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CINEMA E FILOSOFIA 2003

Il mondo come cinema e come rappresentazione

 

Introduzione

Daniele Dottorini

Gli interventi che seguono sono alcuni dei percorsi svolti durante la rassegna "Il mondo in questione. Il mondo come cinema e come rappresentazione", che si è svolta a Monte Porzio Catone (RM) dal 24 gennaio al 28 febbraio 2003. Interventi mirati, incentrati su singoli film, alcuni dei quali, come Fino alla fine del mondo di Wenders, A.I. di Spielberg, L’invenzione di Morel di Emidio Greco e Mulholland Drive di Lynch, sono qui di seguito trascritti. Film diversi tra loro, per intenzionalità poetica, forma linguistica, esito commerciale; diversi, ma uniti dal fatto di essere interrogati ed analizzati all’interno di una problematica squisitamente filosofica come quella di "mondo".

Ancora una volta quindi, attraverso questo percorso, si è cercato di evidenziare le problematiche insite nel rapporto cinema-filosofia, che oggi è molto presente nel dibattito filosofico contemporaneo, e che "Kainos" ha già affrontato nei numeri precedenti. Un rapporto problematico lungi dall’essere facilmente risolto e che va incontro molto spesso a fraintendimenti o a facili esemplificazioni. Per meglio chiarire la complessità del discorso occorre allora ripercorrere i concetti che emergono nei vari interventi che seguono, per poter così estrapolare alcune chiavi di lettura di un problema tuttora aperto.

Nel primo saggio, Meccariello individua, in uno dei film più intellettualmente ambiziosi di Wenders, Fino alla fine del mondo, una problematica del vedere, della visione accecante del vero all’interno di una prospettiva neoplatonica. L’ipertrofica metropoli mondiale, contrapposta al vuoto, allo spazio che si apre alla vista del deserto australiano sono di fatto due incarnazioni parallele della caverna platonica, forme del nascondimento della visione come atto conoscitivo del mondo. In varie forme il mondo, la realtà si presentano come una serie di occultamenti, di falsi spostamenti all’interno del medesimo spazio (artificiale e naturale allo stesso tempo) che il cinema mostra attraverso il montaggio, forma di connessione spazio-temporale che ne fonda il linguaggio e le possibilità di autonomia rispetto alle altre forme espressive. Nel secondo intervento, Turco evidenzia il passaggio, temporale e concettuale insieme, che si attua in Spielberg da E.T ad A. I., film-sigla, ma anche film che testimoniano un cambiamento radicale di sguardo. Dal cinema che si vuole fortemente come infanzia (da intendere non come immaturità o ingenuità, ma come possibilità di uno sguardo libero ed innocente), al film come messa in forma di un nuovo territorio, forma della contemporanea disillusione nei confronti di un cinema tendenzialmente asettico e freddo, forse incapace (a parte alcuni potenti sguardi) di creare nuovi mondi attraverso il movimento delle immagini. Cuomo, nel terzo intervento, recupera un raro film di un autore italiano ai margini (nel bene e nel male) del mainstream cinematografico del nostro paese: L’invenzione di Morel di Emidio Greco. Nell’u-topia dell’isola, sorta di non-luogo dove solo è possibile sperimentare l’invenzione di un mondo come copia, si sviluppa una riflessione profonda sulle possibilità stesse del cinema, sospeso – sin dagli inizi – nell’ambiguità di uno strumento che riproduce il reale o di un dispositivo che lo crea. Il termine ripresa, analizzato da Cuomo, apre ad una serie di riflessioni ulteriori, che inducono a ripensare lo statuto ontologico del cinema, forse proprio a partire da quello straordinario saggio-testo di Kierkegaard, Gjentagelse (La Ripresa, 1843), in cui il filosofo danese metteva in gioco, attraverso il suo proverbiale "teathrum philosophicum", una serie di meccanismi concettuali, di vertiginosi incastri di figure e personaggi, al centro dei quali stava il tentativo fallimentare di "rivivere" un’esperienza nella sua pienezza, "riprenderla" – cioè rifarla propria, impadronirsene nuovamente – anziché semplicemente "ripeterla".

In questa alternanza/opposizione tra ripresa e ripetizione sta un’intuizione straordinaria del meccanismo cinematografico, e non solo per il facile gioco di parole tra "ripresa" e "ripresa cinematografica", ma proprio perché su questa alternanza/opposizione si fonda una dinamica interna del dispositivo di produzione e riproduzione delle immagini che il cinema (almeno il cinema che ha ossessivamente riflettuto su se stesso) non ha mai smesso di rimettere in gioco.

Ripresa come scacco. Come impossibilità che non può, però, cessare di essere tentata, perché il cinema sta anche in questa sua impurità, in questa impossibile quadratura del cerchio. Il cinema come ripetizione potenzialmente infinita di immagini e come impossibilità che ogni ripetizione sia totalmente una ripresa (così come impossibilità che ogni ripetizione sia veramente tale). In ogni momento della sua costruzione, il dispositivo cinematografico introduce uno scarto, un limite. Dai bordi dell’inquadratura allo stacco di montaggio, dalla durata al tempo interno della vita del film (e nel film, basti pensare alla "morte al lavoro" del cinema), ogni elemento concorre a determinare lo scarto rispetto alla ripresa totale, della vita come del cinema. In questo senso, allora, occorre distinguere tra la ripresa intesa come meccanismo implicito al cinema – che è un dispositivo in sé di ripetizione/ripresa di immagini ed eventi – e la ripresa come tentativo di riafferrare uno sguardo passato e riattivarlo nella contemporaneità, non per ripeterlo semplicemente tale e quale, come un oggetto inerte, ma per renderlo, di nuovo, presente.

