Alla ricerca di una sfera pubblica globale
di Paolo Vernaglione
Se qualcosa accomuna la modernità
all’epoca attuale è la cancellazione dei confini tra
sfera pubblica e sfera privata, descritta da Hannah Arendt alla fine
degli anni ‘50. Questo fatto è ricavabile sia dalla teoria
della sfera pubblica antica, elaborata in Vita activa
,
sia dalla successiva elaborazione del concetto in Jurgen Habermas
e nel dibattito sulla sua ridefinizione nella teoria
femminista
e nel nuovo costituzionalismo, specie nel recente dibattito sulla
costituzionalizzazione dell’Europa .
Come si sa, la modernità ha elaborato una
teoria dei corpi politici funzionale alla democrazia rappresentativa
nelle condizioni dello stato di diritto. La visione organicista della
società, che la rappresenta come un corpo unico con un unico
interesse - la felicità e il benessere degli individui –
secondo gli utilitaristi, è responsabile dell’indistinzione
tra pubblico e privato, di cui la versione post-moderna delle società
complesse offre un orizzonte frastagliato . Hannah Arendt ha affermato che con la
nascita della società, tra la fine del XVII e il XVIII secolo,
si assiste all’omogeneizzarsi degli ambiti a cui i greci e i
romani avevano assegnato le attività pubbliche e quelle private.
L’incessante opera di “socializzazione
umana” che secondo Marx avrebbe portato all’estinzione
dello stato, ha approfondito, almeno fino al XX secolo, il declino
della sfera pubblica nazionale, mentre ha incrementato il ruolo burocratico-amministrativo
delllo stato.
Si può dunque dire che la
modernità ha visto dispiegarsi una sfera pubblica socializzata
come dominio dello stato. Questo carattere, era già evidenziato
da Max Weber nella progressiva specializzazione funzionale degli incarichi
politici e amministrativi .
Se «la libertà è
situata nel dominio del sociale» ,
non solo la modernità ha mutato il senso dei concetti di libertà
e necessità, che l’antichità aveva tracciato intorno
alla condizione lavorativa (liberi versus schiavi) e civile (pubblicità
v. privatezza) ma ha istituìto il diritto civile sulla base
del diritto proprietario come distorsione dei diritti fondamentali.
Dell’incorporazione della sfera
pubblica, al pari di quella privata, nella società Arendt chiarisce
il senso, nel mutamento sia della privacy che del concetto
di pubblico, in connessione con lo sviluppo dell’interiorità
quale difesa dalla socialità
e il passaggio del lavoro alla sfera pubblica con la divisione del
lavoro .
Alla definizione moderna di sfera pubblica concorrono
due idee:
1) pubblico è ciò che è sotto
gli occhi di tutti
2) pubblico è il mondo comune,
l’infra le cose e gli uomini .
Dalla prima emergeranno le richieste di diritti di
libertà e politici, la rappresentanza democratica, la sovranità
popolare.
Dalla seconda l’agire politico e le istituzioni
di base.
La sfera pubblica assume la legge, che dall’antico
significato di nomos come confine tra proprietà distinte,
ha ora il senso di tutela dei diritti e delle prerogative dello stato
tramite la coercizione. Nel passaggio fondamentale dalle antiche istituzioni
cetuali allo stato di diritto, prima con la costituzione degli stati-nazione,
quindi con le rivoluzioni americana e francese, le rivolte nazionalistiche
della metà del XIX secolo e, da ultimo, con la realizzazione
del welfare post-bellico, la sfera pubblica perde il carattere
di spazio di associazione di proprietari e assume sempre più
il carattere di gestione della cosa pubblica. La partecipazione diretta
di un’opinione pubblica alla costituzione di spazio pubblico,
che, come Arendt ricorda, aveva avuto inizio con la rivoluzione americana,
si dissolve progressivamente, per l’espansione dello stato nazionale
come apparato burocratico e routine amministrativa.
E’ nell’arena pubblica che si gioca la
partita tra tutela dei diritti e organizzazione della rappresentanza,
nella caratteristica configurazione dello stato democratico di diritto.
La deformazione dei principi di libertà
e uguaglianza, la confusione tra libertà e ricchezza sociale
e l’interpretazione della sovranità popolare come dominio
della maggioranza, finisce per aggravare lo stato di compiti etici,
sociali ed economici, dando luogo alla definitiva dissoluzione del
concetto di sfera pubblica come in-comune, che ha largamente
determinato la crisi dello stato nazionale.
Tuttavia l’esperienza della
democrazia, costruita con le rivoluzioni del XVIII secolo, si è
fondata sulla giuridificazione dei diritti, la cui tutela ha costituito
una rottura con l’ancien régime e ha promosso
lo stato di diritto. Ciò, come ha dimostrato Habermas, è
stato possibile per la cooriginarietà di dirtti e democrazia
che si dislocano in un bilanciamento di aspettavite corrispondente
alla divisione dei poteri .
Così il mutamento della sfera pubblica a partire dalla sua
politicizzazione ha effetti ambivalenti: da una parte si cristallizzano
istituzioni politiche, dall’altra si formalizzano richieste
di diritti nello stato costituzionale. Questo processo è stato
descritto da Habermas come costituzione di una sfera pubblica politica,
allorchè in Europa alla fine del XVIII secolo, le opinioni
pubbliche nazionali decidono di dotarsi di una rappresentanza in grado
di tutelare i privati interessi .
