CINEMA E FILOSOFIA 2003
Il mondo come cinema e come rappresentazione
Introduzione
Daniele Dottorini
Gli interventi che seguono sono alcuni
dei percorsi svolti durante la rassegna "Il mondo in questione.
Il mondo come cinema e come rappresentazione", che si è
svolta a Monte Porzio Catone (RM) dal 24 gennaio al 28 febbraio 2003.
Interventi mirati, incentrati su singoli film, alcuni dei quali, come
Fino alla fine del mondo di Wenders, A.I. di Spielberg,
L’invenzione di Morel di Emidio Greco e Mulholland Drive
di Lynch, sono qui di seguito trascritti. Film diversi tra loro, per
intenzionalità poetica, forma linguistica, esito commerciale;
diversi, ma uniti dal fatto di essere interrogati ed analizzati all’interno
di una problematica squisitamente filosofica come quella di "mondo".
Ancora una volta quindi, attraverso
questo percorso, si è cercato di evidenziare le problematiche
insite nel rapporto cinema-filosofia, che oggi è molto presente
nel dibattito filosofico contemporaneo, e che "Kainos" ha
già affrontato nei numeri precedenti. Un rapporto problematico
lungi dall’essere facilmente risolto e che va incontro molto spesso
a fraintendimenti o a facili esemplificazioni. Per meglio chiarire la
complessità del discorso occorre allora ripercorrere i concetti
che emergono nei vari interventi che seguono, per poter così
estrapolare alcune chiavi di lettura di un problema tuttora aperto.
Nel primo saggio, Meccariello individua,
in uno dei film più intellettualmente ambiziosi di Wenders, Fino
alla fine del mondo, una problematica del vedere, della visione
accecante del vero all’interno di una prospettiva neoplatonica. L’ipertrofica
metropoli mondiale, contrapposta al vuoto, allo spazio che si apre alla
vista del deserto australiano sono di fatto due incarnazioni parallele
della caverna platonica, forme del nascondimento della visione come
atto conoscitivo del mondo. In varie forme il mondo, la realtà
si presentano come una serie di occultamenti, di falsi spostamenti all’interno
del medesimo spazio (artificiale e naturale allo stesso tempo) che il
cinema mostra attraverso il montaggio, forma di connessione spazio-temporale
che ne fonda il linguaggio e le possibilità di autonomia rispetto
alle altre forme espressive. Nel secondo intervento, Turco evidenzia
il passaggio, temporale e concettuale insieme, che si attua in Spielberg
da E.T ad A. I., film-sigla, ma anche film che testimoniano
un cambiamento radicale di sguardo. Dal cinema che si vuole fortemente
come infanzia (da intendere non come immaturità o ingenuità,
ma come possibilità di uno sguardo libero ed innocente), al film
come messa in forma di un nuovo territorio, forma della contemporanea
disillusione nei confronti di un cinema tendenzialmente asettico e freddo,
forse incapace (a parte alcuni potenti sguardi) di creare nuovi mondi
attraverso il movimento delle immagini. Cuomo, nel terzo intervento,
recupera un raro film di un autore italiano ai margini (nel bene e nel
male) del mainstream cinematografico del nostro paese: L’invenzione
di Morel di Emidio Greco. Nell’u-topia dell’isola, sorta di non-luogo
dove solo è possibile sperimentare l’invenzione di un mondo come
copia, si sviluppa una riflessione profonda sulle possibilità
stesse del cinema, sospeso – sin dagli inizi – nell’ambiguità
di uno strumento che riproduce il reale o di un dispositivo che lo crea.
Il termine ripresa, analizzato da Cuomo, apre ad una serie di
riflessioni ulteriori, che inducono a ripensare lo statuto ontologico
del cinema, forse proprio a partire da quello straordinario saggio-testo
di Kierkegaard, Gjentagelse (La Ripresa, 1843), in cui
il filosofo danese metteva in gioco, attraverso il suo proverbiale "teathrum
philosophicum", una serie di meccanismi concettuali, di vertiginosi
incastri di figure e personaggi, al centro dei quali stava il tentativo
fallimentare di "rivivere" un’esperienza nella sua pienezza,
"riprenderla" – cioè rifarla propria, impadronirsene
nuovamente – anziché semplicemente "ripeterla".
In questa alternanza/opposizione
tra ripresa e ripetizione sta un’intuizione straordinaria del meccanismo
cinematografico, e non solo per il facile gioco di parole tra "ripresa"
e "ripresa cinematografica", ma proprio perché su questa
alternanza/opposizione si fonda una dinamica interna del dispositivo
di produzione e riproduzione delle immagini che il cinema (almeno il
cinema che ha ossessivamente riflettuto su se stesso) non ha mai smesso
di rimettere in gioco.
Ripresa come scacco. Come impossibilità
che non può, però, cessare di essere tentata, perché
il cinema sta anche in questa sua impurità, in questa impossibile
quadratura del cerchio. Il cinema come ripetizione potenzialmente infinita
di immagini e come impossibilità che ogni ripetizione sia totalmente
una ripresa (così come impossibilità che ogni ripetizione
sia veramente tale). In ogni momento della sua costruzione, il dispositivo
cinematografico introduce uno scarto, un limite. Dai bordi dell’inquadratura
allo stacco di montaggio, dalla durata al tempo interno della vita del
film (e nel film, basti pensare alla "morte al lavoro" del
cinema), ogni elemento concorre a determinare lo scarto rispetto alla
ripresa totale, della vita come del cinema. In questo senso, allora,
occorre distinguere tra la ripresa intesa come meccanismo implicito
al cinema – che è un dispositivo in sé di ripetizione/ripresa
di immagini ed eventi – e la ripresa come tentativo di riafferrare uno
sguardo passato e riattivarlo nella contemporaneità, non per
ripeterlo semplicemente tale e quale, come un oggetto inerte, ma per
renderlo, di nuovo, presente.
