Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo
e l’animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 99, ISBN 88-339-1372-4,
Euro 11,00
Riferendosi ad una miniatura contenuta
in una Bibbia ebraica del XIII secolo conservata alla Biblioteca Ambrosiana
di Milano, raffigurante il banchetto messianico nell’ultimo giorno,
Giorgio Agamben introduce il suo importante saggio interrogandosi sul
motivo per cui i giusti vengano lì raffigurati con delle teste
d’animale e lancia l’ipotesi che "l’artista […] abbia inteso significare
che, nell’ultimo giorno, i rapporti fra gli animali e gli uomini si
comporranno in una nuova forma e l’uomo stesso si riconcilierà
con la sua natura animale" (p. 11).
Tale questione viene da lui subito dopo
collegata al contrasto tra Kojeve e Bataille circa il problema hegeliano
della fine della storia e quello "della figura che l’uomo e la
natura avrebbero assunto nel mondo poststorico, quando il paziente processo
del lavoro e della negazione, attraverso il quale l’animale della specie
Homo sapiens era diventato umano, fosse giunto a compimento"
(p. 13). Secondo Kojeve l’uomo post-storico sarebbe restato in vita
come animale in accordo con la natura, essendo ormai scomparso
"l’Uomo propriamente detto, cioè l’Azione negatrice del
dato e l’Errore o, in generale, il Soggetto opposto all’Oggetto"
(cit. ivi). Bataille oppone a questa visione il suo concetto
dell’umano come negatività senza impiego che, in quanto
tale, non può che sopravvivere (ma non spiega come) alla hegeliana
fine della storia, in qualche modo confutandola.
È evidente che il problema centrale
su cui riflettere sia quello del rapporto tra l’uomo e l’animale, vale
a dire il rapporto dell’uomo, azione negatrice secondo la definizione
di Kojeve, con la sua vita animale. Ma cos’è la vita animale?
In cosa si distingue dalla vita umana? Oppure (e meglio) che cosa separa
le due modalità di vita, e su quale fondamento? È possibile
definire il concetto di vita in quanto tale, vita che non sia né
animale né umana, ma semplice, nuda vita? Agamben risponde che
il concetto di vita in quanto tale, nella cultura occidentale, non viene
mai definito, anzi appare come non definibile. È come se la vita
"fosse ciò che non può essere definito, ma che,
proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e diviso"
(p. 21). Nella storia della filosofia occidentale, precisa Agamben,
l’articolazione "strategica" della vita ha un suo momento
topico, il De anima aristotelico. Aristotele fa in modo che una
delle modalità della vita (anche la vita si dice in molti modi),
separandosi dalle altre, vada "a fondo", divenendo il fondamento.
Tale modalità fondamentale è quel che Aristotele chiama
la vita nutritiva. Molti secoli dopo Bichat, ricorda Agamben,
nelle sue Recherches physiologiques sur la vie et la mort, distinguerà
due modalità di vita animale: una vita organica di cieche funzioni
(successione di assimilazione ed escrezione) e una vita animale cosciente
(l’anima sensitiva di Aristotele). L’articolazione strategica della
vita ha permesso non solo i successi della medicina ma è anche
all’origine di quel controllo politico sulla vita (il bio-potere) che
Foucault ha mostrato essere uno dei compiti che gli stati moderni si
sono assunti.
Come è possibile definire, allora,
in tale prospettiva la natura dell’Homo sapiens? Esso, afferma
Agamben, non è una specie definita (di questo anche la filosofia
rinascimentale era consapevole) ma una macchina antropogenica,
un artifizio che produce l’umano attraverso un doppio processo di inclusione
(che è già sempre un’esclusione) e di esclusione
(che è anche già sempre una cattura) che, di volta in
volta, definisce e decide l’umano dal non-umano e dall’inumano (cfr.