Un esempio fulgido di questa contesto
è dato dalla vicenda degli Stati Uniti. Infatti, a differenza
che in Francia, la scelta del governo, che proviene dalle forme di
“pouvoir constituant”, rimane in secondo piano, e balza
in primo piano la fondazione costituzionale della repubblica con la
partecipazione diretta e il municipalismo ,
che proviene dal patto originario dei coloni. Esso infatti prefigura
“sia il principio repubblicano secondo il quale il potere risiede
nel popolo…sia il principio federale…secondo il quale
corpi politici costituiti possono combinarsi…”
e grazie al quale 550 città si autogovernavano.
Il ruolo che ebbe la sfera pubblica
nel corso dell’indipendenza statunitense consisteva nel fatto
che essa era un traguardo della felicità pubblica e cui aspiravano
i coloni; felicità che consisteva nell’essere “partecipi
del governo degli affari…diritto diverso da quello dei sudditi
di esser protetti dal governo nella ricerca di una felicità
privata…diverso…da quei diritti che solo un potere tirannico
abolirebbe…” .
Intorno ad una sfera pubblica autonoma, “penetrata” dal
diritto, si mobilitano i proprietari americani come il popolo francese,
ma questa mobilitazione fu fonte in Francia di un’”immane
tragedia”
nella misura in cui la priorità consisteva nella liberazione
dalla monarchia piuttosto che nella creazione di una Costituzione.
Negli Stati Uniti “l’ansioso desiderio di Jefferson di
uno spazio di felicità pubblica…(è) venuto in
conflitto con il desiderio nudo e crudo di liberarsi di ogni fastidio
e dovere pubblico, di stabilire un meccanismo di amministrazione governativa”
;
cioè in definitiva rinunciare alla partecipazione, preferire
la prosperità e ricacciare la libertà nella vita privata
.
Dunque, come detto in Che cos’è
la politica?
la vera azione rivoluzionaria non consiste nell’abbattimento
dello stato ma nella realizzazione di una nuova costituzione, cioè
nella nascita di statuti e istituzioni che sanciscono il mutamento
del potere. Infatti “…il maggior evento in ogni rivoluzione
è l’atto di fondazione” ,
ed esso si riferisce in egual misura alla sfera pubblica e alle istituzioni
politiche. Ma mentre lo spirito pubblico che animava gli spazi pubblici
come i clubs, le societées populaires e i municipi dava
luogo al pluralismo, i corpi politici (Assemblea costituente, Parlamenti)
“affermava(no) che la rivoluzione era giunta al termine”,
rendendo manifesta la separazione tra spirito pubblico proveniente
direttamente dalla libertà e potere costituito.
La conseguenza di questa separazione
fu, alla fine della rivoluzione francese “il conflitto tra il
governo giacobino e le società rivoluzionarie…la lotta
per il potere condotta da un partito e dagli interessi di partito
contro la chose publique, il bene comune…”
.
D’altra parte la sovranità del popolo nella rivoluzione
francese “fu la conseguenza inevitabile di far derivare tanto
la legge che il potere dalla stesa identica fonte” ,
la Volontà generale come Volontà divina. Si osserva
di passaggio che quest’infausta identificazione sarà
una delle cause indirette della crisi dello stato nazionale e della
disponibilità discorsiva del concetto di legge, in grado di
integrare una sfera pubblica proprio in quanto non ascrivibile ad
una divina volontà (ma neanche, come volevano Jefferson e
il repubblicanesimo a verità auto-evidenti).
La progressiva riduzione della sfera
pubblica nella rappresentanza avviene con “il successo spettacolare
del sistema partitico e il fallimento non meno spettacolare dei soviet”,
in URSS, laddove i partiti della sinistra rivoluzionaria si dimostrarono
altrettanto ostili al sistema dei consigli quanto la destra conservatrice
e reazionaria…” .
La storia ci ha insegnato queste
esperienze e il modo in cui sono state schiacciate. Dai consigli municipali
francesi dopo l’89, alle repubbliche-contee di cui parlava Jefferson,
alla Comune di Parigi, ai consigli operai, i soviet “ben decisi
a sopravvivere alla rivoluzione” ,
la teoria e la pratica rivoluzionarie, poiché condividevano
la teoria del potere e della violenza dei regimi sconfitti ed era
“fermamente ancorata alla tradizione dello stato nazionale”
,
non permise che quelle forme di spazio pubblico sussistessero e furono
represse a favore “del più deciso accentramento dell’autorità
nelle mani del potere statale” .
Lenin, quando i soviet “insorsero
contro la dittatura del partito…decise…di schiacciare
i consigli… .
Infatti l’idea consiliare consisteva in una “rigenerazione
diretta della democrazia”.
In contrasto con il corso storico
della seconda metà del XIX secolo e il XX, lo spirito pubblico
creatore di nuovi ordinamenti aveva tentato di cancellare le parole
“uno e indivisibile”, riferite allo stato, per affermare
l’idea federativa, che è per eccellenza l’idea
liberale e repubblicana, nelle parole di Odysse Barret sulla Comune
.