È all’interno di queste considerazioni
che, allora, si possono riscoprire le riflessioni di Bazin sullo statuto
ontologico del cinema e le considerazioni di Godard sul cinema come
"territorio in più" nella mappa del mondo. Riflessioni
che sgombrano il campo dall’equivoco del cinema come "rappresentazione
del mondo" ed aprono il dibattito verso un (problematico, come
si accennava all’inizio) riconoscimento del cinema come dispositivo
di pensiero, mondo che non ricalca semplicemente, come traccia, l’immagine
della realtà, ma che si costituisce come autonoma e dinamica
possibilità di uno sguardo "in più".
Interventi:
Amor mundi: note di fine millennio
dalla caverna platonica
"Fino alla fine del mondo"
(1991) di Wim Wenders.
Aldo Meccariello
Il senso del mondo è sempre
fuori di esso
(L.Wittgenstein)
Wim Wenders realizza questo film nel
1991 e lo ambienta nel 1999. La cornice è tipica, dunque, di
un film di fantascienza.
Una voce fuori campo annuncia che "il
1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano impazzì,
nessuno sapeva dove sarebbe potuto cadere. Si librava appena al di sopra
dello strato dell'ozono come un micidiale uccello rapace. Il mondo intero
era in allarme, ma Claire in quel periodo viveva un suo incubo privato.
Sognava tutte le notti un volo silenzioso, su una terra sconosciuta.
Al principio la sensazione di volo era piacevole, ma poi diventava una
sensazione di caduta e successivamente di panico. E si svegliava di
soprassalto. Nell'autunno del 1999, a Claire Tourneur capitava di svegliarsi
in strani posti..."
L’avvio del film rivela una classica
avventura on the road. C’è l’annuncio di una catastrofe
perché un satellite nucleare, opera dell’uomo, sta per abbattersi
sulla terra. Claire, la irrequieta protagonista del film, avverte un
senso di spaesamento, di estraneità da quella che è la
sua abituale dimora, la terra. Ella, di città in città,
(Venezia, Lione, Parigi, Lisbona, Mosca, Tokyo, S. Francisco, Pechino)
attraversa le strade del mondo per inseguire un uomo, Trevor, oggetto
del suo desiderio e finisce in Australia, terra dei grandi spazi e degli
immensi deserti, punto terminale del mondo.
Che cosa evoca questo punto terminale
del mondo? Forse l’altrove, forse un luogo impossibile ma reale, forse
un punto zero da cui si può osservare e misurare il mondo, da
cui si può comprendere ed essere compresi.
Il giro del mondo di città in
città si rivela, per Claire, uno spostamento effimero: perché
esiste una sola, gigantesca metropoli virtuale, un’unica gigantesca
caverna platonica e lo spazio riesce spaventosamente asfittico ed insignificante.
Le città hanno reso invisibile la terra, hanno provocato l’alienazione
dell’uomo dalla terra.
"Così il continente Australia
mi apparve come uno spazio vuoto, immenso. Poi scoprii l’interno con
la sua terra rossa. Mi dissi che c’erano i luoghi per fare un film,
dove far convergere le immagini del mondo intero, un film con una catastrofe
nucleare e qualche persona che avrebbe raccolto quelle immagini…"(1).
I molti grandi temi toccati dal film (lo spazio e il tempo, il mondo
e la terra, il senso del cinema come arte del vedere) sono sintetizzati
in questo passaggio di intervista in cui Wenders chiarisce cosa significhi
essere in orbita intorno al cinema, intorno alla Terra vista dall’alto,
cioè dalla protosfera. L’avventura di Claire ai confini
del mondo è anche l’avventura del cinema che orbita intorno
al mondo e intorno a se stesso.
E di più: l’avventura di Claire
è movimento, passaggio, spostamento da una caverna all’altra
e coincide idealmente e stilisticamente con la struttura del film che
è diviso in due parti: Claire fugge dalla prima caverna che è
il mondo, gigantesca metropoli post-moderna e scopre alla fine del
mondo la seconda caverna che è una caverna ipertecnologica
che ospita il laboratorio elettronico di Farber, il padre di Trevor.
Farber è uno scienziato che sperimenta, nel suo laboratorio,
la possibilità di trasmettere immagini ai ciechi grazie ad una
misteriosa macchina che, collegata al cervello umano, vi deposita segnali
luminosi. La macchina, fonte di immagini, resuscita gli occhi accecati
dalla troppa assuefazione alle immagini e alle ombre destabilizzanti
degli scenari urbani. Ombre, immagini come potenti metafore dove nasce
la luce, dove nascono gli occhi, rigenerati a nuova vita, occhi che
da soli fondano e permettono il cinema.
La madre di Trevor, riacquistando la
vista, perde la vita. Claire abbandona la terra ma continua a gravitarle
intorno, danzando in orbita, sospesa nel vuoto cosmico, ormai lontana
dalla terra. Senza mondo e senza terra, i personaggi wendersiani si
aggirano come tanti prigionieri di una grottesca caverna platonica (naturale
ed artificiale insieme) alle cui soglie una grande luce acceca lo sguardo.
Film ambiguo e neo-platonico, esempio
di un cinema-mondo, "Fino alla fine del mondo" connette
visivamente città e deserti, macchine sofisticatissime e graffiti
preistorici aborigeni, pareti esterne ed interne del mondo, immagini
di un mondo senza più l’uomo.
"Giro giro tondo, casca il mondo......
"
Da E.T a A.I. cinema,
identità, e rappresentazione del mondo.
Daniela Turco
Quando mi è stato chiesto di
presentare A.I. di Steven Spielberg, nell'ambito degli incontri
di cinema e filosofia che si tengono annualmente presso la biblioteca
comunale di Monteporzio, ho sentito immediatamente l'impulso di proporlo
mettendolo in relazione con un film precedente dello stesso regista,
E.T. l'extraterrestre, implicando quindi i due film in una sorta
di doppia lettura.