È all’interno di queste considerazioni che, allora, si possono riscoprire le riflessioni di Bazin sullo statuto ontologico del cinema e le considerazioni di Godard sul cinema come "territorio in più" nella mappa del mondo. Riflessioni che sgombrano il campo dall’equivoco del cinema come "rappresentazione del mondo" ed aprono il dibattito verso un (problematico, come si accennava all’inizio) riconoscimento del cinema come dispositivo di pensiero, mondo che non ricalca semplicemente, come traccia, l’immagine della realtà, ma che si costituisce come autonoma e dinamica possibilità di uno sguardo "in più".

 

 

Interventi:

 

Amor mundi: note di fine millennio dalla caverna platonica

"Fino alla fine del mondo" (1991) di Wim Wenders.

Aldo Meccariello

 

Il senso del mondo è sempre fuori di esso

(L.Wittgenstein)

Wim Wenders realizza questo film nel 1991 e lo ambienta nel 1999. La cornice è tipica, dunque, di un film di fantascienza.

Una voce fuori campo annuncia che "il 1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano impazzì, nessuno sapeva dove sarebbe potuto cadere. Si librava appena al di sopra dello strato dell'ozono come un micidiale uccello rapace. Il mondo intero era in allarme, ma Claire in quel periodo viveva un suo incubo privato. Sognava tutte le notti un volo silenzioso, su una terra sconosciuta. Al principio la sensazione di volo era piacevole, ma poi diventava una sensazione di caduta e successivamente di panico. E si svegliava di soprassalto. Nell'autunno del 1999, a Claire Tourneur capitava di svegliarsi in strani posti..."

L’avvio del film rivela una classica avventura on the road. C’è l’annuncio di una catastrofe perché un satellite nucleare, opera dell’uomo, sta per abbattersi sulla terra. Claire, la irrequieta protagonista del film, avverte un senso di spaesamento, di estraneità da quella che è la sua abituale dimora, la terra. Ella, di città in città, (Venezia, Lione, Parigi, Lisbona, Mosca, Tokyo, S. Francisco, Pechino) attraversa le strade del mondo per inseguire un uomo, Trevor, oggetto del suo desiderio e finisce in Australia, terra dei grandi spazi e degli immensi deserti, punto terminale del mondo.

Che cosa evoca questo punto terminale del mondo? Forse l’altrove, forse un luogo impossibile ma reale, forse un punto zero da cui si può osservare e misurare il mondo, da cui si può comprendere ed essere compresi.

Il giro del mondo di città in città si rivela, per Claire, uno spostamento effimero: perché esiste una sola, gigantesca metropoli virtuale, un’unica gigantesca caverna platonica e lo spazio riesce spaventosamente asfittico ed insignificante. Le città hanno reso invisibile la terra, hanno provocato l’alienazione dell’uomo dalla terra.

"Così il continente Australia mi apparve come uno spazio vuoto, immenso. Poi scoprii l’interno con la sua terra rossa. Mi dissi che c’erano i luoghi per fare un film, dove far convergere le immagini del mondo intero, un film con una catastrofe nucleare e qualche persona che avrebbe raccolto quelle immagini…"(1). I molti grandi temi toccati dal film (lo spazio e il tempo, il mondo e la terra, il senso del cinema come arte del vedere) sono sintetizzati in questo passaggio di intervista in cui Wenders chiarisce cosa significhi essere in orbita intorno al cinema, intorno alla Terra vista dall’alto, cioè dalla protosfera. L’avventura di Claire ai confini del mondo è anche l’avventura del cinema che orbita intorno al mondo e intorno a se stesso.

E di più: l’avventura di Claire è movimento, passaggio, spostamento da una caverna all’altra e coincide idealmente e stilisticamente con la struttura del film che è diviso in due parti: Claire fugge dalla prima caverna che è il mondo, gigantesca metropoli post-moderna e scopre alla fine del mondo la seconda caverna che è una caverna ipertecnologica che ospita il laboratorio elettronico di Farber, il padre di Trevor. Farber è uno scienziato che sperimenta, nel suo laboratorio, la possibilità di trasmettere immagini ai ciechi grazie ad una misteriosa macchina che, collegata al cervello umano, vi deposita segnali luminosi. La macchina, fonte di immagini, resuscita gli occhi accecati dalla troppa assuefazione alle immagini e alle ombre destabilizzanti degli scenari urbani. Ombre, immagini come potenti metafore dove nasce la luce, dove nascono gli occhi, rigenerati a nuova vita, occhi che da soli fondano e permettono il cinema.

La madre di Trevor, riacquistando la vista, perde la vita. Claire abbandona la terra ma continua a gravitarle intorno, danzando in orbita, sospesa nel vuoto cosmico, ormai lontana dalla terra. Senza mondo e senza terra, i personaggi wendersiani si aggirano come tanti prigionieri di una grottesca caverna platonica (naturale ed artificiale insieme) alle cui soglie una grande luce acceca lo sguardo.

Film ambiguo e neo-platonico, esempio di un cinema-mondo, "Fino alla fine del mondo" connette visivamente città e deserti, macchine sofisticatissime e graffiti preistorici aborigeni, pareti esterne ed interne del mondo, immagini di un mondo senza più l’uomo.

 

 

"Giro giro tondo, casca il mondo...... "

Da E.T a A.I. cinema, identità, e rappresentazione del mondo.

Daniela Turco

Quando mi è stato chiesto di presentare A.I. di Steven Spielberg, nell'ambito degli incontri di cinema e filosofia che si tengono annualmente presso la biblioteca comunale di Monteporzio, ho sentito immediatamente l'impulso di proporlo mettendolo in relazione con un film precedente dello stesso regista, E.T. l'extraterrestre, implicando quindi i due film in una sorta di doppia lettura.