Ma la politica come potere, governo, amministrazione, quella che il
realismo ha predicato, ha prodotto la crisi della politica e “il
guaio sta nella mancanza di spazi pubblici a cui i cittadini possono
avere accesso” .
Nei modelli governamentali la politica
da conseguenza della “pluralità degli uomini”
diviene sintomo dell’omologazione crescente e diventa apparato
burocratico-repressivo nei regimi dell’est, dissolvendo “la
convivenza e comunanza dei diversi” .
La crisi della politica ha a che
vedere con la distruzione dello spazio tra gli uomini, quell’infra
da cui originano leggi e costituzioni. La riduzione della pluralità
all’unicità arbitraria del governo scioglie la cooriginarietà
di diritti e democrazia, mettendoli in tensione; elimina la razionalità
dell’agire e prepara il terreno alla dipendenza della sfera
pubblica da denaro e potere. Per questo “ Se si vuole cambiare
una istituzione…se ne può solo rinnovare la costituzione,
le leggi, gli statuti, e sperare che tutto il resto venga da sé…”
.
La successiva problematizzazione
del concetto di sfera pubblica si trova nella teoria procedurale della
democrazia. Secondo Habermas la ricostruzione del diritto è
necessaria nel determinare l’autocomprensione degli ordinamenti
democratici da parte dei cittadini ;
mentre la ricostruzione della democrazia è utile per rintracciare
nell’orizzonte della modernità elementi di costituzione
di una sfera pubblica post-nazionale .
In questo senso si può dire che lo sviluppo di diverse generazioni
di diritti determina altrettante configurazioni democratiche. Se si
collocano in uno schema storico le successive famiglie di diritti
,
si ottiene una ricostruzione utile ad individuare le diverse forme
di democrazia.
Anzitutto si trova qui la cruciale
idea kantiana dell’autonomia, secondo cui i cittadini saranno
soggetti a quelle leggi che essi stessi reciprocamente si sono dati.
Questa essenziale asserzione proviene dall’esperienza della
rivoluzione francese in cui i diritti soggettivi vengono posti alla
base della sovranità popolare e, ovviamente in ogni teoria
contrattualista. Ma il presupposto del riconoscimento dei diritti
fondanti lo stato democratico è da rintracciare nella rivoluzione
americana e nel costituzionalismo che, secondo Michelman “poggia
su due premesse riguardanti la libertà politica…che
il popolo…è politicamente libero in quanto si autogoverna
collettivamente;…che è politicamente libero nella misura
in cui è governato da leggi non da uomini” .
Ciò significa che i due principi dell’autodeterminazione
di tipo liberale e dell’autorealizzazione di tipo repubblicano
sono entrambi all’opera nelle rispettive espressioni dei diritti
umani e della sovranità popolare. Se infatti Hobbes concepisce
il contratto tra uomini liberi, alimentato dalla paura dell’homo
homini lupus, come un passaggio irrisolto e impensato tra lo stato
di natura e lo stato civile, Kant riarticola la funzione del diritto
sulla base della individuale decisione della persona morale,
come indispensabile elemento di mediazione tra libertà individuale
e sovranità popolare. Ciò che è in gioco, è
il carattere “intersoggettivo” dell’intesa e, prima
ancora, nello stato di natura, la relazione tra umani che danno vita
al patto. Quello sfondo intersoggettivo, comune sia allo stato
di natura che al contratto, ridetermina l’intero spazio dell’agire
e soprattutto crea il legame tra diritti e democrazia alla caduta
dell’ancien régime. Le Costituzioni manifestano
l’intimo rapporto tra diritti e democrazia, nel catalogo di
diritti fondamentali accompagnato dalle prescrizioni sulla struttura
del potere. Ma rafforzano anche questo rapporto attraverso il controllo
giurisdizionale e il controllo di costituzionalità degli atti
normativi.
Lo sviluppo, dopo i diritti di libertà,
dei diritti politici coincide nella seconda metà del XIX secolo,
con il parlamentarismo e la formazione di un ceto di politici di professione
che raccoglievano l’eredità degli antichi privilegi cetuali
,
mentre la rappresentanza era ristretta a categorie benestanti. L’accesso
al voto, negato alle donne e alle classi lavoratrici, tagliava verticalmente
la società e determinava la distanza tra rappresentanti e rappresentati.
Benchè questo rapporto muti progressivamente a favore dei governati
,
l’estensione dei diritti politici è un faticoso percorso
di lotta per l’emancipazione, intrapreso dai gruppi sociali
svantaggiati. Sì che la formazione della volontà non
è libera ma condizionata dal possesso di beni e proprietà
fino agli anni venti del XX secolo. Con il definitivo sganciamento
del diritto da prese di posizioni etiche e metafisiche comprensive,
inerente al proceso di secolarizzazione, il diritto è considerato
diritto soggettivo e la sua fonte non è più esterna
(religione, morale) bensì interna al diritto stesso.