Questo desiderio di far luce sui legami
e le differenze tra due film realizzati a distanza di quasi vent'anni,
A.I. versus E.T. o viceversa, non nasceva solo in ragione
di una certa idea di mondo, e di comunicazione che in essi si va costruendo,
ma proveniva anche da una certa idea di cinema, e di identità,
che entrambi i film, mettono in moto e che, diversamente, ci trasmettono.
In realtà, la gestazione di A.I.,
presentato ufficialmente alla Biennale cinema di Venezia nel settembre
2001, iniziò con largo anticipo, circa vent'anni prima, quando
per la prima volta Kubrick ne parlò a Spielberg, all'inizio degli
anni '80, e dunque nello stesso periodo in cui, presumibilmente, questi
stava lavorando a E.T..
Spielberg parlando di A.I. accenna
infatti a: "un racconto, una storia bellissima, di cui Stanley mi fece
dono, e che da quel momento mi fu impossibile dimenticare."
Nel 1969 Brian Aldiss, scrittore di
fantascienza, aveva pubblicato su Harper's Bazaar il racconto "Super
Toys Last All Summer Long", il cui protagonista era, appunto, un robot
bambino che tentava di farsi amare da una madre umana. Kubrick, dieci
anni dopo, ne acquistò i diritti, e ne cominciò a parlare
con Spielberg, coinvolgendolo sempre più intensamente, finché
un giorno gli chiese di essere lui stesso a girare il film, più
vicino alla sua sensibilità, al suo mondo, mentre lui ne sarebbe
stato il produttore. Ebbe allora inizio tra i due un dialogo fitto a
distanza, fatto di fax e di molte, lunghe telefonate trans-oceaniche,
mentre il progetto A.I. si andava delineando, un progetto che
avrebbe previsto e comportato, nelle fantasie dei due registi, un cotè
tecnologico e computerizzato estremamente avanzato. Con la prematura
scomparsa di Kubrick, nel 1999, Spielberg si ritrovò da solo
a fronteggiare A.I., e così coinvolto intimamente nel
progetto fino al punto di scriverne la sceneggiatura.
Questa, in poche righe, è dunque
la storia della genesi di un film difficile, per molti versi respingente,
che vorrei tentare di "leggere" molto liberamente, non solo per ciò
che di per sé "rappresenta", ma anche come possibile traccia
di un certo percorso d'autore nell'ambito del cinema americano contemporaneo.
Tanto per iniziare con le affinità
tra A.I. e E.T. , si potrebbe partire dai titoli, anzi
dalle iniziali che, curiosamente, siglano entrambi, e dalle derive di
assonanze che, entrambi innescano, là dove A.I. ( si potrebbe
pronunciare ei ai, ponendo l'accento su I (I, io) mentre E.T., analogamente,
potrebbe slittare in IT, che significa - per usare una terminologia
lacaniana-, la cosa. Un soggetto dunque, un io e una "cosa",
si verrebbero quindi a contrapporre, già nei titoli, in quella
soglia di confine, cioè, che precede le immagini. Ma chi è
E.T., "la cosa", l'extra-terrestre, il radicalmente "altro" dagli umani,
che incontra una piccola comunità di bambini quando la sua astronave,
per una serie di circostanze, lo deve abbandonare in una terra sconosciuta
che si rivelerà essere uno dei sobborghi scintillanti di luce
di Los Angeles? In una pagina densa e illuminante, così scriveva
Julia Kristeva: "Oggi Narciso è un esule, privato del suo spazio
psichico, un extraterrestre dal comportamento preistorico, per mancanza
d'amore. Bambino torbido, scorticato, un po' repugnante, senza corpo
e senza immagine precisi, perchè ha perduto il proprio sé,
straniero in un universo di desiderio e di potere, egli non aspira che
a reinventare l'amore. Gli E.T. sono sempre più numerosi. Siamo
tutti E.T. "
Era il 1982, e Spielberg, ancora lontano
dal misurarsi con la Storia che in altri film successivi avrebbe incrociato
(Schindler's list, Amistad, fino a giungere a Salvate
il soldato Ryan), rivendicava ancora un'innocenza di sguardo, consegnando
al cinema, e alla sua Storia, forse il suo film più radicale
e rivoluzionario. Ma il mondo di E.T., che incontra e si "specchia"
in E.(llio)T., il bambino terrestre suo simile, suo fratello, finanche
nel nome, che lo include dolcemente, è ancora un mondo condivisibile,
e di fatto condiviso, un mondo rivoluzionario perché restituito
e salvato dai ragazzini, che con la messa a punto di un dispositivo
di comunicazione "tecnicamente dolce", contro il potere degli adulti
e della NASA, restituiranno il piccolo extraterrestre alla sua gente,
non senza aver affermato, nel volo miracoloso delle biciclette contro
la luna, nel "fai da te" tenero e improvvisato di una comunicazione
che implica il gioco e i sentimenti e coniuga lo sguardo con il cuore,
la forza di un cinema che non è "per" l'infanzia, ma, che si
fa, potentemente, esso stesso infanzia. Non siamo molto lontani dalle
parole profetiche, e poetiche, di Godard che chiama il cinema "Infanzia
dell'arte".
A distanza di vent'anni molte cose sono
cambiate. Leggere A.I. come specchio scuro di E.T. permette
al cambiamento, e al taglio inaugurale che compie sul presente, di mostrarsi,
proprio a partire dalle sorprendenti affinità che legano i due
film.
Intanto il mondo di A.I. è
già in partenza un mondo "altro", che disegna uno scenario congelato
da post-catastrofe, semi-coperto dalle acque, dopo lo scioglimento delle
calotte polari, e rigidamente diviso in umani e "mecha", robot tuttofare
usati come elettrodomestici sofisticati. Ma si potrebbero immaginare
dei robot capaci di amare? Li si potrebbe programmare per dare e ricevere
amore? Il risultato di questa ricerca, che sta al cuore della Cybertronic
Manifacturing, è David, un robot bambino, che, una volta, opportunamente,
inizializzato sarebbe in grado di amare, come un figlio vero, i propri
genitori umani. Parte così la lunga odissea di David, capitato
nella casa di Harry e Monica, il cui unico figlio da anni giace in coma
irreversibile, e in seguito abbandonato dalla madre, una volta che il
figlio vero ritorna a vivere e che una coabitazione serena risulta di
fatto impossibile.
