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Introduzione
(a L'oltreuomo genetico)

 

Il brano dell’intervista a Peter Sloterdijk(1), di cui qui offriamo una traduzione, nonostante la sua apparente vaghezza e leggerezza – derivante in buona parte, per la verità, dal tipo di domande, piene di "buon senso", rivoltegli dagli intervistatori – pone alcuni problemi che centrano uno dei nuclei teorici della questione del mondo: la possibilità tecnica di produzione della natura in quanto tale, nei suoi aspetti inorganici e organici e, all’interno di questi ultimi, nei suoi aspetti vegetativi e animali. Nei moderni laboratori scientifici, afferma Sloterdijk, viene portato a compimento la filosofia della natura dell’idealismo tedesco (secondo le teorizzazioni del primo Schelling).

Accanto a questa tesi, ovviamente da discutere e articolare, Sloterdijk pone alcune riflessioni sulla relazione uomo-animale, a partire da due eventi bio-politici. Il primo è stato l’uccisione di milioni di capi di animali a causa del diffondersi, in Europa, durante il 2001, della BSE. L’altro è stato il più o meno coevo inizio delle manipolazioni genetiche fino al primo clamoroso esperimento di clonazione della pecora Dolly. Anche se in modo un po’ ellittico, Sloterdijk legge questi due eventi come tappe nella realizzazione di una nuova futura antropotecnica che giunga esplicitamente a pianificare l’evoluzione della specie umana. Conviene chiarire questo punto. Secondo il filosofo tedesco l’uomo, così come lo conosciamo nella sua storica humanitas, è il prodotto di antropo-tecniche di addomesticamento, addestramento-educazione altamente selettive, all’interno delle quali quel che egli chiama l’addestramento scolare (leggere, stare seduti, tranquillizzarsi) è stato uno degli strumenti privilegiati (anche se non l’unico). Oggi tale antropotecnica "umanistica" sembra ormai in crisi e un nuovo progetto di allevamento-addomesticamento di tipo genetico si sta manifestando – anche per porre un argine, secondo Sloterdijk, al conflitto in atto nella nostra cultura tra media inibenti (quelli umanistici legati alla alfabetizzazione di massa) e media disinibenti, all’interno dei quali egli pone la televisione e il "cinema violento" (sic) (detto per inciso, interessante sarebbe, su tale piano, un confronto con le tesi simili, anche se maggiormente articolate, di McLuhan). È possibile, quindi, che "una futura antropotecnologia giungerà fino a un’esplicita pianificazione delle caratteristiche [genetiche] e l’umanità dal punto di vista della specie potrà compiere il sovvertimento dal fatalismo della nascita in una nascita opzionale e in una selezione prenatale"(2). Prospettiva inquietante ma che il pensiero critico ha, a suo avviso, il compito di comprendere senza illusioni, ma anche – se interpretiamo bene questo punto cruciale e manifestatamene aporetico del suo discorso – senza recidere del tutto i ponti con la prospettiva dell’umanesimo letterario, intesa "come un’utopia della formazione umana attraverso la scrittura e attraverso la lettura che rende tolleranti e che educa a trattenere il giudizio e ad aprire le orecchie"(3). La prospettiva umanistica poggiava, e poggia ancora, nonostante la sua crisi, su un’antropo-tecnica imperniata sulla stanzialità (la casa) e sull’educazione attraverso le lettere, ma non solo. Infatti il complesso bio-politico che ha prodotto l’umanità, così come noi l’abbiamo conosciuta e in parte ancora la riconosciamo, è stato composto da casa, uomo e animale domestico. Qui il discorso di Sloterdijk apre una prospettiva di estremo interesse, facendo balenare un vero e proprio impensato. "Con l’addomesticamento dell’uomo ad opera della casa – egli scrive – inizia subito l’epopea degli animali domestici. Il loro legame con le case degli uomini non è soltanto una questione di addomesticamenti, ma anche di addestramenti e allevamenti. La storia dell’uomo e degli animali domestici, la storia di questa mostruosa coabitazione non è stata ancora rappresentata in modo appropriato […]. Solo in pochi luoghi viene strappato il velo del silenzio filosofico su casa, uomo e animale come complesso biopolitico"(4). Uno di questi luoghi è il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, in alcune pagine del quale è rintracciabile il legame tra il "piccolo uomo" e l’animale domestico per eccellenza, il cane (ma il discorso di Sloterdijk è ovviamente più generale). L’animale domestico è lo specchio dell’addestramento/educazione (dimidiamento?) dell’uomo. Il lupo diventò cane, e l’uomo un "piccolo uomo":

"E Zarathustra si fermò, meditabondo. Infine disse, turbato: "Tutto è diventato più piccolo!