L’autonomia del diritto corrisponde all’estensione
della rappresentanza e alla diffusione di partiti e sindacati, che,
dopo la prima guerra mondiale, diventano organizzazioni di formazione
dell’opinione. La Costituzione di Weimar è secondo il
grande giurista Hans Kelsen, il punto di svolta dell’autonomizzazione
del diritto sia dalla natura che dalla morale; essa imprime al rapporto
diritti-democrazia il senso di autosviluppo e autointerpretazione
del sistema democratico parlamentare da parte di cittadini consapevoli
di attuare il governo delle leggi. Tuttavia la funzionalizzazione
del diritto e la formazione di una burocrazia amministrativa con il
compito di attuare procedure fu considerata, dopo il nazismo, moralmente
abietta, per lo sganciamento del diritto privato dal cosiddetto diritto
oggettivo.
Fu con la progressiva estensione
dei diritti sociali e la creazione del welfare state che la
materializzazione del diritto determina una nuova unità di
misura del rapporto tra diritti e democrazia. “Questo significa
formare e tutelare istituti giuridici in cui il singolo individuo
assuma la posizione di membro associato” .
I regimi di welfare di derivazione post-bellica, attivi dalla
seconda metà del XX secolo, sono possibili all’interno
dello stato-nazione nella caratteristica configurazione delle democrazie
costituzionali. Le Carte costituzionali sanciscono il catalogo dei
diritti individuali e i limiti di estensione della loro agibilità
e regolano attribuzioni e competenze ordinative e burocratico-amministrative
dello stato, in riferimento alla redistribuzione della ricchezza.
Questa configurazione è possibile perché il nesso diritti-democrazia,
nella forma della rappresentanza parlamentare, si genera all’interno
di una sfera pubblica preesistente.
Lo sviluppo del welfare state
produce una rilevante materializzazione del diritto ,
nel momento in cui lo stato democratico si riempie di contenuti sociali;
la divisione in classi tende ad istituzionalizzarsi in una rappresentanza
che agisce in sedi deputate di negoziazione. Sindacati, organizzazioni
operaie e contadine, di commercianti e artigiani formano l’opinione,
e i partiti formano la volontà e il consenso, che saranno,
fino alla fine dello scorso XX secolo, elementi funzionali della democrazia
parlamentare. Con l’ accentuata politicizzazione della sfera
pubblica, la società civile viene spinta ai margini del processo
decisionale, ricavato solo nelle scadenze elettorali.
La formazione di una burocrazia statale vòlta
ad implementare le strutture dello stato di diritto è il frutto
della soggettivazione del diritto, che lascia tuttavia aperto il problema
della legitimazione.
La teoria dell’agire comunicativo
risolve la cruciale questione della legittimità che proviene
dalla legalità, evidenziando il carattere discorsivo dei diritti
nella sfera pubblica politica, intendendoli come garanzie inerenti
a pretese di giustizia. Il conflitto tra diritti e democrazia che
la teoria liberale e il repubblicanesimo hanno messo in scena, provoca
l’emergenza dei diritti umani e la loro tutela internazionale.
Lo stato-nazione, in cui sono attivi diritti di libertà, politici
e sociali, fatica a risolvere i diritti umani, nel momento in cui
diventano emergenza planetaria.
Il dibattito sui diritti umani negli
anni ’60 verteva sulla capacità di risposta delle democrazie
liberali a problemi di sopravvivenza di minoranze altamente discriminate
o di maggioranze cui sono negati diritti fondamentali. Ma, come già
Hannah Arendt aveva evidenziato, il dibattito non coglieva (volutamente)
l’essenza dei diritti umani, la loro azionabilità. Ecco
perché l’appello degli stati ai diritti umani non è
altro che un proposito ipocrita, cui seguono fatti discutibili
.
Benchè oggi le agenzie dell’ONU abbiano proceduralizzato
aiuti umanitari e getione dei rischi, l’assenza di un diritto
internazionale globale rende questi diritti non attivabili, benchè
altamente esigibili .
Le legislazioni nazionali si limitano a risolvere nella contingenza
i problemi di diritti umani e di nuovi diritti che si dislocano
in uno spazio pubblico globale. La loro eccedenza dai luoghi tradizionali
dello stato democratico è il segno di un inedito intreccio
tra delimitazione della vita e costituzione di sfera pubblica. Essi
devono esser presi sul serio come diritti fondamentali all’interno
di una comunità globale. Detto altrimenti, fino a quando un
diritto interstatale, oggi in crisi a causa dell’unilateralismo
statunitense e della dottrina della guerra preventiva, non lascerà
il posto ad una configurazione universalistica dei diritti storicamente
affermati, i diritti umani e i diritti biopolitici non avranno riconoscimento.
D’altra parte, a differenza che nello stato
nazionale, una sfera pubblica globale si costituisce non a partire
da un’essenza definita in riferimento a valori, bensì
in maniera discorsiva, con la mobilitazione di modalità comunicative
e di cooperazione.
