Giorgio Agamben, Quel che resta
di Auschwitz. L’archivio e il testimone. (Homo sacer III),
Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (Temi, 80), ristampa 2002, 165 p.,
ISBN 88-339-1105-5, € 12,00
Il campo di concentramento è
la situazione assoluta in cui si rivela il soggetto della desoggettivizzazione,
l’umano della disumanizzazione, colui che parla per chi non può
parlare (la voce del ‘salvato’ scissa e insieme indissolubilmente unita
al ‘sommerso’ nel nome del quale prende la parola), dimostrando così
l’impossibilità e il non-luogo della testimonianza, quel poter
parlare unicamente in nome del non poter dire. Nel campo si sperimenta
la trasformazione di un’umanità non umana, puramente organica
e vegetale, al di là della vita e della morte, in uomini-mummia
inebetiti e senza volontà, permettendo la paradossale conversione
dell’ebreo in ‘musulmano’, come si chiamavano allora le larve umane
ormai degradate a detriti, spogliate di ogni dignità e ridotti
a vita nuda pronta per le camere a gas. Qui si profila allora la doppia
sopravvivenza del non-uomo all’uomo (nel ‘musulmano’) e dell’uomo al
non-uomo (nel testimone che testimonia dell’inumano). Si tratta, nel
campo, di una vita che trasforma il significato stesso della morte,
che quindi non può più nemmeno essere detta tale, visto
che è anzi precluso l’essere stesso della morte, l’essere-per-la-morte:
ad Auschwitz non si muore, si producono cadaveri senza morte, "non-uomini
il cui decesso è svilito a produzione in serie" (66). Quasi
a nuova definizione del soggetto, particolare rilievo è dato
all’imbarazzo del superstite nell’impossibilità di venire a capo
della vergogna e del senso di colpa per non aver saputo impedire l’irreparabile,
per aver soppiantato gli altri nella sua vita di sopravvissuto. Decisivo
risulta anche il paradossale statuto della testimonianza, "potenza
che si dà realtà attraverso una impotenza di dire e una
impossibilità che si dà esistenza attraverso una possibilità
di parlare" (136). Nel gioco modale di possibilità, contingenza,
impossibilità e necessità Agamben individua la gigantomachia
biopolitica per l’essere in cui si decide volta a volta dell’umano e
dell’inumano, ma anche del mondo come mio o no. "Possibilità
(poter essere) e contingenza (poter non essere) sono gli operatori della
soggettivazione, del punto in cui un possibile viene all’esistenza,
si dà attraverso la relazione a una impossibilità. L’impossibilità,
come negazione della possibilità [non (poter essere)], e la necessità,
come negazione della contingenza [non (poter non essere)], sono gli
operatori della desoggettivazione, della distruzione e della destituzione
del soggetto – cioè dei processi che dividono in lui potenza
e impotenza, possibile e impossibile. Le prime due costituiscono l’essere
nella sua soggettività, cioè in ultima analisi, come un
mondo che è sempre il mio mondo, perché in esso
la possibilità esiste, tocca (contigit) il reale. Necessità
e impossibilità definiscono, invece, l’essere nella sua integrità
e compattezza, pura sostanzialità senza soggetto – cioè,
al limite, un mondo che non è mai il mio mondo, poiché
in esso la possibilità non esiste. […] Auschwitz rappresenta,
in questa prospettiva, un punto di tracollo storico di questi processi,
l’esperienza devastante in cui l’impossibile viene fatto transitare
a forza nel reale. Esso è l’esistenza dell’impossibile, la negazione
più radicale della contingenza – quindi la necessità più
assoluta" (137-138). Il soggetto, il mondo che Auschwitz produce
sono in realtà la loro catastrofe, la loro cancellazione, la
loro disarticolazione come luoghi della contingenza e al tempo stesso
il loro mantenimento come impossibilità realmente esistenti,
sopravvivenze, resti.
Indice:
Avvertenza
Il testimone
Il "musulmano"
La vergogna o del soggetto
L’archivio e la testimonianza
Bibliografia
(Gabriella Baptist)