Senz'altro un certo fantasma kubrickiano
lavora potentemente il film dall'interno, a partire da un uso del colore
molto lontano dalle trasparenze a dominante calda - si pensi al cuore
rosso- luminoso del piccolo extraterrestre, ai tramonti, alle notti
brillanti di stelle e di luci in cui si disegnava l'arcobaleno - che
bagnavano le immagini di E.T., e che facevano rivivere, palpitante,
e sostanzialmente intatta, la magia di Oz e la forza simbolica di un
cinema classico. Qui la dominante è fredda, siderale, smorta.
E' un mondo quello di A.I. che ha già irrimediabilmente
perduto i suoi contorni di realtà, un mondo che, da subito si
dà come immagine, e che viaggia, velocemente, riverberandosi,
verso altre immagini: anche Minority Report, infatti, il film
di Spielberg successivo a questo, mantiene soprattutto a livello del
lavoro sul colore questo aspetto di trasparente freddezza, di malinconica
dominante grigio-azzurra, dato dalla presenza dell'acqua che è
l'elemento costante che fluidamente passa nei due film. Non è
casuale, ad esempio, che il protagonista di Minority Report perda
il figlio ai bordi di un'affollata piscina, nella breve durata di un'immersione
sott'acqua, che come una sorta di resto, continua a ossessionare,
e a ritornare nel l'immaginario spielberghiano. E d'altronde, è
forse fin dai tempi dello Squalo che l'acqua svolge nel cinema
di Spielberg un ruolo, appunto fluttuante, tanto di ambigua decifrazione
quanto di cruciale importanza.
La domanda essenziale su cui ruota il
film è quella proposta, all'inizio, da una delle assistenti dello
scienziato che ha progettato David, il bambino immortale, la tenera
macchina, soggetto, e, insieme, merce, e cioè: "il punto non
è se la cosa, la macchina sarà in grado di amare, ma se
gli uomini sapranno amarlo a loro volta?"
La prima parte del film, crudele come
di fatto una fiaba può esserlo, mostra l'ingresso del robot David
nella casa, nel suo nuovo mondo, e la dinamica del suo rapporto con
la madre, segnata, dall'elemento dello sguardo posto in primo piano.
E' proprio su questo crinale scosceso dello sguardo, e delle separazioni
che innesca, che l'immaginario spielberghiano si lascia contaminare
dal cinema kubrickiano, dando luogo ad una sorta di "doppio sogno",
di film-ologramma, prismatico, in cui le tematiche care ai due registi
si incontrano, e, sorprendentemente, si contaminano. Ora, Kubrick, in
seguito ad una serie di circostanze, aveva deciso di dedicarsi a Eyes
wide shut, che sarebbe stato il suo ultimo film, incentrato sulla
crisi di una coppia scossa nel profondo dal fantasma della gelosia,
e di posticipare quindi le riprese di A.I., in cui, non a caso,
nelle mani di Spielberg che lo raccoglie come un testimone, il fantasma
della gelosia, o meglio dell'invidia, assume una lancinante centralità.
Scrive Lacan: " Invidia viene da videre. Per noi analisti
l'invidia più esemplare è quella che da tempo ho notato
in Agostino per attribuirle tutta la sua portata, e cioè quella
del bambino che guarda il fratello attaccato al seno della madre, guardandolo
amaro conspectu, con uno sguardo amaro, che lo scompone e che
ha su di lui l'effetto di un veleno." E ancora, in un altro punto: "
Fin di primo acchito, noi vediamo, nella dialettica tra occhio e sguardo,
che non c'è affatto coincidenza, ma fondamentalmente inganno.
Quando, nell'amore, domando uno sguardo, quel che c'è di radicalmente
insoddisfacente e di sempre mancato è che - Tu non mi guardi
mai là da dove ti vedo. Inversamente, ciò che guardo
non è mai ciò che voglio vedere."
Tutto A.I. si innesta, allora,
lungo questo asse portante di un desiderio impossibile da realizzare,
su questa mancanza che lo fonda e che lo percorre da cima a fondo, e
muove David, con la sua sconfinata richiesta d'amore, a cercare ogni
strada, come già Pinocchio, per diventare un bambino vero.
Desiderio quindi di diventare umano, di chiedere la grazia di incarnarsi
quindi "se quella di assumere la carne è una condizione per essere
amati". Ma questo desiderio di umanità che sostiene e conduce
David, è già un desiderio di un "essere per la morte",
è già un'incarnazione di quella pulsione per thanatos,
che nel pensiero freudiano, non a caso, è data come la più
pulsionale di tutte. In un certo senso, allora, in A.I. è
al lavoro dietro le immagini, più riconoscibilmente spielberghiane
- penso alle sequenze dell'imprinting che lega David alla madre, vera
e propria fase dello specchio che si fa immagine, in cui si ripresentano
i sentieri già battuti in Lo Squalo, e E.T., o
alla lancinante sequenza della piscina, che sancirà l'esclusione
di David dall'ambito familiare e l'inizio della sua odissea nello spazio
e nel tempo- il senso di un'altra mancanza, ben più radicale,
quella di un altro regista amico, Kubrick, che, a tutti gli effetti,
è venuto a mancare, e al cui fantasma, anche del suo cinema,
quelle immagini sono dedicate, per rendergli una sorta di malinconica
testimonianza. E mostrandosi, raccontano forse anche di quella incapacità
radicale che attraversa l'Occidente e che ha a che fare con l'elaborazione
del lutto, e con la capacità, o l'impossibilità, di accettare
la morte. La fine di David, che nel suo ultimo desiderio ottiene finalmente
di farsi umano, e di addormentarsi per sempre, vicino alla madre, a
lei ricongiunto nell'eternità di un ultimo istante infinito,
è una fine paradossalmente lieta, un happy end triste per
eyes wide shut, che riscatta insieme a quella del bambino,
di questo piccolo principe senza favola, l'esistenza di "altre" intelligenze
artificiali, come lui infelici, irrimediabilmente perdute. Penso per
esempio alla fine di Hal 9000, il computer geloso e "troppo umano" di
2001 Odissea nello spazio, che, mentre viene "terminato" da un
altro David, con la voce che sempre più si va rallentando,
dichiara di avere paura, e poi ancora, come un bambino che canta per
darsi coraggio, prima di svanire del tutto, ripete inceppandosi i versi
di una filastrocca infantile; "Giro, girotondo, casca il mondo"....