La ricostruzione del diritto e della
democrazia nel panorama post-moderno non consente di ricavare dall’osservazione
empirica coordinate concettuali valide. Tuttavia la teoria discorsiva
della democrazia, pur in riferimento allo stato nazionale, prefigura
una forma universale di cittadinanza, adeguata ad una sfera pubblica
globale in cui si dispiegano conflitti e intese. Inoltre la concezione
deliberativa della democrazia risponde all’assetto delle società
complesse e lo fa non perché riduce tutele e funzioni a procedure
fondamentali ,
ma perché la sua struttura discorsiva permette lo sviluppo
di una comunicazione sulle regole e i contenuti della formazione dell’opinione
e della volontà. Qui l’accento va posto sul carattere
razionale del dibattito pubblico e sulla sua qualità. Ciò
è essenziale per chiarire il rapporto tra sfera pubblica e
istituzioni, soprattutto laddove esse si costituiscono in luoghi della
deliberazione. Robert Dahl ha tradotto praticamente la concezione
procedurale verificandola sui dati di fatto delle società complesse
.
Questo approccio al problema parte dalla critica al realismo e “rompe
con il concetto olistico di una società centrata nello Stato
e vuol restare neutrale nei confronti di concorrenti “visioni
del mondo” e progetti di vita” .
Anzitutto le teorie empiristiche della democrazia,
in particolare il funzionalismo e la teoria dell’azione, tendono
a interpretare il potere politico come autonomo e dipendente dal potere
sociale effettivo, rappresentato da interessi e stabilizzato dal potere
amministrativo. In tal caso il nesso sostanziale tra diritto e democrazia
è giustificato come rapporto esterno per cui il diritto legittima
il potere politico. In questa descrizione viene meno l’autocomprensione
normativa dello stato democratico.
Invece, secondo la teoria normativa
la legittimazione dello stato si ottiene per via dei rapporti di forza
e la volontà di dominio che esso riesce a esprimere. In tal
caso il diritto non fa altro che sancire i rapporti di dominio esistenti,
che possono andare dalla “mera sopportazione fino alla libera
approvazione” di un regime .
Anche una dittatura è legittima per il tempo in cui il quadro
sociale esprime questa legittimità. Sono gli individui a produrre
volontariamente validità normativa, a cui corrisponde un positivismo
del diritto (prospettiva dell’osservatore).
Ora, da questa prospettiva dell’osservatore,
comune anche all’utilitarismo, si dovrebbe passare a quella
dei partecipanti, i cittadini, che pongono le “regole del gioco”
sul suffragio uguale, la concorrenza dei partiti e il governo della
maggioranza. Questi istituti dovrebbero per ragioni diverse (pericolo
di rovesciamento violento del potere, differenza tra “verità”
dei programmi politici e utilità, alternanza tra maggioranza
e minoranza al potere) essere accettate e ciò converte automaticamente
la spiegazione soggettiva in spiegazione oggettiva della legittimità,
tramite scelta razionale. Ma questo passaggio non riunifica affatto
le prospettive dell’osservatore e del partecipante che tutt’al
più risultano riavvicinate in base ad un comportamento razionale-allo-scopo.
“Se descrivono sé e le proprie pratiche in maniera empiristica,
i cittadini razionali non avrebbero ragioni sufficienti per sentirsi
vincolati alle regole democratiche” .
Bisogna dunque guardare alle teorie sostantive e
casomai integrarle con i concetti di democrazia deliberativa per evitare
la riproposizione dello stato nazionale.
Nella concezione inaugurata da Locke
il processo democratico si compie nella forma di compromessi d’interesse
mentre in quella repubblicana la “formazione della volontà
si compie nell’autochiarimento etico-politico”
.
Nel primo caso la distanza tra società e stato viene mantenuta,
anzi è approfondita e il processo democratico ha il compito
di “scavalcarla”
con procedure di mediazione. Nel secondo la posizione dello stato
è interna alla società civile.
In entrambi i casi, come fa notare
Habermas, si presuppone una filosofia della coscienza
da cui la teoria del discorso prende congedo. Essa punta sulla “intersoggettività
di grado superiore”
che caratterizza i comportamenti volti all’intesa e che per
così dire forma il contesto in cui sono agìti sia i
diritti liberali che la prassi repubblicana. “Le implicazioni
normative diventano evidenti” .
Il processo democratico poggia sulla solidarietà per la quale
si sviluppano sia sfere pubbliche autonome che lo stato di diritto.
Ora, se si radicalizza la teoria del discorso, si
può fuoriuscire dalla dimensione statal-nazionale. Alla riduzione
dell’apparato statale nella teoria repubblicana corrisponde
nella teoria discorsiva lo “spostamento di pesi all’interno
delle tre risorse, denaro, potere e solidarietà”, poiché
l’ultima non può incaricarsi dell’intero “bisogno
di integrazione” nelle società complesse. In tal modo,
la distribuzione delle funzioni tra sfera pubblica e stato risulta
ripartita secondo un criterio razionalizzante. Alla sfera pubblica
appartiene il potere comunicativo grazie al quale vengono sollevati
temi e problemi di pubblico interesse. Questo spostamento valorizza
la sfera publica portandola in primo piano e si collega direttamente
alla partecipazione diretta agìta da movimenti e associazioni
che in questi anni di contestazione al liberismo e alla guerra hanno
sperimentato spazi pubblici non istituzionali e uno spazio costituente
fondato sul pluralismo.
Benchè questo stesso agire
comporti una discussione intorno al ruolo e la pratica dei movimenti
e la prefigurazione di un’altra politica, è abbastanza
chiaro come l’estensione di una sfera “discorsiva”
abbia coinciso con lo sganciamento reciproco di stato e società
.
