Antonin Artaud nella vita (1)
di Paule Thévenin
(traduzione di Marco Dotti)
Ho conosciuto Antonin Artaud nel modo più semplice:
sono andata a trovarlo.
Devo dire, però, che già intrattenevo
rapporti d’amicizia con Marthe Robert e Arthur Adamov. Nel 1946, loro
avevano finalmente potuto recarsi nella clinica di Rodez per rivedere
Artaud e discutere con il dottor Ferdière, primario di quel manicomio,
sulla possibilità di farlo uscire.
Non era una cosa facile, poiché Antonin Artaud
era stato internato d’ufficio e la sua dimissione doveva essere approvata
da un’autorità amministrativa con regolamenti molto severi. Di
solito, questo tipo di richiesta viene sollecitata dalla famiglia dell’internato
che dichiara di rispondere di lui e di assicurargli il mantenimento.
Non era il nostro caso. Il dottor Ferdière, bisogna ben riconoscerlo,
poiché riteneva di dover restituire ad Artaud la libertà,
accettò di sostituire l’amicizia alla famiglia, ma, per farlo,
gli serviva una documentazione munita di serie garanzie da presentare
all’amministrazione.
In primo luogo, bisognava raccogliere una somma di
denaro sufficiente al mantenimento di Antonin Artaud per parecchi anni.
I fatti sono abbastanza conosciuti perché mi ci soffermi: sotto
la presidenza di Jean Paulhan, un comitato promotore mette in piedi
l’incontro al teatro Sarah Bernhardt, una vendita all’asta di quadri
e manoscritti offerti da numerosi artisti e scrittori, arrivando così
a raccogliere più d’un milione.
La seconda esigenza del dottor Ferdière era
che, al suo arrivo a Parigi, Antonin Artaud fosse accolto in una casa
di cura privata di modo che la sua salute, e la sua alimentazione fossero
costantemente sotto osservazione, e che, in caso d’incidente, il fatto
di essere pensionato d’una clinica evitasse ogni rischio di un nuovo
internamento. Restava pochissimo tempo agli amici di Artaud, diventati
"impresari", per risolvere questo problema. Chiedendomi un
aiuto, ben volentieri accordato, Marthe Robert e Arthur Adamov mi incaricarono
di trovare una casa di salute, dal prezzo ragionevole. Di tutti gli
esperti che andai a visitare, il dottor Achille Delmas, a Ivry, che
era stato il medico di Roger Gilbert-Lecomte e che aveva, durante gli
anni di guerra, curato Lucia Joyce, uomo pieno di tatto e di grande
generosità, fu il solo a comprendere quanto fosse delicata la
situazione, dichiarandosi pronto ad accogliere Antonin Artaud.
Fin dal primo contatto seppe farsi amare; il giorno
del suo arrivo, gli consegnò le chiavi del portone grande di
ingresso dicendogli: «Signor Artaud, Lei è a casa sua,
ecco le chiavi».
Questo fa capire come, pur senza conoscere Antonin
Artaud di persona, fossi comunque, almeno un po’, tra coloro che l’aspettavano.
Poiché io abitavo in periferia, il mio domicilio si trovava a
qualche fermata di autobus dal numero 23, rue de la Mairie, a Ivry (potevo
anche recarmici a piedi), il giorno dopo il suo arrivo o il giorno dopo
ancora, un amico mi telefonò e mi pregò di andare a chiedere
ad Antonin Artaud se avrebbe accettato di leggere un suo testo per la
serie dei Club d’Essai. Era già uscito quando arrivai a Ivry
accompagnata da mia figlia ancora molto piccola. Dissi al custode che
sarei ritornata il giorno dopo, alla stessa ora.
Me ne ricordo ancora con la più grande precisione.
Ero ritornata sola. Era il mese di giugno.