Io vedo dovunque porte basse: chi è della mia specie può certo attraversarle, ma – non può chinarsi! […]

Rotondi, probi e bonari essi sono l’un con l’altro; proprio come i granelli di rena sono rotondi, probi e bonari con gli altri granelli di rena.

Abbracciare modestamente una piccola felicità – questo lo chiamano "rassegnazione" […]

In fondo alla loro semplicità essi non vogliono, prima di tutto, se non una cosa: che nessuno gli faccia male […]

Virtù è per loro ciò che rende modesti e mansueti: a questo modo trasformarono il lupo in cane, e l’uomo stesso nel migliore animale domestico dell’uomo" (5)

 

Sloterdijk cita questo passo nicciano e sottolinea in corsivo il "chi è della mia specie". Zarathustra gli appare come un nuovo allevatore, come un allevatore di una nuova, superiore, specie. Si tratta, tuttavia, sempre e comunque di antropo-tecniche. All’antropo-tecnica umanistica subentra (potrebbe subentrare) un’antropo-tecnica (eu?)genetica. In ogni caso, anche in questo caso, l’uomo fa i conti con l’animale, con la propria animalità. In quest’ultimo caso con un’animalità mostruosa, come Sloterdijk afferma nell’intervista. E "il mostro è uno specchio della nostra forma" (infra). Tuttavia, ci sembra che il suo discorso entri a questo punto come in un vicolo cieco. Come valutare le diverse antropotecniche? In che cosa quella umanistica tradizionale, fondata sul complesso biopolitico di casa, alfabetizzazione e addomesticamento (dell’)animale, è (sarebbe) preferibile a quella eu-genetica? Non potrebbe, quest’ultima, produrre ancora meglio quel carattere umano tollerante che Sloterdijk ritiene il miglior risultato della prima?

Forse bisognerebbe tentare di pensare l’animal-umanità dell’uomo uscendo fuori della "macchina antropologica" e antropotecnica che fino ad ora lo ha prodotto, ma senza entrare in un’altra. Forse ciò sarà possibile ripensando il rapporto tra uomo, animale (e macchina) secondo una logica né oppositiva (secondo cui l’animale è l’altro dall’umano) né semplicemente "rispecchiante" (in base a cui, ed è forse il rischio che corre Sloterdijk, l’animale sarebbe semplicemente lo specchio dell’addestramento-allevamento-selezione dell’uomo su se stesso) ma fondata su differenze di grado, qualitative, intensive. Sarà ciò possibile? (6) .

 

Note

1 L’intervista, condotta da Heik Afheld e Bernd Ulrich è apparsa in Der Tagespiel on line l’8 marzo 2001

2 Peter Sloterdijk, Regole per il parco umano. Una replica alla lettera di Heidegger sull’umanismo, in aut aut, n° 301-302, 2001, p. 132.

3 Ibidem, p. 137.

4 Ibidem, p. 127.

5 Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, tr. it. di M-Montinari, Così parlò Zarathustra, in Opere, a cura di G.Colli e M.Montinari, Milano, Adelphi, 1964 sgg, vol. VI, t. I, pp. 203-206.

6 Ci sembra che su tale sentiero siano incamminati, nonostante le differenze, sia Jacques Derrida che Giorgio Agamben. Del primo vedasi il saggio E se l’animale rispondesse (finte e tracce) (in aut aut, n° 310-311, 2002, pp. 4-26); del secondo L’aperto. L’uomo e l’animale (Torino, Bollati Boringhieri, 2001).