Dunque, il problema da affrontare, una volta che
lo stato sia lasciato alle spalle, non riguarda solo la legittimazione
degli istituti della società civile, ma anche il rapporto che
una democrazia configurata in senso universalista deve avere con gli
istituti dello stato di diritto.
Le linee di ricostruzione sin’ora sintetizzate
indicano infatti da un lato che la teoria del discorso è necessaria
nello sviluppo di una società civile e di movimenti globali,
dall’altro che qualora si voglia estendere la validità
della teoria oltre i limiti della tradizione filosofico-politica,
è necessario indicare modi e contenuti di costituzione di una
sfera pubblica in cui sono ridisclocate società civile, potere
economico e potere politico.
Il metodo procedurale, lungi dall’assumere
il piglio di una routine burocratico-amministrativa, viene qui proposto
come il nucleo di formazione dell’opinione e della volontà
su base discorsiva.
Sintetizzando si può dire che:
-
Le sfere culturale, politica ed economica nella
post-modernità, vivono sganciate da visioni metafisiche
e morali comprensive.
-
Visioni del mondo comprensive, lungi dall’esaurirsi,
sono convertite in prese di posizione tramite i media denaro,
potere e linguaggio.
-
L’insieme dei diversi regimi comunicativi
e relazionali costituiscono una società civile a carattere
globale e le modalità di formazione del consenso non avvengono
sul terreno della rappresentanza e delle istituzioni, bensì
in una sfera pubblica informale.
-
L’agire comunicativo e cooperativo definisce
una democrazia procedurale (nel senso dell’impiego di risorse
discorsive e di una razionalità comprendente) possibile
in una “costellazione post-nazionale”.
La razionalizzazione nelle società
post-tradizionali produce “automatizzazione” e “reificazione”,
cioè processi inerziali che fanno resistenza all’agire
discorsivo. La teoria del discorso tiene conto dei problemi di imperfezione,
integrandoli nella comunità ideale della comunicazione ideata
da Karl Otto Apel e che fonda un modello di socializzazione pura in
cui non ci sarebbe bisogno di diritto e politica .
La concreta osservazione di società reali disdice le obiezioni
all’agire discorsivo come agire ideale, prendendo sul
serio l’automatizzazione e considerandola non come un processo
in cui sono in gioco regole di controllo e gestione del comando, bensì
risorse comunicative e relazionali in base a cui sono in campo
non solo l’accettazione di procedure ma anche il rifiuto e la
contestazione del sistema. In tal modo il modello democratico
risulta non solo proceduralizzato ma soprattutto esteso e comprendente.
Le condizioni a partire dalle quali
sono possibili prese di posizioni si/no devono tradursi nella neutralità
delle procedure democratiche in un sistema di garanzie fondato sull’imparzialità
.
Anche in questo ambito le obiezioni comunitariste e quelle liberali
sono superate qualora la neutralità sia intesa come un orizzonte
di condizioni di ammissibilità di tutti i discorsi inerenti
a tematiche sia pubbliche che private, intesi come riferiti indirettamente
a visioni comprensive.
Si può osservare che già esiste una
sfera pubblica informale e anarchica, animata da procedure selvagge
di determinazione dei contenuti inerenti a decisione, in cui formazione
dell’opinione e del consenso sono ritenute più importanti
della formazione della volontà.
Bisogna qui considerare l’esame
delle cosiddette “poliarchie”, introdotte da Dahl
per spiegare il ricorso a forme di democrazia più avanzate
di quella stato-centrica. Se infatti si ammette che l’implementazione
dei diritti fondamentali corrisponde allo “status” di
società del benessere, “moderne, dinamiche, pluralistiche”,
la dislocazione della sovranità si compie nella distribuzione,
per lo più territorializzata, di centri di potere che disdicono
la rappresentanza istituzionale unica.
Questa definizione policentrica della
democrazia va però incontro a due problemi non eludibili: vale
infatti per le società sviluppate in cui già esistono
una società civile, una sfera pubblica e forme di mobilitazione
di risorse comunicative e cooperative e manca di un meccanismo di
coordinamento funzionale ,
necessario all’integrazione sociale.
Riguardo alla mancanza di coordinamento
è il caso di richiamare la neutralità del coordinamento
funzionale “rispetto alle differenze… tra integrazione
sociale e sistemica” .
Il coordinamento non è né uno strumento di comando,
né di controllo esterno alla società, ma vi è
implicato e si rende disponibile al momento della decisione. Mentre
infatti le due forme di integrazione devono per forza riferirsi a
contenuti che determinano il profilo del sistema sociale, il coordinamento
è un “filtro discorsivo”
che permette alle ragioni comunicative di attori diversi di armonizzarsi
in vista di una decisione all’interno della sfera pubblica.
Il coordinamento, che mobilita risorse del diritto
e della politica, permette insomma la decisione anche in una democrazia
non rappresentativa. D’altra parte, in una democrazia post-nazionale
si moltiplicano l’azione del diritto e della partecipazione.
Democrazia e universalismo non sono considerati come fini, ma come
posizioni di partenza e forme di partecipazione. In tal caso i conflitti
non sono espulsi o ridimensionati ma integrati nella comunicazione,
di cui divengono indicatori.