Questo desiderio di far luce sui legami e le differenze tra due film realizzati a distanza di quasi vent'anni, A.I. versus E.T. o viceversa, non nasceva solo in ragione di una certa idea di mondo, e di comunicazione che in essi si va costruendo, ma proveniva anche da una certa idea di cinema, e di identità, che entrambi i film, mettono in moto e che, diversamente, ci trasmettono.

In realtà, la gestazione di A.I., presentato ufficialmente alla Biennale cinema di Venezia nel settembre 2001, iniziò con largo anticipo, circa vent'anni prima, quando per la prima volta Kubrick ne parlò a Spielberg, all'inizio degli anni '80, e dunque nello stesso periodo in cui, presumibilmente, questi stava lavorando a E.T..

Spielberg parlando di A.I. accenna infatti a: "un racconto, una storia bellissima, di cui Stanley mi fece dono, e che da quel momento mi fu impossibile dimenticare."

Nel 1969 Brian Aldiss, scrittore di fantascienza, aveva pubblicato su Harper's Bazaar il racconto "Super Toys Last All Summer Long", il cui protagonista era, appunto, un robot bambino che tentava di farsi amare da una madre umana. Kubrick, dieci anni dopo, ne acquistò i diritti, e ne cominciò a parlare con Spielberg, coinvolgendolo sempre più intensamente, finché un giorno gli chiese di essere lui stesso a girare il film, più vicino alla sua sensibilità, al suo mondo, mentre lui ne sarebbe stato il produttore. Ebbe allora inizio tra i due un dialogo fitto a distanza, fatto di fax e di molte, lunghe telefonate trans-oceaniche, mentre il progetto A.I. si andava delineando, un progetto che avrebbe previsto e comportato, nelle fantasie dei due registi, un cotè tecnologico e computerizzato estremamente avanzato. Con la prematura scomparsa di Kubrick, nel 1999, Spielberg si ritrovò da solo a fronteggiare A.I., e così coinvolto intimamente nel progetto fino al punto di scriverne la sceneggiatura.

Questa, in poche righe, è dunque la storia della genesi di un film difficile, per molti versi respingente, che vorrei tentare di "leggere" molto liberamente, non solo per ciò che di per sé "rappresenta", ma anche come possibile traccia di un certo percorso d'autore nell'ambito del cinema americano contemporaneo.

Tanto per iniziare con le affinità tra A.I. e E.T. , si potrebbe partire dai titoli, anzi dalle iniziali che, curiosamente, siglano entrambi, e dalle derive di assonanze che, entrambi innescano, là dove A.I. ( si potrebbe pronunciare ei ai, ponendo l'accento su I (I, io) mentre E.T., analogamente, potrebbe slittare in IT, che significa - per usare una terminologia lacaniana-, la cosa. Un soggetto dunque, un io e una "cosa", si verrebbero quindi a contrapporre, già nei titoli, in quella soglia di confine, cioè, che precede le immagini. Ma chi è E.T., "la cosa", l'extra-terrestre, il radicalmente "altro" dagli umani, che incontra una piccola comunità di bambini quando la sua astronave, per una serie di circostanze, lo deve abbandonare in una terra sconosciuta che si rivelerà essere uno dei sobborghi scintillanti di luce di Los Angeles? In una pagina densa e illuminante, così scriveva Julia Kristeva: "Oggi Narciso è un esule, privato del suo spazio psichico, un extraterrestre dal comportamento preistorico, per mancanza d'amore. Bambino torbido, scorticato, un po' repugnante, senza corpo e senza immagine precisi, perchè ha perduto il proprio sé, straniero in un universo di desiderio e di potere, egli non aspira che a reinventare l'amore. Gli E.T. sono sempre più numerosi. Siamo tutti E.T. "

Era il 1982, e Spielberg, ancora lontano dal misurarsi con la Storia che in altri film successivi avrebbe incrociato (Schindler's list, Amistad, fino a giungere a Salvate il soldato Ryan), rivendicava ancora un'innocenza di sguardo, consegnando al cinema, e alla sua Storia, forse il suo film più radicale e rivoluzionario. Ma il mondo di E.T., che incontra e si "specchia" in E.(llio)T., il bambino terrestre suo simile, suo fratello, finanche nel nome, che lo include dolcemente, è ancora un mondo condivisibile, e di fatto condiviso, un mondo rivoluzionario perché restituito e salvato dai ragazzini, che con la messa a punto di un dispositivo di comunicazione "tecnicamente dolce", contro il potere degli adulti e della NASA, restituiranno il piccolo extraterrestre alla sua gente, non senza aver affermato, nel volo miracoloso delle biciclette contro la luna, nel "fai da te" tenero e improvvisato di una comunicazione che implica il gioco e i sentimenti e coniuga lo sguardo con il cuore, la forza di un cinema che non è "per" l'infanzia, ma, che si fa, potentemente, esso stesso infanzia. Non siamo molto lontani dalle parole profetiche, e poetiche, di Godard che chiama il cinema "Infanzia dell'arte".

A distanza di vent'anni molte cose sono cambiate. Leggere A.I. come specchio scuro di E.T. permette al cambiamento, e al taglio inaugurale che compie sul presente, di mostrarsi, proprio a partire dalle sorprendenti affinità che legano i due film.

Intanto il mondo di A.I. è già in partenza un mondo "altro", che disegna uno scenario congelato da post-catastrofe, semi-coperto dalle acque, dopo lo scioglimento delle calotte polari, e rigidamente diviso in umani e "mecha", robot tuttofare usati come elettrodomestici sofisticati. Ma si potrebbero immaginare dei robot capaci di amare? Li si potrebbe programmare per dare e ricevere amore? Il risultato di questa ricerca, che sta al cuore della Cybertronic Manifacturing, è David, un robot bambino, che, una volta, opportunamente, inizializzato sarebbe in grado di amare, come un figlio vero, i propri genitori umani. Parte così la lunga odissea di David, capitato nella casa di Harry e Monica, il cui unico figlio da anni giace in coma irreversibile, e in seguito abbandonato dalla madre, una volta che il figlio vero ritorna a vivere e che una coabitazione serena risulta di fatto impossibile.