Artaud occupava una camera in un nuovo padiglione,
in fondo al parco, l’erba non era stata tagliata, alta sotto gli alberi,
sembrava di essere lontano da Parigi. Fin dal momento in cui bussai
alla porta di Antonin Artaud ebbi l’impressione di entrare in un altro
mondo. Bisognava averlo sentito pronunciare, anche una sola volta, questa
semplice parola: «Avanti!», per capire. La parola
cambiava segno, si caricava in modo speciale, pronunciata in maniera
tanto netta – le due sillabe scandite con una precisione tanto radicale
che si aveva l’impressione di lasciare il posto in cui ci si trovava
per entrare "altrove". Entrai. Vidi un uomo in piedi che scriveva,
un quaderno abbandonato sul caminetto. Girò la testa, guardandomi.
Benché fosse di media statura, il modo che aveva di voltare la
testa, gettando in dietro i capelli molto lunghi, la vivacità
del suo sguardo, l’azzurro vivo degli occhi, rendevano il contegno imponente.
Nonostante l’eccessiva magrezza, gli stenti segnati sul volto da dieci
anni di privazioni (era ormai senza denti), c’era in lui qualcosa di
regale. Ho esitato prima di usare questa parola, ma è la sola
che mi sembri giusta, e, d’altra parte, non si è lui stesso ad
essersi ritratto così nel Rois des Incas?
Gli dissi chi ero, e lo misi a parte della proposta
del Club d’Essai. Non rispose, mi offrì delle noccioline abbrustolite
e salate tirandole fuori da un piccolo pacchetto che teneva in tasca.
Poi mi parlò del caminetto, del buco nero che esso apriva nella
stanza, quel buco nero che si ritrova in Artaud le mômo,
e si rimise a scrivere. Seduta su una sedia di fronte a lui, aspettavo;
pensavo che avesse completamente dimenticato la mia domanda e non osavo
ricordargliela. Tutto ad un tratto si girò verso di me: riteneva
impossibile registrare qualsiasi cosa per la radio, l’impossibilità
non veniva da lui, piuttosto da quell’organismo quasi ufficiale che
non avrebbe sopportato di sentire ciò che aveva da dire, come
lui lo voleva dire, e glielo avrebbe impedito.
«Crede che mi lasceranno dire delle frasi
come queste»:
«A me non piacciono le fragole, ciò
che mi piace èil gusto delle fragole nelle fragole».
«A me non piacciono i baci, ciò che
mi piace è il gusto dei baci nei baci».
«A me non piacciono i coglioni, ciò
che mi piace è il gusto dei coglioni nei coglioni».
«A me non piacciono i culi, ciò che
mi piace è il gusto dei culi, nei culi»?
Gli assicurai che avrebbe detto o letto esattamente
quello che voleva; mi fissò allora, per il giorno dopo, un appuntamento
al quale dovevo recarmi con l’amico desideroso di fare questa registrazione.
(In verità non fu affatto quelle frasi che lesse,
ma Les malades et les médecins:
La malattia è uno stato,
La salute non è che un altro,
più infame,
intendo vile, più meschino,
Non c’è malato che non sia diventato,
non un malato che non abbia tradito, un bel giorno, per
non aver voluto essere
malato, come certi medici che ho subito...).
Qualche giorno dopo, riferendomi con ironia la seduta
che si era tenuta al Club d’Essai, mi disse, con la luce nello sguardo:
«Ho voluto ascoltarmi: spaventoso! Ho creduto di sentire Albert
Lambert».
Dopo avermi interrogata con molta discrezione su ciò
che facevo o desideravo fare, dato che doveva andare a Parigi, fece
la strada con me fino al cancello del parco. Al momento di lasciarmi
mi domandò improvvisamente:
«Viene dall’Afghanistan?»
«No».
«L’avrei creduto, poiché attendo una parente, dal nome
di Neneka, che deve portarmi da Kabul un vaso di polvere pura e pensavo
che fosse lei. Vi assomigliate».
E se ne andò. Io non sapevo in quel momento,
lo seppi solo più tardi, che mi ammetteva tra le sue figlie
adottive (filles de cœur à naître).
È così che ho conosciuto Antonin Artaud.
Qualche giorno più tardi venne a pranzo a casa mia. Eravamo numerosi
e giovani a quel tempo. Senza dubbio si trovò a suo agio tra
di noi, e cominciò a venire tutti i giorni; se era troppo stanco
per uscire, faceva telefonare a uno di noi di andarlo a trovare subito.
