Antonin Artaud,
CsO: il corpo senz’organi,
a cura di Marco Dotti, Milano, Mimesis edizioni, 2003, pp. 155, ISBN
88-8483-164-4, Euro 11,00.
CsO è
una formula. È la formula della sovversione artaudiana del corpo
(Je suis cet insurgé du corps). Ma è anche la formula
di un paradosso multiplo che non smette di inquietare l’oggi del pensiero.
È merito di Marco Dotti, valente traduttore e studioso di Artaud,
l’aver qui raccolto alcuni dei testi essenziali della teoria del "corpo
senza organi", fornendo un utilissimo strumento di primo approccio
critico alla questione. Nell’ultimo decennio si è assistito in
Italia ad un rifiorire di studi su tale argomento e, più in generale,
sull’ultima produzione teorica e letteraria di Artaud (penso ai contributi
di Franco Ruffini, di Marco De Marinis, di Carlo Pasi, di Lorenzo Chiesa,
di Alessandro Cappabianca, di Florinda Cambria ed altri; ma penso anche
alla recente antologia poetica einaudiana curata da Giorgia Bongiorno
e alla prossima uscita della traduzione italiana del testo integrale,
a cura di J.-P. Manganaro, di Suppôts et suppliciations
per l’Adelphi). L’antologia curata da Dotti si inserisce, quindi, in
una vera e propria koiné artaudiana al suo interno molto
articolata e in fermento, e vi si inserisce puntando tutto su quel che
Deleuze e Guattari chiamavano la "scoperta" di Artaud, vale a dire
il "corpo senza organi". CsO, la formula della sovversione
del corpo, dicevamo. CsO e materialismo assoluto, senza sconti.
E materialismo assoluto significa, per Artaud, corpo pieno,
privo di mancanze, non più caratterizzato dal non-essere,
quindi finalmente sottratto al simbolico, finalmente sottratto
al giudizio di dio (Pour en finir avec le jugement de dieu),
giudizio che "organizza" i corpi facendoli diventare degli
organismi, dei corpi-ad-organi. Il "giudizio di dio" è
un’espressione che in Artaud ha una valenza letterale e metaforica ad
un tempo; da un lato intende la violenta sussunzione di una singolarità
in un ordine generale, che trasforma quella singolarità in una
semplice e pacificata particolarità; dall’altro è un’espressione
che metaforizza l’esproprio che la Famiglia, la Società, il Capitale,
il Manicomio hanno prodotto del corpo vivente di Artaud. Nella lettera
del 16 maggio 1946 a Pierre Bousquet, nota come Lettera sulle deportazioni,
Artaud scrive: "il fatto è che non siamo padroni dei nostri
corpi. – I nostri padre-madre ne disposero per la scuola, quando
l’amministrazione non ne dispone per i riformatori o gli istituti di
rieducazione, e la società per le prigioni e per i manicomi,
poi la società ne dispone per la visita di leva, i preti per
il ‘viatico’ e l’estrema unzione del feretro; e la società ne
dispone per la guerra, mentre se ne resta nelle retrovie per trafficare
al mercato nero" (p. 96). L’operazione di Artaud è, quindi,
quella di (ri)farsi un corpo senz’organi, è quella di
insorgere attraverso un multivalente e paradossale processo ad un tempo
di espulsione ed appropriazione, di padroneggiamento e di esplosione,
di creazione e de-creazione. Il suo corpo insorge contro il giudizio
di dio innanzitutto espellendo da sé tutto ciò che riceve
e ha ricevuto dal fuori e che è stato strumento di soggezione
all’Altro: rifiuto della genitalità fino alla decisione dell’auto-castrazione,
per sfuggire alla legge del Padre (ma paradossalmente realizzandola);
rifiuto anoressico-bulimico del cibo, cioè rifiuto della stessa
struttura biologica anabolico-catabolica del corpo; espulsione violenta
del "materiale fecale", intesa come purificazione/liberazione
dall’immondo che è entrato nel corpo privandolo del suo essere
e soggiogandolo (La recherche de la fécalité).
Dall’altro lato, e contemporaneamente, quest’operazione d’espulsione
è anche un’operazione di appropriazione/padroneggiamento: "Il
tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzioni /ma
di volontà / albero di volontà che avanza / tornerà.
/ È stato, tornerà. / Perché la grande menzogna
è stata quella di ridurre l’uomo a / un organismo / ingestione,
assimilazione, / incubazione, espulsione, / creando un ordine di funzioni
latenti che sfuggono / al controllo della volontà / deliberatrice"
(p. 25). Il corpo senza organi sembrerebbe, da tale punto di vista,
un corpo finalmente appropriato a sé, finalmente padrone di sé
e non più soggiogato all’Altro. Anzi un corpo autogenerantesi,
non più soggetto né simbolicamente né biologicamente
all’altro (e qui è obbligatoria la citazione del famoso incipit
del poema Ci-Gît: "Moi, Antonin Artaud, je suis
mon fils, mon / père, ma mère, / et moi"). Tuttavia,
la produzione di un CsO è descritta da Artaud anche come
un’esplosione, quindi con un’immagine che difficilmente può essere
fatta rientrare nel concetto di appropriazione: "[…] il corpo
non è esploso / esploderà / questa / notte / improvvisamente
/ ad / ora / incerta" (p. 104). Vorrei soffermarmi un momento
su questo punto, perché lo considero gravido di possibili sviluppi
interpretativi. Anche nel famoso Pour en finir avec le jugement de
dieu, il suo ultimo poema (e radiofonico) del 1948, c’è un
passaggio che evoca l’idea dell’esplosione, legandola a quella del mondo:
"[…]E da dove viene questa abiezione di sporcizia? / Dal fatto
che il mondo non è ancora costituito, / o che l’uomo ha una ben
misera considerazione del / mondo / e vuole conservarla eternamente?