Ecco dunque, lì dispiegato, meraviglioso
e terribile, quel "sex appeal dell'inorganico" di cui scriveva Benjamin,
poi ripreso da Perniola in un testo che portava appunto quel titolo,
e che, in una delle sue pagine, poneva una questione centrale, ai fini
del discorso che si sta qui sviluppando: " Ma chi ha il coraggio o la
disperazione di dire che l'uomo è una quasi cosa e la cosa un
quasi uomo?".
Il senso più profondo di A.I.
, e la sua difficile risoluzione, sta proprio in questa domanda; perchè
il mondo di questo film spielberg-kubrickiano è un mondo che,
insieme con i colori, sembra aver già perduto da tempo immemorabile
la propria umanità, un mondo in cui gli uomini, e le donne, in
cerca d'amore non sono capaci, come unica risposta, che produrre merce.
Ed è per questo che il piccolo David, la morbida macchina, il
bambino immortale che vuole diventare "vero", quando scopre la sua immagine
reificata in una serie di copie identiche a lui, merci confezionate
e cellophanate, pronte per essere vendute e consumate all'infinito,
sceglie di terminarsi, con lo stesso gesto disperato e definitivo che
in un tempo lontano fu del piccolo Edmund rosselliniano, gettandosi
dal grattacielo nelle acque gelide che coprono quella che una volta
era stata Manhattan.
A.I. fu presentato nel settembre
del 2001 alla mostra del cinema di Venezia. Meno di una settimana dopo
sarebbero crollate le torri gemelle dell'World Trade Center e le loro
immagini, reiterate all'infinito, sarebbero rimbalzate sugli schermi
televisivi di tutto il mondo; forse questo strano film, melò
in stato di avanzata metastasi, tenero, crudele, opaco e ambiguamente
non identificabile, perché troppo vicino, troppo rispecchiante
e quindi pericoloso, fa intravedere, di sfuggita, qualcosa di quel punto
cieco che sta risucchiando l'Occidente verso confini preoccupanti che
ci riguardano, e ci ostiniamo a rimuovere, i cui effetti deflagranti
sono già storia di oggi e non di domani.
Concludo qui, quello che più
che un intervento è un insieme di appunti e di possibili spunti
a partire da A.I.
Essendosi trattato, nel suo farsi reale,
di un discorso intrecciato e condiviso con una serie di persone che
hanno partecipato all' incontro che seguiva il film, e che lo hanno
movimentato con i loro interventi, resta, forzatamente, e giustamente,
parziale.
Isole (II)
La ripresa
(considerazioni sul film L’invenzione
di Morel di Emidio Greco tratto dall’omonimo racconto di A.B.Casares)
Vincenzo Cuomo
La caratteristica del film di Emidio
Greco sembra perfettamente corrispondere a quella del racconto-romanzo
di Adolfo Bioy Casares. Come quest’ultimo è un’argomentazione
filosofica che si mostra come racconto, così il film di
Greco è un film filosofico. Nello stesso tempo, tuttavia, è
un film sul cinema, un saggio di metacinema.
L’idea che congiunge per così
dire il suo contenuto al suo meta-contenuto è quella della ripresa,
nel senso proprio dell’atto tecnico della registrazione delle immagini.
In tale atto tecnico, l’arte cinematografica è inscindibilmente
legata alla tecnologia; in esso l’arte non è separabile dalla
tecnica.
La ripresa di cui parla il film (e il
libro) è il nome di un esperimento tecnico-scientifico che non
a caso si compie su di un’isola, su di un’isola irrintracciabile perché
assolutamente fuori da ogni rotta, u-topia in senso proprio.
Solo su di un’isola radicalmente separata dalle terre conosciute e,
quindi, perfettamente separata dalla storia e dalla tradizione, è
possibile pensare, come ha messo in evidenza Massimo Cacciari(2),
la perfetta realizzazione del progetto tecnico di totale rischiaramento-dominio
della natura. L’isola implica l’u-topico distacco dalla dimora naturale.
Dall’Utopia di Thomas More alla
Nuova Atlantide di Francis Bacon, l’isola è il non-luogo
in cui si rende visibile il senso ultimo del progetto tecno-scientifico
di dominio della natura.
I riferimenti alla Nuova Atlantide
sono abbastanza evidenti, tanto nel film che nel racconto. Bacone,
come è noto, descrive, ad un certo punto, le caratteristiche
e le finalità della Casa di Salomone, suprema istituzione
scientifica dell’isola. In tale istituto di ricerca vi sono gabinetti
ottici, che moltiplicano la potenza della luce portandola a grande
distanza e che producono "arcobaleni artificiali, circoli luminosi
e ogni specie di riflessi", case dei suoni, capaci di riprodurre
"echi strani e artificiali che ripetono le voci varie volte come
ripercuotendosi", case dei profumi in cui è possibile
riprodurre i profumi e, infine, case per gli inganni dei sensi
ove si compiono "ogni specie di giochi di prestigio, di false apparizioni,
di illusioni, di imposture con relativi inganni"(3).