Forse lo troverete sorprendente. L’immagine che si
dà di Antonin Artaud è spesso lontana dalla realtà.
Esigeva molto da quelli che l’amavano, ma era pieno d’attenzioni, gentilissimo.
Poco tempo dopo il nostro primo incontro, venne un pomeriggio a casa,
brandendo un enorme mazzo: «Questo bouquet rappresenta un’intera
coscienza, la sua. Ho scelto i fiori uno ad uno e li ho composti io
stesso», disse offrendomeli. Facendomi notare ciascun fiore,
lo ricompose davanti a me: al centro, due rose, una bianca, e l’altra
rosa (che il bouquet cominciasse con due rose era per lui di estrema
importanza); al di sopra tre papaveri, uno giallo, uno rosso, il terzo
screziato di rosso e di bianco; una dalia color fuoco ed una dalia rosa,
a destra e a sinistra due margherite bianche; una margherita rosa nel
basso del bouquet circondata da rami di quercia e di asparago. Io non
conosco il linguaggio dei fiori; avrei potuto conoscerlo e non mi avrebbe
insegnato nulla. Quello che so è che mai avevo ricevuto un bouquet
che ponesse tanti problemi, che dicesse tante cose, che probabilmente
mai più ne riceverò uno simile.
Antonin Artaud era giunto a questa cosa assai rara:
aveva saputo conferire un senso alla propria esistenza, e in questo
modo un senso alla vita. Tutto quello che diceva, nel momento stesso
in cui lo diceva, sembrava d’una tale precisione, d’una tale verità,
ed era egli stesso a tal punto questa verità che lo si ammetteva
totalmente.
Un giorno sul boulevard Saint-Germain, mi aveva detto:
«Io non so nulla, o piuttosto so, il che è molto pericoloso
a dirsi, che non è il significato che crea le parole ma le
parole che creano il significato». Si potrebbe quasi dire
di lui che creava la realtà. Chiunque lo avvicinasse lo
avvertiva. Così avendo avuto fin dalla sua giovinezza l’abitudine
di farsi radere, andava ogni giorno da un barbiere di rue de la Mairie,
a Ivry. In seguito fu il barbiere che andò alla casa di salute.
Si chiamava Monsieur Marcel e arrivava in generale un poco dopo mezzogiorno.
Senza indugi, come un ministro, con una valigetta
contenente il suo strumento, entrava nella camera di Artaud, che molto
spesso era ancora a letto. Monsieur Marcel tirava fuori i suoi strumenti
e si metteva all’opera. Durante tutto questo tempo Antonin Artaud lo
intratteneva con la più grande affabilità e, nella maniera
in cui Monsieur Marcel gli rispondeva, nella sua pazienza nel raderlo,
si notava una deferenza e una tenerezza che non erano finte. Nessuna
ossequiosità, il più gran rispetto, quel rispetto che
gli antichi Greci dovevano provare per il Poeta. Ho visto un giorno
Monsieur Marcel commosso fino alle lacrime: Artaud gli aveva appena
dato un esemplare con dedica del Van Gogh. E io ho sempre avuto
la sensazione che Monsieur Marcel credesse a tutto quello che Antonin
Artaud gli diceva; lo credeva perché sentiva che era vero.
Un altro esempio, altrettanto significativo anche
se più divertente. La portinaia del nostro palazzo, una brava
donna, ma desiderosa di provare la sua autorità, sbirciava dal
suo sgabuzzino l’arrivo di Antonin Artaud al quale voleva fare qualche
rimostranza perché la notte precedente si era esercitato, a finestre
aperte, a recitare dei poemi di Gérard de Nerval e la declamazione
aveva oltrepassato i limiti del nostro appartamento. Aveva appena aperto
bocca che egli la fermò: "Zitta! Se continua a proibirmi
di recitare i versi di Gérard de Nerval, la trasformo immediatamente
in un serpente dalla testa piatta!", e la lasciò
interdetta sui gradini. Ci raccontò con molto humor l’incidente,
tanto più strano in quanto la portinaia era una bretone dalla
testa singolarmente piatta. Quando fu certa che Artaud se ne era andato,
ella venne a trovarmi, non tanto per lamentarsi quanto per essere rassicurata
perché, senza troppo osare confessarlo, era molto inquieta. La
forza di suggestione di Antonin Artaud era così forte che quella
povera donna si domandava se qualche realtà per lei minacciosa
non si nascondesse sotto quelle parole.