Senz'altro un certo fantasma kubrickiano lavora potentemente il film dall'interno, a partire da un uso del colore molto lontano dalle trasparenze a dominante calda - si pensi al cuore rosso- luminoso del piccolo extraterrestre, ai tramonti, alle notti brillanti di stelle e di luci in cui si disegnava l'arcobaleno - che bagnavano le immagini di E.T., e che facevano rivivere, palpitante, e sostanzialmente intatta, la magia di Oz e la forza simbolica di un cinema classico. Qui la dominante è fredda, siderale, smorta. E' un mondo quello di A.I. che ha già irrimediabilmente perduto i suoi contorni di realtà, un mondo che, da subito si dà come immagine, e che viaggia, velocemente, riverberandosi, verso altre immagini: anche Minority Report, infatti, il film di Spielberg successivo a questo, mantiene soprattutto a livello del lavoro sul colore questo aspetto di trasparente freddezza, di malinconica dominante grigio-azzurra, dato dalla presenza dell'acqua che è l'elemento costante che fluidamente passa nei due film. Non è casuale, ad esempio, che il protagonista di Minority Report perda il figlio ai bordi di un'affollata piscina, nella breve durata di un'immersione sott'acqua, che come una sorta di resto, continua a ossessionare, e a ritornare nel l'immaginario spielberghiano. E d'altronde, è forse fin dai tempi dello Squalo che l'acqua svolge nel cinema di Spielberg un ruolo, appunto fluttuante, tanto di ambigua decifrazione quanto di cruciale importanza.

La domanda essenziale su cui ruota il film è quella proposta, all'inizio, da una delle assistenti dello scienziato che ha progettato David, il bambino immortale, la tenera macchina, soggetto, e, insieme, merce, e cioè: "il punto non è se la cosa, la macchina sarà in grado di amare, ma se gli uomini sapranno amarlo a loro volta?"

La prima parte del film, crudele come di fatto una fiaba può esserlo, mostra l'ingresso del robot David nella casa, nel suo nuovo mondo, e la dinamica del suo rapporto con la madre, segnata, dall'elemento dello sguardo posto in primo piano. E' proprio su questo crinale scosceso dello sguardo, e delle separazioni che innesca, che l'immaginario spielberghiano si lascia contaminare dal cinema kubrickiano, dando luogo ad una sorta di "doppio sogno", di film-ologramma, prismatico, in cui le tematiche care ai due registi si incontrano, e, sorprendentemente, si contaminano. Ora, Kubrick, in seguito ad una serie di circostanze, aveva deciso di dedicarsi a Eyes wide shut, che sarebbe stato il suo ultimo film, incentrato sulla crisi di una coppia scossa nel profondo dal fantasma della gelosia, e di posticipare quindi le riprese di A.I., in cui, non a caso, nelle mani di Spielberg che lo raccoglie come un testimone, il fantasma della gelosia, o meglio dell'invidia, assume una lancinante centralità. Scrive Lacan: " Invidia viene da videre. Per noi analisti l'invidia più esemplare è quella che da tempo ho notato in Agostino per attribuirle tutta la sua portata, e cioè quella del bambino che guarda il fratello attaccato al seno della madre, guardandolo amaro conspectu, con uno sguardo amaro, che lo scompone e che ha su di lui l'effetto di un veleno." E ancora, in un altro punto: " Fin di primo acchito, noi vediamo, nella dialettica tra occhio e sguardo, che non c'è affatto coincidenza, ma fondamentalmente inganno. Quando, nell'amore, domando uno sguardo, quel che c'è di radicalmente insoddisfacente e di sempre mancato è che - Tu non mi guardi mai là da dove ti vedo. Inversamente, ciò che guardo non è mai ciò che voglio vedere."

Tutto A.I. si innesta, allora, lungo questo asse portante di un desiderio impossibile da realizzare, su questa mancanza che lo fonda e che lo percorre da cima a fondo, e muove David, con la sua sconfinata richiesta d'amore, a cercare ogni strada, come già Pinocchio, per diventare un bambino vero. Desiderio quindi di diventare umano, di chiedere la grazia di incarnarsi quindi "se quella di assumere la carne è una condizione per essere amati". Ma questo desiderio di umanità che sostiene e conduce David, è già un desiderio di un "essere per la morte", è già un'incarnazione di quella pulsione per thanatos, che nel pensiero freudiano, non a caso, è data come la più pulsionale di tutte. In un certo senso, allora, in A.I. è al lavoro dietro le immagini, più riconoscibilmente spielberghiane - penso alle sequenze dell'imprinting che lega David alla madre, vera e propria fase dello specchio che si fa immagine, in cui si ripresentano i sentieri già battuti in Lo Squalo, e E.T., o alla lancinante sequenza della piscina, che sancirà l'esclusione di David dall'ambito familiare e l'inizio della sua odissea nello spazio e nel tempo- il senso di un'altra mancanza, ben più radicale, quella di un altro regista amico, Kubrick, che, a tutti gli effetti, è venuto a mancare, e al cui fantasma, anche del suo cinema, quelle immagini sono dedicate, per rendergli una sorta di malinconica testimonianza. E mostrandosi, raccontano forse anche di quella incapacità radicale che attraversa l'Occidente e che ha a che fare con l'elaborazione del lutto, e con la capacità, o l'impossibilità, di accettare la morte. La fine di David, che nel suo ultimo desiderio ottiene finalmente di farsi umano, e di addormentarsi per sempre, vicino alla madre, a lei ricongiunto nell'eternità di un ultimo istante infinito, è una fine paradossalmente lieta, un happy end triste per eyes wide shut, che riscatta insieme a quella del bambino, di questo piccolo principe senza favola, l'esistenza di "altre" intelligenze artificiali, come lui infelici, irrimediabilmente perdute. Penso per esempio alla fine di Hal 9000, il computer geloso e "troppo umano" di 2001 Odissea nello spazio, che, mentre viene "terminato" da un altro David, con la voce che sempre più si va rallentando, dichiara di avere paura, e poi ancora, come un bambino che canta per darsi coraggio, prima di svanire del tutto, ripete inceppandosi i versi di una filastrocca infantile; "Giro, girotondo, casca il mondo"....