L’invenzione di Morel è tuttavia
segno di una trasformazione/radicalizzazione del processo di cattura-presa
tecnica dell’esistente. È segno, cioè, del passaggio dal
progetto moderno di scienza a quello ultra (post) moderno. La strategia
moderna si fondava su di una netta distinzione, nell’ente, tra le qualità
primarie misurabili e quelle secondarie, soggettive e non-misurabili,
quindi tra immagine sensibile e forma logico-calcolante.
Si pensi all’interpretazione adorniana dell’episodio di Ulisse e le
Sirene nell’Odissea omerica(4).
Ulisse "frega" la natura (le Sirene) separando l’immagine
mimetizzante, fascinosa e pericolosa per l’identità del sé,
dalla sua forma logica e calcolabile (cui si sottomette legandosi
ad essa). Ulisse, definendo i fondamenti della strategia tecno-scientifica
moderna, comprende che è possibile dominare la natura solo sottomettendosi
alla forma del suo accadere, ossia alle sue leggi. E qui
enunciamo un paradosso epistemologico costitutivo della scienza occidentale,
le cui leggi sono da un lato il prodotto della ratio calcolante,
dall’altro sono la manifestazione di un ordine che fonda la stessa
ragione tecno-scientifica. È un concetto che troviamo espresso
nella famosa massima baconiana, secondo cui natura non nisi parendo
vincitur.
La strategia di Morel è un’altra.
Ciò che è dietro il suo progetto tecnico è il dominio
della natura attraverso la "cattura" della sua stessa immagine
sensibile (quell’immagine che per secoli era restata appannaggio
dei poeti e di qualche filosofo inattuale). La presa tecnica sulla natura
è resa possibile dalla sua integrale ri-presa. Questa
è l’utopia tecno-scientifica di Morel. Egli vuole produrre integralmente
la vita ri-copiandola, rispecchiandone/catturandone l’evento stesso.
Che sia tale il senso della ri-presa di Morel lo si evince anche
dal fatto che il suo scopo dichiarato consista nel far rivivere eternamente
la settimana trascorsa da lui e dai suoi amici sull’isola, nel far rivivere
quella settimana esattamente come si è svolta, nel far rivivere
tutti gli attimi vissuti dai suoi amici, e in particolare da Faustine,
per l’eternità.
Tuttavia, c’è una evidente aporia
nella sua utopia tecnica; anzi una doppia aporia.
Innanzitutto, e questo Morel lo sa bene,
è possibile la "cattura" solo del già-stato,
è possibile la presa tecnica solo del già-accaduto:
il passato; la presa tecnica può essere solo una ri-presa
e, quindi, una cattura cui sfugge la contingente novità
dell’essente, il suo contingente evento. Del resto – è
questa la sua caratteristica ontologica – il contingente non
è solo ciò che potrebbe non-essere (che avrebbe potuto
non-essere), ma è, anche ed essenzialmente, ciò che ha
la potenza d’essere. Solo ciò che può non-essere
ha la potenza d’essere. Per tale motivo, alla ri-presa tentata da Morel
sfugge essenzialmente la contingenza dell’essente e, quindi, la sua
stessa contingenza, la contingenza che la caratterizza in quanto decisione
che avrebbe potuto non essere, pur avendone la potenza(5).
Abbiamo parlato di una doppia aporia;
di un’aporia in sé doppia. Perché, in contrasto
col suo stesso scopo, anche il dominio-cattura del già-stato
non può essere "perfetto". Infatti, l’immodificabilità
del passato (il suo essere perfectum) contrasta con l’utopia
della sua ri-produzione: ciò-che-è-stato non può
essere prodotto di nuovo, perché non può essere
prodotta la sua contingenza, il suo e-venire.
La vita vissuta dagli ospiti dell’isola,
la vita vissuta da Faustine, non può, quindi, rivivere.
La macchina, Morel ne è consapevole, può solo rispecchiare,
per così, dire le apparenze della vita.
Nel progetto di Morel c’è, infine,
un paradosso. La macchina di cui egli si serve per realizzarlo ha bisogno
della natura, ha bisogno dell’energia delle maree. Alla natura
non è possibile sfuggire. Anzi, credendo di poterla dominare,
la tecnica sembra destinata ad una sorta di naturalizzazione,
di ritorno alla natura, ad una natura che si muove da sé,
automate physis, e che sottomette a sé la tecnica.
Il terrore che s’impossessa del protagonista
del film (e del racconto) non è dovuto alla potenza della macchina,
ma alla strapotenza del connubio natura/tecnica, connubio che sembra
escludere definitivamente l’umano. Ciò che lo terrorizza è
la possibile marginalizzazione/esclusione tecno-naturale del
fenomeno umano. Che è quanto i filosofi francofortesi della prima
ora interpretavano come capovolgimento della tecnica in mito(6),
vale a dire in cieca natura auto-moventesi.
Grazie alla tecnica è la natura
che potrà fare a meno di noi; grazie alla tecnica la natura potrà
fare a meno del mondo.
………………….
Il film di Emidio Greco è anche
un film di un amore impossibile. Nel racconto di Casares questo aspetto
è ancora più evidente.
La disperazione del protagonista riposa
sul fatto che gli è impossibile comunicare con Faustine.
Ella non è mai il suo altro. Eppure, fino al momento in
cui scopre la verità dell’invenzione di Morel, il protagonista
tenta di interpretare l’atteggiamento della donna, come se ella
fosse l’altro. Ma ciò non gli basta. Non gli può bastare
la contemplazione della visione di Faustine. Ha bisogno che ella gli
corrisponda, magari anche attraverso un rifiuto.
Tutta la vicenda mostra come il desiderio
del soggetto sia sempre, lacanianamente, il desiderio dell’altro.
Ciò ci porta a considerare la
possibilità che il racconto di Casares e il film di Greco nascondano
un significato esoterico.
Non ho la competenza necessaria per
mostrarlo, né mi interessa molto. Tuttavia, la situazione vissuta
dal protagonista potrebbe essere la descrizione di uno "stato infernale",
caratterizzato dalla pura contemplazione in assenza di desiderio.