Radicalizzando l’azione di risorse comunicative
e cooperative ed estendendole alla dimensione post-nazionale si può
così ricavare un modello di democrazia globale che non coincide
né con il “governo del mondo”, né con l’anarchia
sistemica.
Una democrazia globale non è l’insieme
delle procedure discorsive e amministrative del governo della società,
ma il modo in cui la società si autogoverna.
Il problema più difficile
riguarda invece la definizione di forme non centralizzate di potere,
definizione che non può restringersi all’occidente ma
deve comprendere paesi e situazioni con gradi diversi di sviluppo
e in cui la democrazia si attua in forme di costituzione mista
.
Considerate le differenze di natura e di grado di situazioni economiche
e sociali e l’impossibilità di esportare un modello poliarchico
qualsiasi, l’istaurarsi di forme dirette di democrazia non può
che provenire dallo sviluppo di una società civile che costituisce
sfere pubbliche politiche. In effetti questo processo, che vale anche
nei sistemi culturale e politico, è già in corso, ad
esempio in quei paesi dell’America latina, come l’Argentina,
in cui l’applicazione del neoliberismo ha provocato disastri
inauditi e in cui un’economia solidale e reti civiche d’impegno
stanno sostituendo la rappresentanza politica degli interessi. O in
Brasile, in cui, pur perdurando una situazione di miseria e una questione
contadina storicamente esplosiva, risorse cooperative e comunicative
liberano un potenziale di partecipazione in grado di fronteggiare
i diktat dell’economia globale. Ciò avviene nel momento
della speranza di giustizia sociale, impersonata dal presidente Lula
da Silva, che si trova a mediare tra opposte esigenze redistributive.
Infatti, lungi dall’essere
una forma diretta di democrazia, la partecipazione si dispiega ancora
all’interno della rappresentanza, anche se la distanza dai rappresentati
risulta ridotta rispetto a quella di una democrazia parlamentare.
Ma la formazione della volontà è solo una delle procedure
del processo democratico che proprio nel modello partecipativo si
nutre di passaggi complessi e articolati .
Infatti in una pratica di partecipazione
sono i cittadini, attraverso comitati locali e associazioni autoorganizzate
e autofinanziate a decidere programmi e candidature inerenti a problemi
e bisogni. Nella peggiore delle ipotesi comitati spontanei e autoorganizzazione
fanno riferimento a partiti, con fenomeni di non trasparenza, corruzione
e falsa comunicazione; nella migliore esprimono i progetti di una
comunità che non ha bisogno di mediazione politica. A questo
livello sono importanti gli strumenti di partecipazione: comitati
di quartiere, centri sociali, associazioni in cui si esprime un municipalismo
che taglia orizzontalmente la rappresentanza. La politica agìta
dal basso, punta a creare non una delega permanente in un sitema
a piramide in cui istanze e problemi sono inmpersonati da una figura
più o meno carismatica; bensì nell’estensione
territoriale di tematiche e questioni altrimenti irrisolvibili. L’esempio
di Porto Alegre ci porta ad osservare come l’indicazione delle
priorità di bilancio, scelte da comitati di cittadini, sia
un’indicazione di contenuto che implica volontà di risoluzione
dei problemi, al contrario delle procedure burocratiche di assegnazione
dall’alto di priorità, per lo più inerenti alle
istituzioni locali .
Decisioni prese per consenso si qualificano, rispetto
a decisioni a maggioranza, per l’allargamento dell’accordo
su temi di carattere universale: esse rappresentano una modalità
globale di ricerca dell’adesione a pretese di validità,
al contrario del metodo a maggioranza, in cui vince un punto di vista
non sottoposto a verifica di validità. Inoltre l’estensione
della partecipazione implica l’assunzione in prima persona di
temi oggetto di dibattito pubblico.
Tuttavia il rifuto della delega e
la crisi irreversibile delle dinamiche della rappresentanza politica,
che si riferiscono in primo luogo alla sfiducia dei cittadini nei
loro rappresentanti, non sono risolti, tranne in casi di conquista
di autonomia in territorialità definite, come in Chiapas, con
alternative all’espressione centralizzata della volontà
politica. Il metodo della partecipazione infatti astrae dall’appartenenza
politica e una giunta di destra potrebbe trovarsi ad attuare politiche
di sinistra. In tal caso infatti ad esser revocata in dubbio è
l’autonomia dei rappresentanti: essa può esser disdetta
dalla realtà del rapporto tra rappresentanti e rappresentati
che il modello partecipativo istaura .
A rigore, in una forma diretta di democrazia questa differenza non
ha senso, ma nel caso delle esperienze di partecipazione, in atto
anche in molte realtà metropolitane europee, i rappresentati
scelgono dei rappresentanti con il voto. Proprio nella patria della
democrazia partecipata, Porto Alegre, il processo espansivo che ha
portato la giunta comunale e il Partido dos trabalhadores ad introdurre
il bilancio partecipato nel 1989, sembra concludersi con la vittoria
delle destre nell’autunno 2004. I cittadini della “capitale
dei movimenti” hanno accettato il verdetto delle urne ma è
lecito chiedesi se, nonostante il cambio, le forme di democrazia istaurate
si conservino. Come dunque interpretare la democrazia partecipata
quando la formazione della volontà non coincide con il modello
di partecipazione? L’esperienza di democrazia partecipata chiude
il cerchio aperto dalla “crisi della politica”, ma non
chiude il circolo virtuoso della presa di parola dei cittadini, e
conferma il carattere sperimentale di ogni forma diretta di partecipazione.
