti su
Hannah Arendt, in S.Forti, a cura di, Hannah Arendt, Bruno
Mondadori, Milano, 1999, pp.286-306.
2
H.Arendt, The Life
of the Mind, ed.by M.McCarthy, Harcourt, Brace and Jovanovich, New
York-London, 1978, tr.it. di A del Lago, La vita della mente,
Il Mulino, Bologna, 1987.
3E.Young-Bruehl, H.Arendt:
For Love of the World, Yale University Press, New Haven-London,
1982, tr.it. di D. Mezzacapa, H.Arendt 1906-1975. Per amore
del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
4 R.Bodei, Ordo Amoris,
Conflitti terreni e felicità terrestre, Il Mulino, Bologna,
1991.
5Il pensiero è "la sorgente
delle opere d’arte" H.Arendt, The Human Condition, University
of Chicago Press, Chicago, 1958 (ed. tedesca Vita activa oder von
tatigen Leben, a cura di H.Arendt, Kohlhammer, Stuttgart, 1960);
tr.it. di S.Finzi, Vita activa La condizione umana, Bompiani,
Milano 1964, II ed. 1988, IV ed. 1997 (da cui cito), p.
6 Ivi, p.120-
121.
7Cfr. M. Durst, La
forza della fragilità. La nascita in Hannah Arendt,
in "Fenomenologia e società", n3/2001, a.XXIV, pp32-50
(con riferimenti bibliografici); Id., Birth and Natality in Hannah
Arendt, in "Phenomenological Inquiry", vol.XXV, 2001,
pp.72-84.
8 L.Boella, Introduzione
a H.Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit. Cfr. anche
L.Boella, Pensare politicamente, agire politicamente, Feltrinelli,
Milano, 1995.
9 "Prima di formulare
interrogazioni quali <Che cos’è la felicità>, <Che
cos’è la giustizia>, <Che cos’è la conoscenza?>,
e così via, occorre avere veduto persone felici o infelici, occorre
aver assistito ad azioni giuste od ingiuste, aver sperimentato il desiderio
di sapere col suo esaudimento o la sua frustrazione. E, inoltre, è
necessario che l’esperienza diretta sia ripetuta nella mente dopo
aver lasciato la scena in cui ebbe luogo"(H.Arendt, La vita
della mente, cit., parte I, Pensare, cap.II, Le attività
della mente in un mondo di apparenze, p.170).
10 H.Arendt, La vita
della mente, cit., pp. (si avverte qui l’influenza del modo in cui
Heiddegger lega la terra alla plurivocalità della natura assunta
quale greca physis).
11 Cfr. H Arendt, La condizione umana,
cit., p.25.
12 E’ la tesi espressa
da J.Kristeva (Hannah Arendt, Fayard, Paris,1999, I vol. della
trilogia Le génie féminin. La vie, la folie, les mots.
Hannah Arendt, Melanie Klein, Colette). F.Collins (L’homme est-il
devenu superflu? Hannah Arendt, Odile Jacob, Paris, 1999. p.135)
pur sottolineando come la vita zoe trovi significato solo nella
vita come bios (in quanto una vita meramente naturale è
per l’uomo priva di senso e pone le basi del naturalismo storico all’origine
del totalitarismo), riconosce che il fatto della nascita nella sua naturalità
costituisce il "dono" dell’inizio, per cui si può parlare
di un rapporto di implicazione reciproca tra le dimensioni della vita.
13 Si fa riferimento al
corso tenuto da Heidegger del semestre invernale 1929-1930 presso la
Albert-Ludwigs Universitaet Freiburg: Grundbegriffe der Metaphysik.
Welt-Endlichkeit-Einsamkeit (cura di F.W. von Herrmann, Klostermann,
Frankfurt s.M, 1983, tr.it. di P.-L. Coriando, Concetti fondamentali
della metafisica, Mondo-finitezza-solitudine, Il Melangolo, Genova
1992), il cui nucleo originario è nella conferenza del 1929 Vom
Wesen des Grundes (in Wegmarken, cura di F.W. von Hermann,
Klostermann, Frankfurt s.M., 1976, tr.it. di F.Volpi, Dell’essenza
del fondamento, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.
14 L.Oliva, Interpretazione
neoparmenidea del concetto di mondo in Heidegger, in "magazzinidifilosofia",
n.7, 2002/A3/saggi, pp.168-177.
15 Ivi, p.169.
16 Ibidem.
17 Nell’elaborazione del
tema del "chi" la Arendt si confronta con il pensiero di Agostino:
il primo che "comprese perfettamente il problema" e che "distinse
le questioni del "chi sono io?" e del "che cosa sono
io?": la prima rivolta dall’uomo a se stesso (<E io mi rivolsi
a me stesso e mi dissi: tu chi sei tu? E io risposi: Un uomo, [...]
e la seconda rivolta a Dio (<Che cosa sono dunque io, mio Dio? Qual
è la mia natura?" (H.Arendt, La condizione umana,
cit., n. 2, I cap., p.243). Agostino risolve però la questione
teologicamente, laddove per Arendt a questa domanda non si può
rispondere introducendo "il dio dei filosofi" o in maniera
scientifica e nemmeno "le condizioni dell’esistenza umana - vita,
natalità e mortalità, mondanità, pluralità
e terra - potranno mai <spiegare> che cosa noi siamo o rispondere
alla domanda <chi siamo noi?>" (Ivi, p.10). A tale
questione, che non si può "spiegare", occorre però
"pensare" come a "l’evento stesso", a "l’inaspettato",
che "costituisce il vero tessuto della realtà nell’ambito
delle cose umane" (Ivi, p.223). Nel "chi" si esprime
infatti una creatività che è indipendentemente da quale
sia l’azione intrapresa: "chi si è trascende in grandezza
e in importanza qualsiasi cosa si possa fare" (Ivi, p.156),
e ciò dipende dal pensiero perché pensare significa "edificare
un mondo" con la forza dell’immaginazione, un mondo che "trascende
sia la mera funzionalità delle cose prodotte per il consumo sia
la mera utilità degli oggetti prodotti per l’uso" (Ivi,
p.125), in cui può rivelarsi "sulla scena pubblica"
"chi si è", cioè "l’identità unica
e distinta dell’agente" (Ivi, p.131).
18 M. Heidegger, I problemi fondamentali
della metafisica, cit. riportato da L.Oliva, Op.cit., p.169.
19 Ibidem.
20 H.Arendt, La crisi
dell’istruzione, in Id. Tra passato e futuro (ed.or.1961),
tr.it., Garzanti, Milano.1999, II ed., pp.228-255.
21 Sul rapporto tra il
dramma dell’esclusione e l’intervento della legge quale condizione necessaria
ma non sufficiente per offrire una "dimora sicura", cfr. I.
Possenti, L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah
Arendt, Carocci, Roma, 2002.
22 Cfr. S. Benhabib,
The Pariah and Her Shadow: Hannah Arendt’s Biography of Rahel Varnhagen,
in Bonnie Honig, ed. by, Feminist Interpetations of Hannah Arendt,
Pennsylvanya State University Press, Philadelphia, 1995, pp.83-104,
p.92.
23 H.Arendt, La condizione umana,
cit., p.6.
24 Cfr. M.Durst, Il
narcisismo: un capitale emotivo di riserva in Id., a cura di, Tra
filosofia e psicologia/psicoanalisi, (sezione del Dossier Educazione
e affettività: una prospettiva interdisciplinare), in "Scuola
Democratica", n.1/2 1999, pp. 81-98.
25 Si pensi ad esempio
al finale di La condizione umana in cui si prospetta una sempre
più diffusa assenza di pensiero.