p. 43-44). Tuttavia la macchina può funzionare solo a partire
da un missing link, da una zona d’indifferenza, da uno spazio
d’eccezione, né umano né animale, spazio di articolazione
tra uomo e non-uomo, tra parlante e vivente. Ma, sottolinea Agamben,
"come ogni spazio d’eccezione, questa zona è, in verità,
perfettamente vuota, e il veramente umano che dovrebbe avvenirvi è
soltanto il luogo di una decisione incessantemente aggiornata, in cui
le cesure e la loro riarticolazione sono sempre di nuovo dis-locate
e spostate" (p. 43). La macchina decide di continuo l’umano dal
non-umano solo sul presupposto indimostrato della separabilità
dell’umano da ciò che non lo è. Si tratta, quindi, di
comprendere il funzionamento di tale macchina, per poterla, forse, arrestare.
A questo punto del suo discorso Agamben
inserisce un’ampia analisi della differenza ontologica tra il mondo
dell’animale e il mondo dell’uomo, e lo fa riferendosi sia alle ricerche
zoo-biologiche di Jakob von Uexküll sia al famoso corso del 1929-30
di Martin Heidegger Die Grundbegriffe der Metaphysik, in cui
quelle ricerche sono utilizzate e commentate. Per von Uexküll ogni
animale vive chiuso nel suo mondo-ambiente (Umwelt), ambiente
in cui non si danno oggetti ma marche cui l’animale reagisce,
senza avere consapevolezza di cosa sia una "marca" o di cosa
sia una reazione istintuale. Ogni ambiente è un mondo chiuso
agli altri mondi-ambienti che pur sono connessi ad esso: è il
caso, ad esempio, della Umwelt del ragno e di quella della mosca.
Il ragno – scrive Agamben riassumendo l’argomentazione di von Uexküll
– "non sa nulla della mosca, né può prendere le misure
come fa un sarto prima di confezionare un vestito per il suo cliente,
e tuttavia esso determina l’ampiezza delle maglie della sua tela secondo
le dimensioni del corpo della mosca e commisura la resistenza dei fili
in proporzione esatta alla forza d’urto del corpo della mosca in volo"
(p. 47). Laddove la scienza classica "vedeva un unico mondo, che
comprendeva dentro di sé tutte le specie viventi gerarchicamente
ordinate, dalle forme più elementari fino agli organismi superiori,
von Uexküll pone invece una infinita varietà di mondi percettivi,
tutti ugualmente perfetti e collegati fra loro come in una gigantesca
partitura musicale e, tuttavia, in comunicanti e reciprocamente esclusivi"
(p. 45).
Le ricerche di von Uexküll sono
utilizzate da Heidegger per sostenere la sua tesi circa la "povertà
di mondo" dell’animale. L’animale, argomenta Heidegger, è
stordito nel suo ambiente, vale a dire è assorbito nella
sua Umwelt, consegnato ad essa. L’animale non conosce l’ente
in quanto ente, ma semplicemente reagisce alle marche ambientali
che fungono da disinibitori, cioè da sollecitatori delle
sue reazioni istintuali. Il mondo-ambiente – commenta Agamben – è
sì aperto all’animale ma non svelato. L’animale è,
quindi, aperto ad un non-disvelamento: "l’ente, per l’animale,
è aperto ma non accessibile [ e ] questa apertura senza disvelamento
definisce la povertà di mondo dell’animale rispetto alla formazione
di mondo che caratterizza l’umano" (p. 58).