Questo humour, così caratteristico di Antonin
Artaud, era uno dei tratti che costituivano la sua capacità di
seduzione. Una sera che era ritornato molto tardi a Ivry, si accorse
di avere dimenticato in camera le chiavi del portone. Tutto era chiuso,
inutile a quell’ora, e in periferia, cercare un taxi, egli decise dunque
di scavalcare la recinzione. Impossibile, era troppo alta. Il muro contiguo
al padiglione dove alloggiava non lo era meno. Due agenti di polizia
che lo avevano notato iniziarono ad interrogarlo. Spiegò loro
il suo imbarazzo, indicò il punto dove si trovava la sua camera,
si mostrò così persuasivo che gli agenti gli fecero la
scaletta e lo issarono sul muro. Raccontandoci questa impresa, Antonin
Artaud aggiunse: «E si è potuto vedere questo spettacolo
straordinario! Due sbirri che aiutavano il pensionato a scavalcare il
muro per ritornare nella casa di cura!».
E ancora, quell’ammirevole risposta che diede ad un
giornalista. Ero appena arrivata a Ivry verso la fine della mattinata
quando questo giornalista, facendo un’inchiesta per non so più
qual giornale, pose a Antonin Artaud la domanda: «Qual è
la sua definizione di humour nero?». Artaud lo pregò di
sedersi, ma non rispose. Parlò a lungo con me, prese un quaderno,
scrisse qualche pagina, il giornalista attendeva. Gli fu portata la
colazione, mangiò, restò silenzioso un lungo momento,
il giornalista attendeva sempre. Poi prese il suo grosso coltello a
scatto, e dopo avere cercato un punto adatto sotto i suoi capelli ci
tenne la punta appoggiata qualche minuto (questa pratica gli era abituale;
lo sollevava da alcuni dolori, diceva). Improvvisamente piantò
il coltello diritto sulla tavola che era vicino a lui: «Mi
ha domandato, caro Signore, la definizione di humour nero. Ebbene, eccola,
l’humour nero è questo!» Il giornalista se ne andò.
Tutto questo mi ha distolto un po’ dal rispondere
alla domanda su come Artaud lavorava. Capisco bene che lei si riferisca
soprattutto al suo lavoro di attore, ma mi sembra impossibile, almeno
per il periodo in cui io l’ho conosciuto, pensare che avesse attività
separate di attore, di scrittore, o di disegnatore. Del resto non ha
egli stesso risposto, come per prevenirla, a questa domanda ? «Se
sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma
per viverle. Quando recito una poesia non è per essere applaudito,
ma per sentire corpi d'uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi
all'unisono con il mio». E non dimentichiamoci che
Antonin Artaud ha indicato la necessità di alienare l’attore.
Lavorava senza sosta. In ogni momento, ad ogni occasione,
dovunque si trovasse, a tavola, in metropolitana, in compagnia di amici,
lavorava per quanto fosse scomoda la sua posizione, estraeva dalla tasca
uno di quei quadernetti scolastici che portava sempre con sé,
scriveva o disegnava. Talvolta accompagnava questo lavoro con ritornelli
ritmati, in un linguaggio inventato da lui.
Non l’ho mai sentito lavorare ad uno dei suoi testi
come normalmente farebbe un attore. Ma l’ho visto dedicarsi ad esercizi
di respirazione, a ritmi scanditi, con forti inspirazioni, mentre colpiva
un ceppo di legno con il coltello o con il martello. Liberava una forza
sorprendente e chi non l’abbia visto compiere simili sforzi difficilmente
potrebbe immaginarsi di quale straordinaria vitalità un corpo
così debilitato era capace.