È l’esatto capovolgimento della dantesca rosa dei beati, dello
stato paradisiaco definito dall’esatta corrispondenza tra desiderio
del soggetto e desiderio dell’Altro.
Potremmo concludere dicendo che, per
Casares-Greco, l’inferno non sono gli altri (Sartre) ma l’assenza dell’altro.
Ecco spiegato il tentativo estremo e
impossibile del protagonista: entrare nella sfera della coscienza di
Faustine. Ma questa è la conclusione del racconto, non del film
in cui il protagonista tenta di distruggere le macchine.
Le ultime righe del racconto: "All’uomo
che, prendendo spunto da questa relazione, inventerà una macchina
capace di riunire le presenze disgregate, rivolgo una supplica. Cerchi
Faustine e me, e mi faccia entrare nel cielo della coscienza di Faustine.
Sarà un atto pietoso"(7).
Sentieri (in)interrotti: Mulholland
Drive
Daniele Dottorini
Mulholland Drive si colloca,
a conclusione di una ideale trilogia della strada (insieme a Lost
Highway e The Straight Story), vale a dire della strada intesa
come connessione, come forma ulteriore di una poetica dello spazio che,
da sempre, accompagna – come interrogazione e sperimentazione – la possibilità
stessa del cinema secondo Lynch. Nato come progetto televisivo (rifiutato
poi dalla rete ABC perché giudicato incomprensibile) si trasforma
poi in film per il grande schermo. Film particolare, perché della
struttura del pilota televisivo conserva uno degli elementi narrativi
tipici del genere, vale a dire la presentazione in successione dei personaggi
e delle storie, molti dei quali destinati forse ad uno sviluppo ulteriore
in una serie che non vedrà mai la luce, ma che finiscono per
essere solo delle apparizioni, fantasmi di storie annunciate, dislocate
in un ipotetico futuro.
Già nella sua struttura dunque,
Mulholland Drive si presenta come film di transito, interrotto
sentiero narrativo che allude all’infinito ad un film futuro, da farsi.
Il suo essere strada, percorso, sentiero è annunciato peraltro
sin dal titolo, che prende il nome da una delle strade più famose
di Hollywood, arteria di Los Angeles vicina al Sunset Boulevard.
Dopo la strada come detour
infinito in Lost Highway, la strada come interrogazione dello
sguardo in The Straight Story, la terza possibilità dell’errare
filmico si concretizza in Mulholland Drive sotto la forma
dello spazio dell’immaginazione come macchina creatrice di immagini.
La poetica dello spazio di Lynch si sofferma ora sul set cinematografico,
sulla molteplicità delle finzioni che il cinema (Hollywoodiano)
crea e alimenta come macchina industriale.
Anche qui, l’apertura del
film (le prime sequenze dei titoli di testa, ma anche l’apertura come
ingresso, fenditura che connette più spazi) ci servono come punti
di partenza del discorso. Anzitutto un fatto: la sequenza dei titoli
di testa è in realtà composta da più blocchi. Un
primo blocco in cui su uno sfondo viola e con una musica ritmata di
sottofondo compaiono, in una serie di sovrimpressioni sovrapposte diverse
coppie di ballerini con vestiti degli anni cinquanta. Le loro silhouette
si stagliano come galleggiando sul nulla dell’astratto sfondo violaceo
(su cui tra l’altro si disegnano le ombre nere di altri ballerini).
In mezzo all’inquadratura comincia ad apparire (sempre in sovrimpressione)
come un’ombra bianca tremolante non a fuoco; poi la figura di una giovane
donna bionda e sorridente, evanescente, quasi senza consistenza materiale
(Naomi Watts). Stacco, la musica cambia e la ripresa si fa incomprensibile,
perlomeno all’inizio. Poi l’inquadratura ritorna a fuoco e scopriamo
che la macchina da presa sta riprendendo un letto vuoto, le lenzuola,
la coperta, il cuscino rosso. La macchina da presa si avvicina di più,
il cuscino rosso copre lo schermo che dissolve a nero. I titoli di testa
continuano a scorrere, un’auto scura procede lentamente di notte lungo
una strada piena di curve; le inquadrature si susseguono in lente dissolvenze
incrociate che sempre mostrano la macchina mentre cammina, ma con continui
cambi di prospettiva, quasi frammentando il percorso già non
diritto della vettura. La sequenza continua anche dopo la comparsa dell’ultimo
titolo di testa ("Written and Directed by David Lynch"). A
bordo dell’auto, sul sedile posteriore c’è una giovane donna
bruna, sui sedili anteriori due uomini che non vediamo se non di spalle.
L’auto si ferma, la donna chiede il perché di quella sosta inattesa.
L’uomo seduto al posto del passeggero si volta: vediamo la canna di
una pistola. La donna è terrorizzata. In quel momento un’altra
auto a folle velocità, impegnata in una gara di corsa e proveniente
dalla parte opposta, appare all’improvviso. I sui fari illuminano la
scena, lo schianto è secco, terribile. Dai rottami delle due
auto aggrovigliate esce, barcollando e in evidente stato di shock, la
giovane donna, che lentamente si avvia verso la città di Los
Angeles le cui luci brillano in lontananza.
I tre blocchi che costituiscono
l’inizio di Mulholland Drive si manifestano immediatamente per
la loro estraneità l’uno all’altro: se l’ultimo è caratterizzato
da una sequenzialità narrativa (immediatamente misteriosa ed
inquietante), i primi due si oppongono sia al terzo, sia tra di loro:
la sequenza dei ballerini sospesi in uno sfondo di colore(8),
introduce immediatamente, con una sorta di impatto violento, una sospensione
della materialità dei corpi e dello spazio: "Diverse dai
corpi senza ombra e dalle ombre senza corpo, queste apparizioni lattiginose
assumono appunto consistenza spettrale, come tracce di materia ectoplasmatica
trasmesse da un altrove"(9).