Ecco dunque, lì dispiegato, meraviglioso e terribile, quel "sex appeal dell'inorganico" di cui scriveva Benjamin, poi ripreso da Perniola in un testo che portava appunto quel titolo, e che, in una delle sue pagine, poneva una questione centrale, ai fini del discorso che si sta qui sviluppando: " Ma chi ha il coraggio o la disperazione di dire che l'uomo è una quasi cosa e la cosa un quasi uomo?".

Il senso più profondo di A.I. , e la sua difficile risoluzione, sta proprio in questa domanda; perchè il mondo di questo film spielberg-kubrickiano è un mondo che, insieme con i colori, sembra aver già perduto da tempo immemorabile la propria umanità, un mondo in cui gli uomini, e le donne, in cerca d'amore non sono capaci, come unica risposta, che produrre merce. Ed è per questo che il piccolo David, la morbida macchina, il bambino immortale che vuole diventare "vero", quando scopre la sua immagine reificata in una serie di copie identiche a lui, merci confezionate e cellophanate, pronte per essere vendute e consumate all'infinito, sceglie di terminarsi, con lo stesso gesto disperato e definitivo che in un tempo lontano fu del piccolo Edmund rosselliniano, gettandosi dal grattacielo nelle acque gelide che coprono quella che una volta era stata Manhattan.

A.I. fu presentato nel settembre del 2001 alla mostra del cinema di Venezia. Meno di una settimana dopo sarebbero crollate le torri gemelle dell'World Trade Center e le loro immagini, reiterate all'infinito, sarebbero rimbalzate sugli schermi televisivi di tutto il mondo; forse questo strano film, melò in stato di avanzata metastasi, tenero, crudele, opaco e ambiguamente non identificabile, perché troppo vicino, troppo rispecchiante e quindi pericoloso, fa intravedere, di sfuggita, qualcosa di quel punto cieco che sta risucchiando l'Occidente verso confini preoccupanti che ci riguardano, e ci ostiniamo a rimuovere, i cui effetti deflagranti sono già storia di oggi e non di domani.

Concludo qui, quello che più che un intervento è un insieme di appunti e di possibili spunti a partire da A.I.

Essendosi trattato, nel suo farsi reale, di un discorso intrecciato e condiviso con una serie di persone che hanno partecipato all' incontro che seguiva il film, e che lo hanno movimentato con i loro interventi, resta, forzatamente, e giustamente, parziale.

 

 

Isole (II)

La ripresa

(considerazioni sul film L’invenzione di Morel di Emidio Greco tratto dall’omonimo racconto di A.B.Casares)

Vincenzo Cuomo

 

La caratteristica del film di Emidio Greco sembra perfettamente corrispondere a quella del racconto-romanzo di Adolfo Bioy Casares. Come quest’ultimo è un’argomentazione filosofica che si mostra come racconto, così il film di Greco è un film filosofico. Nello stesso tempo, tuttavia, è un film sul cinema, un saggio di metacinema.

L’idea che congiunge per così dire il suo contenuto al suo meta-contenuto è quella della ripresa, nel senso proprio dell’atto tecnico della registrazione delle immagini. In tale atto tecnico, l’arte cinematografica è inscindibilmente legata alla tecnologia; in esso l’arte non è separabile dalla tecnica.

La ripresa di cui parla il film (e il libro) è il nome di un esperimento tecnico-scientifico che non a caso si compie su di un’isola, su di un’isola irrintracciabile perché assolutamente fuori da ogni rotta, u-topia in senso proprio. Solo su di un’isola radicalmente separata dalle terre conosciute e, quindi, perfettamente separata dalla storia e dalla tradizione, è possibile pensare, come ha messo in evidenza Massimo Cacciari(2), la perfetta realizzazione del progetto tecnico di totale rischiaramento-dominio della natura. L’isola implica l’u-topico distacco dalla dimora naturale.

Dall’Utopia di Thomas More alla Nuova Atlantide di Francis Bacon, l’isola è il non-luogo in cui si rende visibile il senso ultimo del progetto tecno-scientifico di dominio della natura.

I riferimenti alla Nuova Atlantide sono abbastanza evidenti, tanto nel film che nel racconto. Bacone, come è noto, descrive, ad un certo punto, le caratteristiche e le finalità della Casa di Salomone, suprema istituzione scientifica dell’isola. In tale istituto di ricerca vi sono gabinetti ottici, che moltiplicano la potenza della luce portandola a grande distanza e che producono "arcobaleni artificiali, circoli luminosi e ogni specie di riflessi", case dei suoni, capaci di riprodurre "echi strani e artificiali che ripetono le voci varie volte come ripercuotendosi", case dei profumi in cui è possibile riprodurre i profumi e, infine, case per gli inganni dei sensi ove si compiono "ogni specie di giochi di prestigio, di false apparizioni, di illusioni, di imposture con relativi inganni"(3).