Era adirato col dottor Ferdière che si lamentava
del suo sistema soffi e canticchiamenti, perché non l’aveva
ammesso come lavoro. Al contrario, il dottor Delmas aveva compreso molto
bene questo bisogno; per questo aveva fatto portare nella camera di
Antonin Artaud quell’imponente ceppo di legno, un tronco d'albero malamente
squadrato che gli facilitava quegli esperimenti linguistici di
cui ha scritto: «Ma non si possono leggere che scandendoli,
seguendo un ritmo che il lettore stesso deve trovare per capire e per
pensare
ratara ratara ratara
atara tatara rana
otara otara katara
otara ratara kana
ortura ortura konara
kokona kokona koma
kurbura kurbura kurbura
kurbata kurbata keyna
pesti anti pestantum putara
pesti anti pestantum putra
ma questo vale se arriva di colpo; cercato, sillaba
per sillaba, non vale più niente, scritto qui non vale più
nulla, è polvere. Perché possa vivere serve un altro elemento
che si trova in quel libro che si è perso».
Questo lavoro costante lo rendeva maestro della voce
e delle sue intonazioni. Era questo lavoro che gli permetteva di leggere
i suoi poemi in un modo che solo lui conosceva, indimenticabile per
tutti quelli che l’hanno ascoltato.
Quando si trattò di preparare la registrazione
di Pour en finir avec le jugement de dieu, non ci furono
prove; una semplice lettura prima della registrazione dove Antonin Artaud
diede agli altri lettori qualche indicazione, lasciando a loro il compito
di trovare da soli la loro intonazione. I rumori e le grida che accompagnarono
questi lettori furono improvvisati sul posto sotto la sua direzione.
Io avevo partecipato a questa trasmissione. Se leggere
vuole dire anche recitare, intendendo recitare nel senso di agire, quella
fu la sola volta che io ho recitato in un’opera di Antonin Artaud. C’era
già stata un’altra lettura dei suoi testi alla Galleria Pierre,
in occasione dell'esposizione dei suoi disegni, ma io allora mi trovavo
in Marocco.
È stato lui ad insegnarmi a leggere un poema.
Avevo avuto qualche velleità di fare del teatro, presto scoraggiata
da ciò che si insegnava nei corsi ai quali avevo partecipato.
Avevo detto ad Artaud del mio disappunto; la cosa gli fece piuttosto
piacere e decise di farmi esercitare.
Per cominciare mi fece recitare dei poemi di Baudelaire
e Gérard de Nerval. Ecco la maniera in cui ci si apprestava.
Io dovevo inventare una melodia e cantare i versi. Così potevo
rendermi conto dell’importanza delle parole le une in rapporto alle
altre e della loro concatenazione. Quando avevo compiuto parecchie prove
di questo genere, mi sforzavo di dire il poema. Non giungevo sempre
al grado voluto da Antonin Artaud; dovevo ricominciare fino a che fossi
soddisfatto.
Più tardi mi assegnò degli esercizi
su quei saggi di cui vi ho parlato. Dovevo imparare a
gridare, a non lasciare cadere il grido fino alla scomparsa, a passare
dal tono superacuto a quello più grave, a prolungare una sillaba
fino all’esaurimento del respiro. Credo di aver compreso in queste sedute,
ciò che era il teatro della curazione crudele.
Quando mi arrischiavo a leggere un poema di Antonin
Artaud, egli non mi dava alcuna direttiva, mi lasciava lavorare da sola.
Dovevo "trovare per comprendere"; non gli mostravo il risultato
del mio lavoro se non quando pensavo di esserci arrivata. Allora egli
correggeva o approvava. Al contrario di quanto si fa sempre più
spesso, penso che un poema di Antonin Artaud non si debba leggere in
uno stato di trance, occorre, invece, la padronanza di tutti i propri
mezzi, dopo uno studio molto lungo e duro, e un costante sforzo di delucidazione.
Lei mi ha anche domandato quali siano stati gli ultimi
giorni di Antonin Artaud. Vorrei prima di tutto riportare i fatti a
verità. Si è letto spesso sulla stampa che Antonin Artaud
è morto in manicomio. È falso, è morto nella casa
di cura del dottor Delmas, a Ivry. Madame Malausséna non ha esitato
a scrivere: «Ed è così che diciotto mesi dopo la
sua uscita da Rodez, Antonin Artaud moriva, solo, abbandonato in una
sordida stanza d’un padiglione in rovina ed isolato, rigurgitante di
cloralio e di laudano».