Oggi ogni questione inerente a diritti
si presenta come emergenza sociale e le democrazie sono vigenti in
stato d’emergenza. Il diritto ad una vita dignitosa con l’accesso
a beni comuni primari, l’acqua, il cibo, l’energia, l’abitare,
il lavoro e a prestazioni di tutela della vita sono urgenze non rinviabili
a modi e tempi della politica rappresentativa, in cui procedure burocratiche
individuano contesti settoriali e assegnano garanzie a categorie specifiche
di cittadini. Così, la questione migrante rinvia alla costituzione
di una cittadinanza universale che rompe i confini dello stato nazionale.
L’accesso a risorse comuni si risolve contrastando la privatizzazione
dei beni pubblici. La vita dignitosa richiede erogazione diretta e
indiretta di reddito, sganciato dalla prestazione lavorativa; il diritto
all’abitazione consiste nel liberare patrimoni edilizi e introdurre
agevolazioni alla locazione. Ridurre l’impatto ambientale ha
il senso della restituzione della terra alla terra, disincagliando
lo sviluppo dalla crescita e incentivando economie solidali e cooperative.
Il diritto al sapere e alla conoscenza coincide con reti estese di
condivisione di prodotti immateriali, sempre più cospicui e
che costituiranno la principale forma di merce. Questi esempi indicano
diritti indisponibili ad una rappresentazione, perché non possono
trovare una soluzione solo parziale. Come catalogo di richieste ineludibili,
a differenza che nelle distinte età dei diritti della modernità
,
essi non prevedono specifiche forme di democrazia, come è accaduto
in Europa tra il XVIII e il XX secolo. Questa situazione ha a che
vedere sia con l’opacità di pretese-di-riconoscimento,
per lo più localizzate, sia con la configurazione inedita di
spazio pubblico. Come valutare infatti l’impatto che politiche
ambientali “sostenibili” hanno sulla vita se la verifica
è demandata ad accordi globali che, come nel caso di Kyoto,
si limitano a ratificare la situazione esistente? Come valutare politiche
abitative di singole realtà locali se un’emergenza abitativa
non è posta sul piano globale? Come valutare il grado di libertà
dei media e la concentrazione proprietaria se non esistono authorities
con poteri effettivi? E come valutare la libertà di comunicazione
e di accesso al sapere, se non esiste un controllo civile che operi
un’inversione nel rapporto tra possibilità di comunicazione
e capacità di gestione e di indirizzo dei flussi mediatici?
Si potrebbero fare altri esempi, in campo bioetico e biopolitico per
dimostrare l’asimmetria tra istanze che emergono dalla realtà
globale e governance politica.
Oggi lo sviluppo della società civile permette
la conversione di un’etica della responsabilità in un’etica
discorsiva, su cui poggia la possibilità di un altro mondo.
Questa pratica è stata scelta dai movimenti antiliberisti e
contro la guerra che affermano il valore costituente della politica.
Legalità e disobbedienza, legittimità degli ordinamenti
e diritto di resistenza sono colti in un nesso inscindibile, lo stesso
che intreccia diritti e democrazia. Infatti, forme di partecipazione
democratica ai processi decisionali si creano come esito di conflitti
e atti di dissenso, per lo più causati dal “sistema della
delega” e dalla gestione amministrativa della cosa pubblica.
L’appello alla partecipazione ha a che vedere con atti di disobbedienza
e richieste di giustizia sociale che per loro natura i sistemi rappresentativi
nelle democrazie parlamentari non riescono a risolvere. Tuttavia ripensando
la cooriginarietà di diritti e democrazia è forse possibile
superare il carattere formale della legittimazione democratica e dar
vita ad una sfera pubblica globale indipendente da denaro e potere
e che li governi entrambi.
Riferimenti bibliografici
«Filosofia
politica», n° 1/2005. Costituzione mista.
Jacques Testart,
L’intelligenza scientifica e la democrazia partecipativa,
in «Le Monde diplomatique», n°2, anno XII, febbraio
2005.
Hannah Arendt,
Vita Activa, Bompiani, Milano,1994.
Hannah Arendt,
Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità,
Milano, 1997.
Hannah Arendt,
Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Torino, 1999.
Norberto Bobbio,
L’età dei diritti, Einaudi, Torino,1997.
Robert Dahl, Sulla
democrazia, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000.
Jurgen Habermas,
Fatti e norme, Guerini e associati, Milano, 1996.
Jurgen Habermas,
La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano, 1999.
Jurgen Habermas,
Morale, diritto, politica. Edizioni di Comunità, Torino,
2001.
Raul Pont, La
democrazia partecipativa, Edizioni Alegre, Roma, 2005.
Max Weber, La
scienza come professione. La politica come professione, Edizioni
di Comunità, Torino, 2001.
Max Weber, Parlamento
e governo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002.