L’invenzione di Morel è tuttavia segno di una trasformazione/radicalizzazione del processo di cattura-presa tecnica dell’esistente. È segno, cioè, del passaggio dal progetto moderno di scienza a quello ultra (post) moderno. La strategia moderna si fondava su di una netta distinzione, nell’ente, tra le qualità primarie misurabili e quelle secondarie, soggettive e non-misurabili, quindi tra immagine sensibile e forma logico-calcolante. Si pensi all’interpretazione adorniana dell’episodio di Ulisse e le Sirene nell’Odissea omerica(4). Ulisse "frega" la natura (le Sirene) separando l’immagine mimetizzante, fascinosa e pericolosa per l’identità del sé, dalla sua forma logica e calcolabile (cui si sottomette legandosi ad essa). Ulisse, definendo i fondamenti della strategia tecno-scientifica moderna, comprende che è possibile dominare la natura solo sottomettendosi alla forma del suo accadere, ossia alle sue leggi. E qui enunciamo un paradosso epistemologico costitutivo della scienza occidentale, le cui leggi sono da un lato il prodotto della ratio calcolante, dall’altro sono la manifestazione di un ordine che fonda la stessa ragione tecno-scientifica. È un concetto che troviamo espresso nella famosa massima baconiana, secondo cui natura non nisi parendo vincitur.

La strategia di Morel è un’altra. Ciò che è dietro il suo progetto tecnico è il dominio della natura attraverso la "cattura" della sua stessa immagine sensibile (quell’immagine che per secoli era restata appannaggio dei poeti e di qualche filosofo inattuale). La presa tecnica sulla natura è resa possibile dalla sua integrale ri-presa. Questa è l’utopia tecno-scientifica di Morel. Egli vuole produrre integralmente la vita ri-copiandola, rispecchiandone/catturandone l’evento stesso. Che sia tale il senso della ri-presa di Morel lo si evince anche dal fatto che il suo scopo dichiarato consista nel far rivivere eternamente la settimana trascorsa da lui e dai suoi amici sull’isola, nel far rivivere quella settimana esattamente come si è svolta, nel far rivivere tutti gli attimi vissuti dai suoi amici, e in particolare da Faustine, per l’eternità.

Tuttavia, c’è una evidente aporia nella sua utopia tecnica; anzi una doppia aporia.

Innanzitutto, e questo Morel lo sa bene, è possibile la "cattura" solo del già-stato, è possibile la presa tecnica solo del già-accaduto: il passato; la presa tecnica può essere solo una ri-presa e, quindi, una cattura cui sfugge la contingente novità dell’essente, il suo contingente evento. Del resto – è questa la sua caratteristica ontologica – il contingente non è solo ciò che potrebbe non-essere (che avrebbe potuto non-essere), ma è, anche ed essenzialmente, ciò che ha la potenza d’essere. Solo ciò che può non-essere ha la potenza d’essere. Per tale motivo, alla ri-presa tentata da Morel sfugge essenzialmente la contingenza dell’essente e, quindi, la sua stessa contingenza, la contingenza che la caratterizza in quanto decisione che avrebbe potuto non essere, pur avendone la potenza(5).

Abbiamo parlato di una doppia aporia; di un’aporia in sé doppia. Perché, in contrasto col suo stesso scopo, anche il dominio-cattura del già-stato non può essere "perfetto". Infatti, l’immodificabilità del passato (il suo essere perfectum) contrasta con l’utopia della sua ri-produzione: ciò-che-è-stato non può essere prodotto di nuovo, perché non può essere prodotta la sua contingenza, il suo e-venire.

La vita vissuta dagli ospiti dell’isola, la vita vissuta da Faustine, non può, quindi, rivivere. La macchina, Morel ne è consapevole, può solo rispecchiare, per così, dire le apparenze della vita.

Nel progetto di Morel c’è, infine, un paradosso. La macchina di cui egli si serve per realizzarlo ha bisogno della natura, ha bisogno dell’energia delle maree. Alla natura non è possibile sfuggire. Anzi, credendo di poterla dominare, la tecnica sembra destinata ad una sorta di naturalizzazione, di ritorno alla natura, ad una natura che si muove da sé, automate physis, e che sottomette a sé la tecnica.

Il terrore che s’impossessa del protagonista del film (e del racconto) non è dovuto alla potenza della macchina, ma alla strapotenza del connubio natura/tecnica, connubio che sembra escludere definitivamente l’umano. Ciò che lo terrorizza è la possibile marginalizzazione/esclusione tecno-naturale del fenomeno umano. Che è quanto i filosofi francofortesi della prima ora interpretavano come capovolgimento della tecnica in mito(6), vale a dire in cieca natura auto-moventesi.

Grazie alla tecnica è la natura che potrà fare a meno di noi; grazie alla tecnica la natura potrà fare a meno del mondo.

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Il film di Emidio Greco è anche un film di un amore impossibile. Nel racconto di Casares questo aspetto è ancora più evidente.

La disperazione del protagonista riposa sul fatto che gli è impossibile comunicare con Faustine. Ella non è mai il suo altro. Eppure, fino al momento in cui scopre la verità dell’invenzione di Morel, il protagonista tenta di interpretare l’atteggiamento della donna, come se ella fosse l’altro. Ma ciò non gli basta. Non gli può bastare la contemplazione della visione di Faustine. Ha bisogno che ella gli corrisponda, magari anche attraverso un rifiuto.

Tutta la vicenda mostra come il desiderio del soggetto sia sempre, lacanianamente, il desiderio dell’altro.

Ciò ci porta a considerare la possibilità che il racconto di Casares e il film di Greco nascondano un significato esoterico.