Ecco, come ho già raccontato, al suo arrivo
a Ivry, Antonin Artaud alloggiava in un edificio nuovo. Passeggiando
nel parco, notò un padiglione del XVIII secolo, disabitato. Il
padiglione si trovava leggermente fuori, davanti un giardino fiorito
dove crescevano degli iris; al di là il parco si prolungava ancora.
Al ritorno da un soggiorno nel Mezzogiorno nel mese di ottobre del 1946,
Antonin Artaud domandò al dottor Delmas il favore di abitare
in quel padiglione. Avrebbe così avuto l’impressione, pensava,
di essere a casa propria. Il dottor Delmas ebbe un bell’opporgli la
vecchiaia del padiglione, il fatto che non era provvisto né di
riscaldamento centrale né di acqua corrente; ciò non significò
nulla; il desiderio che aveva Artaud di essere isolato dagli altri pensionati
gli fece considerare questi inconvenienti trascurabili. Gli fu accordato
l'uso di una prima camera, molto grande, dalle proporzioni meravigliose,
e una seconda più piccola. Tutte e due a pian terreno comunicavano
al giardino per mezzo di porte-finestre. Un vecchio giardiniere veniva
apposta per lui a portargli le brocche d’acqua calda e i pasti e, in
inverno, accendeva nel caminetto, di grandezza proporzionata alla stanza,
un fuoco con dei ceppi enormi.
Negli ultimi tempi, è vero, contro i consigli
di tutti coloro che tenevano alla sua salute, faceva abuso di cloralio,
e nell’ultimo mese il laudano non gli veniva più dosato.
Le due cose avevano la stessa ragione.
Da molto tempo, Artaud si lamentava di dolori intestinali,
intermittenti. La sua eccessiva sfiducia nei confronti della medicina
impediva di consigliargli di farsi vedere da uno specialista. Se si
tentava di farlo, rispondeva accusando i nove anni d’internamento in
manicomio di avergli distrutto l’apparato digerente a causa dell’alimentazione
insufficiente e tutt’altro che adeguata. Questa spiegazione poteva sembrare
giustificata; durante gli anni dell’occupazione, se la maggior parte
della popolazione era sottoalimentata, gli sfortunati ricoverati, ridotti
alla loro stretta razione alimentare, erano a malapena nutriti. Pertanto,
quando i dolori aumentarono, quando iniziarono le emorragie, quando
Antonin Artaud cominciò di sua iniziativa a prendere del cloralio
in quantità eccessiva, mio marito ed io riuscimmo a convincerlo
ad andare da un gastroenterologo nostro amico che, fin dal primo esame,
sospettò una malattia grave. Erano necessarie delle radiografie.
Affinché egli acconsentisse, dovemmo insistere lungamente.
Un mattino, all’inizio di febbraio, lo accompagnai
alla Salpêtrière (il nostro amico allora era assistente
presso il professor Mondor) dove si procedette agli esami radiologici.
Il professor Mondor lo visitò a lungo. Aspettando un po’, potevamo
avere i risultati delle radiografie. Ed è ciò che abbiamo
fatto. Eravamo seduti fianco a fianco su due sedie in un corridoio della
Salpêtrière, con la schiena rivolta ad una finestra. Mi
ricordo che Antonin Artaud mi parlò di Roger Gilbert-Lecomte,
che aveva conosciuto al tempo del Grand Jeu. In seguito, mi disse
che non si deve scrivere se non quando si ha veramente qualche cosa
di essenziale da dire, ma a condizione d’essere ugualmente capace di
sapere che quella cosa è essenziale. Poi il professor Mondor
ci fece chiamare; rassicurò Artaud sul suo stato di salute, gli
consigliò riposo, prescrivendogli una cura.
Mentre ce ne stavamo andando, il mio amico ci raggiunse
e, col pretesto di affidarmi una lettera a proposito di un paziente
che aveva in comune con mio marito, mi invitò ad entrare nel
suo ufficio. Lì attendeva il professor Mondor. Mi rivelò
che Antonin Artaud era affetto da un cancro, in evoluzione da molto
tempo, assolutamente inoperabile. Scrisse un rendiconto del consulto
che dovevo consegnare al dottor Rallu, successore del dottor Delmas,
morto da qualche mese.