/ Tutto questo è accaduto perché l’uomo, / un bel giorno,
/ ha fermato / l’idea del mondo. / Due vie gli si offrivano:
/ quella dell’infinito fuori (celle de l’infini dehors), / quella
dell’infimo dentro (celle de l’infime dedans). / E ha scelto
l’infimo dentro" (A. Artaud, Per farla finita col giudizio di
dio, tr. it. a cura di Marco Dotti, Roma, Stampa Alternativa, 2000,
pp. 31-32). È evidente che Artaud pone qui in relazione l’idea
di mondo con quella di infinito, ma di un infinito che è stato
in qualche modo "fermato" nel suo dispiegarsi. Si badi, Artaud
parla dell’idea di mondo e non di mondo. È tale idea
che, egli afferma, è stata "fermata". Un punto critico
di grande interesse questo, che avrebbe bisogno di maggior attenzione
critica. Tuttavia, quel che mi preme sottolineare è come in questo
modo Artaud leghi il farsi del corpo-senza-organi anche a tale sblocco
esplosivo dell’idea di mondo, intesa come idea di un infinito "fuori".
E ciò per rimarcare l’aporia tra telos appropriativo e
telos esplosivo che indecidibilmente Artaud pratica e teorizza.
Ma forse il corpo-senza-organi è proprio tale indecidibilità.
Anche di questo bisognerà discutere ancora. Così come
ancora sarà da indagare un altro paradosso artaudiano: quello
del rapporto tra dolore proprio e improprio (già
indagato da Lorenzo Chiesa, che qui in parte seguiamo). "Ora sprofondo
sempre più nel dolore, il mio elemento" (p. 55), afferma
Artaud nelle Note per una "lettera ai balinesi". Il
dolore di cui soffre il corpo d’Artaud è senz’altro quello originato
dal giudizio di dio, dall’esproprio dell’Altro, ma tale dolore
è improprio perché, in ultima istanza, causato
dalla cattiveria di chi, incapace di sopportare il dolore proprio dell’essere,
lo scarica sugli altri "per esempio con le scariche dell’elettrochoc"
(L. Chiesa, Il dolore di Artaud, in aut aut, n° 304, 2001,
p. 139). Tuttavia, quando Artaud parla del dolore come del suo "elemento",
intende dire che c’è un dolore dell’essere, un dolore proprio
che deve essere crudelmente accettato. Questo perché nel dolore
il corpo è uno, è a sé immanente
e pieno, è corpo-senza-organi. Ora, mi sembra che tale
unità dell’essere possa essere tale, quindi dolorosa,
solo in quanto punto di indecidibilità e, ad un tempo, di catastrofe
tra una forma organica e un’altra; e, dal momento che, per dirla con
Eraclito, siamo e non siamo, tale unità non è che
la fiamma che segna il passaggio catastrofico (e indecidibile)
da un momento e l’altro del divenire dell’organismo. Tuttavia,
se l’interpretazione è plausibile, allora questa fiamma dolorosa,
questa unità intensiva in cui si manifesta il corpo-senza-organi
è complementare al corpo-ad-organi, al corpo organato, al corpo-macchina-biologica.
L’uno non può essere senza l’altro, se questo altro, il CsO,
non è che la fiamma della sua continua trasformazione. "Tutto
è motilità – scrive Artaud – […] Cos’è la
motilità? / È il poter rendere se stessi corpo
/ in funzione di una volontà / […] volontà che / è
derivata / dalla rotazione / verticale / di un corpo da sempre formato,
/ e che in uno stato al di là della coscienza / s’indurisce e
si appesantisce continuamente / per l’opacità del suo spessore
e della sua massa […] / Chiamo motilità un’invenzione personale,
gratuita / in cui nascondo e faccio stare / nulla" (pp. 51-59).
Ma come de-cidere tra dolore proprio e dolore improprio?
Forse la risposta che Artaud ha dato a tale domanda riposa proprio in
questo concetto di "invenzione personale e gratuita" dell’essere,
quindi del dolore, quindi della pienezza del corpo-fiamma.
Come si sa l’ultima produzione di Artaud è anche quella di una
nuova teorizzazione e di una nuova pratica del teatro della crudeltà;
ebbene il progetto biopolitico (come lo stesso Dotti si esprime) del
poeta francese non può essere pensato al di fuori di tale nuova
concezione. "La realtà non è ancora costruita – scrive
Artaud – perché i veri organi del corpo umano non sono ancora
stati combinati e sistemati. /Il teatro della crudeltà è
stato creato per portare a termine / quest’opera / e per iniziare con
una nuova danza del / corpo dell’uomo un ribaltamento di questo mondo
di microbi / che non è un niente coagulato. / Il teatro della
crudeltà vuol far danzare le palpebre / coppia a coppia con gomiti,
rotule, femori, / alluci e che lo si veda" (p. 79; corsivo
nostro). La crudele "danza alla rovescia" non sarà,
quindi, un sabba notturno ma l’invenzione di un corpo finalmente esploso
nel visibile. La dolorosa fiamma del divenire sembrerebbe congiungersi,
quindi, al "colpo" di un’esplosione.
"Esploderà
/ questa / notte / improvvisamente / ad / ora / incerta" (p.
104).
Vincenzo
Cuomo