Non ho la competenza necessaria per mostrarlo, né mi interessa molto. Tuttavia, la situazione vissuta dal protagonista potrebbe essere la descrizione di uno "stato infernale", caratterizzato dalla pura contemplazione in assenza di desiderio. È l’esatto capovolgimento della dantesca rosa dei beati, dello stato paradisiaco definito dall’esatta corrispondenza tra desiderio del soggetto e desiderio dell’Altro.

Potremmo concludere dicendo che, per Casares-Greco, l’inferno non sono gli altri (Sartre) ma l’assenza dell’altro.

Ecco spiegato il tentativo estremo e impossibile del protagonista: entrare nella sfera della coscienza di Faustine. Ma questa è la conclusione del racconto, non del film in cui il protagonista tenta di distruggere le macchine.

Le ultime righe del racconto: "All’uomo che, prendendo spunto da questa relazione, inventerà una macchina capace di riunire le presenze disgregate, rivolgo una supplica. Cerchi Faustine e me, e mi faccia entrare nel cielo della coscienza di Faustine. Sarà un atto pietoso"(7).

 

 

Sentieri (in)interrotti: Mulholland Drive

Daniele Dottorini

Mulholland Drive si colloca, a conclusione di una ideale trilogia della strada (insieme a Lost Highway e The Straight Story), vale a dire della strada intesa come connessione, come forma ulteriore di una poetica dello spazio che, da sempre, accompagna – come interrogazione e sperimentazione – la possibilità stessa del cinema secondo Lynch. Nato come progetto televisivo (rifiutato poi dalla rete ABC perché giudicato incomprensibile) si trasforma poi in film per il grande schermo. Film particolare, perché della struttura del pilota televisivo conserva uno degli elementi narrativi tipici del genere, vale a dire la presentazione in successione dei personaggi e delle storie, molti dei quali destinati forse ad uno sviluppo ulteriore in una serie che non vedrà mai la luce, ma che finiscono per essere solo delle apparizioni, fantasmi di storie annunciate, dislocate in un ipotetico futuro.

Già nella sua struttura dunque, Mulholland Drive si presenta come film di transito, interrotto sentiero narrativo che allude all’infinito ad un film futuro, da farsi. Il suo essere strada, percorso, sentiero è annunciato peraltro sin dal titolo, che prende il nome da una delle strade più famose di Hollywood, arteria di Los Angeles vicina al Sunset Boulevard.

Dopo la strada come detour infinito in Lost Highway, la strada come interrogazione dello sguardo in The Straight Story, la terza possibilità dell’errare filmico si concretizza in Mulholland Drive sotto la forma dello spazio dell’immaginazione come macchina creatrice di immagini. La poetica dello spazio di Lynch si sofferma ora sul set cinematografico, sulla molteplicità delle finzioni che il cinema (Hollywoodiano) crea e alimenta come macchina industriale.

Anche qui, l’apertura del film (le prime sequenze dei titoli di testa, ma anche l’apertura come ingresso, fenditura che connette più spazi) ci servono come punti di partenza del discorso. Anzitutto un fatto: la sequenza dei titoli di testa è in realtà composta da più blocchi. Un primo blocco in cui su uno sfondo viola e con una musica ritmata di sottofondo compaiono, in una serie di sovrimpressioni sovrapposte diverse coppie di ballerini con vestiti degli anni cinquanta. Le loro silhouette si stagliano come galleggiando sul nulla dell’astratto sfondo violaceo (su cui tra l’altro si disegnano le ombre nere di altri ballerini). In mezzo all’inquadratura comincia ad apparire (sempre in sovrimpressione) come un’ombra bianca tremolante non a fuoco; poi la figura di una giovane donna bionda e sorridente, evanescente, quasi senza consistenza materiale (Naomi Watts). Stacco, la musica cambia e la ripresa si fa incomprensibile, perlomeno all’inizio. Poi l’inquadratura ritorna a fuoco e scopriamo che la macchina da presa sta riprendendo un letto vuoto, le lenzuola, la coperta, il cuscino rosso. La macchina da presa si avvicina di più, il cuscino rosso copre lo schermo che dissolve a nero. I titoli di testa continuano a scorrere, un’auto scura procede lentamente di notte lungo una strada piena di curve; le inquadrature si susseguono in lente dissolvenze incrociate che sempre mostrano la macchina mentre cammina, ma con continui cambi di prospettiva, quasi frammentando il percorso già non diritto della vettura. La sequenza continua anche dopo la comparsa dell’ultimo titolo di testa ("Written and Directed by David Lynch"). A bordo dell’auto, sul sedile posteriore c’è una giovane donna bruna, sui sedili anteriori due uomini che non vediamo se non di spalle. L’auto si ferma, la donna chiede il perché di quella sosta inattesa. L’uomo seduto al posto del passeggero si volta: vediamo la canna di una pistola. La donna è terrorizzata. In quel momento un’altra auto a folle velocità, impegnata in una gara di corsa e proveniente dalla parte opposta, appare all’improvviso. I sui fari illuminano la scena, lo schianto è secco, terribile. Dai rottami delle due auto aggrovigliate esce, barcollando e in evidente stato di shock, la giovane donna, che lentamente si avvia verso la città di Los Angeles le cui luci brillano in lontananza.

I tre blocchi che costituiscono l’inizio di Mulholland Drive si manifestano immediatamente per la loro estraneità l’uno all’altro: se l’ultimo è caratterizzato da una sequenzialità narrativa (immediatamente misteriosa ed inquietante), i primi due si oppongono sia al terzo, sia tra di loro: la sequenza dei ballerini sospesi in uno sfondo di colore(8), introduce immediatamente, con una sorta di impatto violento, una sospensione della materialità dei corpi e dello spazio: "Diverse dai corpi senza ombra e dalle ombre senza corpo, queste apparizioni lattiginose assumono appunto consistenza spettrale, come tracce di materia ectoplasmatica trasmesse da un altrove"(9). Annunciato senza mediazioni, il carattere spettrale, immateriale del cinema fa spettacolo di sé proprio attraverso una molteplicità di corpi che danzano, che sembrano cioè annunciare nello stesso tempo la loro consistenza materiale. Il blocco immediatamente successivo si sofferma invece, con la sua inquadratura ravvicinata, sulla materialità degli elementi di un letto disfatto: l’occhio della macchina da presa si trasforma in un occhio tattile, che accarezza i tessuti e i materiali che compongono le lenzuola, la coperta e il cuscino.