Annunciato senza mediazioni, il carattere spettrale, immateriale del
cinema fa spettacolo di sé proprio attraverso una molteplicità
di corpi che danzano, che sembrano cioè annunciare nello stesso
tempo la loro consistenza materiale. Il blocco immediatamente successivo
si sofferma invece, con la sua inquadratura ravvicinata, sulla materialità
degli elementi di un letto disfatto: l’occhio della macchina da presa
si trasforma in un occhio tattile, che accarezza i tessuti e i materiali
che compongono le lenzuola, la coperta e il cuscino.
Mulholland Drive si annuncia
dunque come film dalle molteplici dimensioni che mette in gioco gli
elementi costitutivi del cinema: materialità, immaterialità,
narrazione. È infatti un film sul cinema, un film che indaga
il cinema in più direzioni: l’immagine-movimento come capacità
di costituire (contemporaneamente) molteplici mondi che evocano allo
stesso tempo il materiale e l’immateriale e il cinema come meccanismo
economico, forma di potere capitalistico e straniante (una parte considerevole
della narrazione ruota intorno al progetto di un film da fare). Le due
dimensioni si intrecciano, si intersecano in profondità. La macchina-cinema
hollywoodiana diviene il teatro, la tela dove il territorio del cinema
lynchiano si dispiega come interrogazione profonda: nel film "...coesistono
più strati di pensiero, e coesistono più mondi, come un
territorio ondulato in continua oscillazione, dove un pensiero riordina
con uno scarto paradossale lo sviluppo di un reale fantastico"(10).
Il dispiegamento di molteplici inizi
rimanda dunque ad una interrogazione sulle stratificazioni profonde
della materia: del pensiero, dell’immagine come materialità e
della sostanza delle cose. Tutto sembra dispiegarsi nel film (e nel
cinema di Lynch) come produttività infinita. La realtà
stessa produce incessantemente se stessa, biforcandosi, dividendosi,
creando spazi, sezioni, stanze e strade. Non si tratta più di
un’ontologia del cinema, ma di una domanda ontologica che il cinema
instancabilmente pone, proprio in virtù del suo movimento incessante:
"Dividendosi di continuo, le parti della materia formano piccoli
vortici in un vortice e, in questi ultimi, altri più piccoli,
e altri ancora negli intervalli concavi dei vortici che si toccano.
La materia presenta dunque una contestura infinitamente porosa, spugnosa
od erosa senza presentare dei vuoti, ma sempre come una caverna nella
caverna: ogni corpo, per quanto sia piccolo, contiene un mondo, poiché
è percorso da passaggi irregolari, circondato e penetrato da
un fluido sempre più sottile"(11).
La strada assume una dimensione
materiale, dinamica produzione e biforcazione della materia, via di
comunicazione e di collegamento dei molteplici elementi del reale, che
non si configura come statico riflesso di una realtà ideale(12),
ma come movimento incessante di essere: "In Lynch è come
se le articolazioni macchiniche, gli ingranaggi e le sinapsi, gli snodi
e le vie di comunicazione, le tubature di un sistema che fa corpo con
le apparizioni e le storie, si manifestassero in quanto liberazioni
di stati d’essere, di flussi energetici che si sprigionano in quanto
inerenti al cinema come luce e suono, come pensiero che imprime movimento"(13). Spazi
come elementi dinamici e non come contenitori di storie o di individui,
territori mobili che riguardano propriamente gli stati e le dinamiche
dell’essere: il cinema di Lynch si configura dunque qui nella sua complessità
di potenza indagatrice del reale, mostrando come la sua interrogazione
non sia un’esplicitazione di questa o di quella teoria filosofica, ma
si ponga essa stessa come movimento di pensiero, movimento che induce
il pensiero ad una sorta di "cinematizzazione", di spostamento
e slittamento che, da sempre, caratterizzano l’essenza stessa della
filosofia.
Note
1)
Paolo Federico Colosso, Wim Wenders, Paesaggi luoghi città,
Collegno (TO), Ed. testo &Immagine, 1998
2)
Vedi Massimo Cacciari, L’arcipelago, Milano, Adelphi, 1997, pp.
71-91.
3)
Francesco Bacone, La nuova Atlantide, in Scritti filosofici,
a cura di Paolo Rossi, Torino, UTET, 1975, pp. 861-862.
4)
Vedi Theodor W.Adorno, Interpretazione dell’Odissea. Con un
dialogo sul mito tra Adorno e Karl
Kerenyi, tr. it a cura di Stefano Petrucciani,
Roma, manifestolibri, 2000.
5)
Mi richiamo su questo punto, molto liberamente, ad una delle tesi centrali
sostenute da Massimo Cacciari nel suo noto Dell’inizio (Milano,
Adelphi, 1990).
6)
Vedi, ovviamente, Max Horkheimer – Theodor W.Adorno, Dialettica
dell’illuminismo, tr. it. di L.Vinci, Torino, Einaudi, prima ed.
Reprints, 1974; in particolare il primo capitolo.
7)
Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel, tr. it. di Livio
Bacchi Wilcock, con introduzione di Jorge Luis Borges, Milano, Bompiani,
II ed. Tascabili, 1989, p. 146.
8)
Lynch racconta di aver inserito la sequenza all’ultimo momento, ma:
"...non solo è perfettamente integrata nell’insieme, ma
si è rivelata essenziale", David Lynch. Désirer
l’idée, entretien par M. Henry, in " Positif ",
n. 490, 2001, p. 87.
9)
A. Cappabianca, Tracce da un altrove, in "Filmcritica",
n. 523, 2002, p. 125.
10)
E. Bruno, Un intrico diegetico, in "Filmcritica" n.
523, 2002, p. 123.
11)
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 1990,
p. 8.
12)
È vero che Lynch fa continuamente riferimento nelle interviste
ad una sorta di schema platonico della creazione artistica, dall’idea
fuori di sé alla sua concretizzazione nell’opera attraverso di
sé, ma questo schema è poi perfettamente rovesciabile
nel suo opposto.
13)
B. Roberti, Nella dualità della luce, in "Filmcritica",
n. 523, 2002, p. 126.