Negli stessi Grundbegriffe der Metaphysik,
prima di affrontare l’analisi della povertà di mondo dell’animale,
Heidegger aveva dedicato quasi centottanta pagine al tema della noia,
concepita come Stimmung fondamentale. Ebbene, è proprio
nell’essenza della noia che, secondo Agamben, è possibile riscontrare
una paradossale prossimità (che tuttavia è anche distanza)
tra l’animale e l’uomo, anche al di là delle esplicite affermazioni
heideggeriane. I due momenti strutturali della noia sono, secondo Heidegger,
1) l’esser-lasciati-vuoti (die Leergelassenheit) per cui
le cose che ci circondano all’improvviso non hanno più nulla
da offrirci pur continuando a tenerci inchiodati/consegnati ad esse
(come l’animale nei confronti dei suoi disinibitori, così l’individuo
annoiato è consegnato a ciò che gli si rifiuta, aperto
a un non disgelato); 2) l’esser-tenuti-in-sospeso (die Hingehaltenheit)
rispetto alle nostre possibilità, che restano inattive (ma tale
inattività manifesta al contempo la nostra potenzialità,
il nostro originario poter-essere). È possibile ora cogliere
la distanza tra la noia e lo stordimento dell’animale: mentre quest’ultimo
indica la relazione immediata dell’animale col suo disinibitore, la
prima esprime una sospensione della relazione con le cose che ci circondano.
Agamben si domanda a questo punto se per caso la noia profonda
non sia l’operatore metafisico che spieghi il passaggio dall’Umwelt
animale alla Welt umana. Ciò di cui, infatti, "l’animale
è incapace è precisamente di sospendere e disattivare
la sua relazione col cerchio dei disinibitori specifici" (p. 71).
Tuttavia questo passaggio attraverso la noia non fonda affatto una separazione
ontologica netta e definitiva tra mondo animale e mondo umano, tra una
non-disvelatezza e piena svelatezza. La noia sospende certo la relazione
animale col disinibitore, tuttavia in tale sospensione la non-disvelatezza
del disinibitore non è eliminata, ma solo ci appare in quanto
tale (qui risiede la distanza con l’animale che, pur aperto ad un
non-disvelato, non lo conosce in quanto tale, cioè in
quanto non-disvelato). Siamo così riportati a quel che
la filosofia da sempre considera il suo inizio: lo stupore di
fronte all’ente, che si manifesta nascondendosi. Agamben, infatti, conclude
il suo ragionamento con una esplicita identificazione tra stordimento
animale e stupore metafisico: "il gioiello incastonato
al centro del mondo umano e della sua Lichtung non è che
lo stordimento animale; la meraviglia che l’ente sia non è che
l’afferramento dello ‘scuotimento essenziale’ che proviene al vivente
dal suo essere esposto in una non-rivelazione" (ivi). Il
Dasein forse non è altro che un animale che ha imparato
ad annoiarsi, che "si è destato dal proprio stordimento
e al proprio stordimento. Questo destarsi del vivente al proprio
essere stordito, questo aprirsi, angoscioso e deciso, a un non-aperto,
è l’umano" (p. 73).
Heidegger, ci dice Agamben, è
stato forse l’ultimo filosofo a credere che la macchina antropogenica,
con le sue inclusioni ed esclusioni, decidendo e ricomponendo il conflitto
tra l’uomo e l’animale, potesse ancora funzionare, producendo storia
e destino. Tuttavia, nel suo pensiero, la post-storia, il mondo post-storico
cominciava a bussare alla porta. Come già i totalitarismi del
Novecento – che, a dire di Agamben "costituiscono l’altra faccia
dell’idea hegelo-kojeviana della fine della storia" (p. 79) – hanno
annunciato, nell’epoca post-storica non sembra restare altro "per
un’umanità ridiventata animale, che la depoliticizzazione delle
società umane, attraverso il dispiegamento incondizionato della
oikonomia, oppure l’assunzione della stessa vita biologica come
compito politico (o piuttosto impolitico) supremo" (p. 79). Genoma,
economia globale e ideologia umanitaria "sono le tre facce solidali
di questo processo in cui l’umanità poststorica sembra assumere
la sua stessa fisiologia come ultimo e impolitico mandato" (p.
80). Questo significa che ormai la macchina antropologica "oggi
gira a vuoto" (p. 82). La vera questione filosofica, lascia intendere
Agamben, non consiste nella sua illusoria riattivazione, ma nel suo
abbandono. Questo è il compito della filosofia (ma anche dell’etica
e della politica) futura.
Vincenzo
Cuomo