Mulholland Drive si annuncia dunque come film dalle molteplici dimensioni che mette in gioco gli elementi costitutivi del cinema: materialità, immaterialità, narrazione. È infatti un film sul cinema, un film che indaga il cinema in più direzioni: l’immagine-movimento come capacità di costituire (contemporaneamente) molteplici mondi che evocano allo stesso tempo il materiale e l’immateriale e il cinema come meccanismo economico, forma di potere capitalistico e straniante (una parte considerevole della narrazione ruota intorno al progetto di un film da fare). Le due dimensioni si intrecciano, si intersecano in profondità. La macchina-cinema hollywoodiana diviene il teatro, la tela dove il territorio del cinema lynchiano si dispiega come interrogazione profonda: nel film "...coesistono più strati di pensiero, e coesistono più mondi, come un territorio ondulato in continua oscillazione, dove un pensiero riordina con uno scarto paradossale lo sviluppo di un reale fantastico"(10).

Il dispiegamento di molteplici inizi rimanda dunque ad una interrogazione sulle stratificazioni profonde della materia: del pensiero, dell’immagine come materialità e della sostanza delle cose. Tutto sembra dispiegarsi nel film (e nel cinema di Lynch) come produttività infinita. La realtà stessa produce incessantemente se stessa, biforcandosi, dividendosi, creando spazi, sezioni, stanze e strade. Non si tratta più di un’ontologia del cinema, ma di una domanda ontologica che il cinema instancabilmente pone, proprio in virtù del suo movimento incessante: "Dividendosi di continuo, le parti della materia formano piccoli vortici in un vortice e, in questi ultimi, altri più piccoli, e altri ancora negli intervalli concavi dei vortici che si toccano. La materia presenta dunque una contestura infinitamente porosa, spugnosa od erosa senza presentare dei vuoti, ma sempre come una caverna nella caverna: ogni corpo, per quanto sia piccolo, contiene un mondo, poiché è percorso da passaggi irregolari, circondato e penetrato da un fluido sempre più sottile"(11).

La strada assume una dimensione materiale, dinamica produzione e biforcazione della materia, via di comunicazione e di collegamento dei molteplici elementi del reale, che non si configura come statico riflesso di una realtà ideale(12), ma come movimento incessante di essere: "In Lynch è come se le articolazioni macchiniche, gli ingranaggi e le sinapsi, gli snodi e le vie di comunicazione, le tubature di un sistema che fa corpo con le apparizioni e le storie, si manifestassero in quanto liberazioni di stati d’essere, di flussi energetici che si sprigionano in quanto inerenti al cinema come luce e suono, come pensiero che imprime movimento"(13). Spazi come elementi dinamici e non come contenitori di storie o di individui, territori mobili che riguardano propriamente gli stati e le dinamiche dell’essere: il cinema di Lynch si configura dunque qui nella sua complessità di potenza indagatrice del reale, mostrando come la sua interrogazione non sia un’esplicitazione di questa o di quella teoria filosofica, ma si ponga essa stessa come movimento di pensiero, movimento che induce il pensiero ad una sorta di "cinematizzazione", di spostamento e slittamento che, da sempre, caratterizzano l’essenza stessa della filosofia.

 

Note

1) Paolo Federico Colosso, Wim Wenders, Paesaggi luoghi città, Collegno (TO), Ed. testo &Immagine, 1998

2) Vedi Massimo Cacciari, L’arcipelago, Milano, Adelphi, 1997, pp. 71-91.

3) Francesco Bacone, La nuova Atlantide, in Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, UTET, 1975, pp. 861-862.

4) Vedi Theodor W.Adorno, Interpretazione dell’Odissea. Con un dialogo sul mito tra Adorno e Karl Kerenyi, tr. it a cura di Stefano Petrucciani, Roma, manifestolibri, 2000.

5) Mi richiamo su questo punto, molto liberamente, ad una delle tesi centrali sostenute da Massimo Cacciari nel suo noto Dell’inizio (Milano, Adelphi, 1990).

6) Vedi, ovviamente, Max Horkheimer – Theodor W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di L.Vinci, Torino, Einaudi, prima ed. Reprints, 1974; in particolare il primo capitolo.

7) Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel, tr. it. di Livio Bacchi Wilcock, con introduzione di Jorge Luis Borges, Milano, Bompiani, II ed. Tascabili, 1989, p. 146.

8) Lynch racconta di aver inserito la sequenza all’ultimo momento, ma: "...non solo è perfettamente integrata nell’insieme, ma si è rivelata essenziale", David Lynch. Désirer l’idée, entretien par M. Henry, in " Positif ", n. 490, 2001, p. 87.

9) A. Cappabianca, Tracce da un altrove, in "Filmcritica", n. 523, 2002, p. 125.

10) E. Bruno, Un intrico diegetico, in "Filmcritica" n. 523, 2002, p. 123.

11) G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 1990, p. 8.

12) È vero che Lynch fa continuamente riferimento nelle interviste ad una sorta di schema platonico della creazione artistica, dall’idea fuori di sé alla sua concretizzazione nell’opera attraverso di sé, ma questo schema è poi perfettamente rovesciabile nel suo opposto.

13) B. Roberti, Nella dualità della luce, in "Filmcritica", n. 523, 2002, p. 126.