Evidentemente una sola cosa era ancora umanamente possibile
per alleviare le pene di Antonin Artaud, quando avesse troppo sofferto:
somministrargli tutto l’oppio necessario.
Benché nessuno di noi abbia mai parlato ad
Artaud del suo cancro, egli aveva una così precisa conoscenza
del proprio corpo che, ne sono certa, l’aveva sempre capito. Da alcuni
mesi, parlava spesso della «bestia che gli rodeva l’ano».
Ed è anche per questo, ne sono convinta, che prendeva il cloralio.
Preso in forte dose, il cloralio lo gettava in uno stato comatoso che
lo annientava, e doveva annullare i suoi dolori.
Nei giorni seguenti, lo confesso, ebbi un impulso
puerile. Vivevo tra medici, ed io stessa avevo, senza condurli a termine,
fatto degli studi abbastanza lunghi di medicina, e nonostante questo
mi recai da un medico di cui mi avevano detto che aveva da poco scoperto
un farmaco miracoloso contro il cancro. Davanti alle lastre che gli
portai, declinò ogni competenza. Questi miracoli non esistono,
lo so, l’avevo sempre saputo, ma allora volevo dimenticarlo.
Il 4 marzo 1948, verso le otto, il segretario del
ricovero mi chiama: il giardiniere, mentre, come ogni mattina, gli portava
la colazione, l’aveva trovato morto, seduto ai piedi del letto.
Il giorno prima, il 3 marzo, era venuto a pranzo
da noi a mezzogiorno e ci aveva lasciato a metà pomeriggio. Non
stava né meglio né peggio dei giorni precedenti. Eppure
quel giorno fece qualcosa che mi sorprese. Volle che gli si andasse
a comprare un foglio di carta da bollo, il che, da parte sua, era insolito;
bisognava, diceva, che tutto fosse perfettamente in regola. Quando fu
in possesso del foglio, senza che nessuno di noi sapesse a cosa servisse,
con una stilografica piena d’inchiostro verde, leggendo mentre scriveva,
con applicazione, cerimoniosamente redasse una specie di delega di potere
con la quale mi incaricava di sovraintendere alla pubblicazione dei
suoi libri. Ora, io non ne avevo alcun bisogno, gli editori di Antonin
Artaud mi conoscevano; da molto tempo mi mandava da loro a consegnare
manoscritti, a portare bozze corrette, o a domandare denaro; non era
sorta mai alcuna difficoltà. Perché quel giorno ha voluto
che ci fosse un atto ufficiale (per lui infatti, così poco d’accordo
con la società, la carta bollata rappresentava ciò che
è ufficiale)? Non saprei rispondere. Quelle parole scritte con
l’inchiostro verde sono senza dubbio le ultime che abbia scritto.
Ora, dopo più di sedici anni, sono arrivata
a pensare questo: Antonin Artaud è morto esattamente come voleva
e probabilmente quando l’ha voluto.
Le ultime settimane, ripeteva frequentemente: «Non
ho più nulla da dire, ho detto tutto ciò che avevo
da dire». Dichiarava che non avrebbe più scritto.
Un giorno, non si era ancora tolto neppure il cappotto
che avvertì: «Le annuncio che non scriverò mai
più, ho scritto tutto. Del resto, vede, non ho quaderni».
E mostrò la tasca interiore della sua giacca, priva dell’abituale
quaderno. Gli risposi ridendo che non ci credevo. Allora, con ostentazione,
si sprofondò in una poltrona, ed incrociò le braccia.
Ero andata a terminare un lavoro in un’altra stanza dell’appartamento.
Mentre ritornavo, lo sentii, e il tono della sua voce era di una cortesia
incomparabile, domandate a mia figlia: «Mia piccola Domnine,
per favore, vuole andare a comprarmi un quaderno in cartoleria?»
Non potei resistere alla tentazione di stuzzicarlo un po’: «Ma
non ha appena detto che non scriverà mai più»? «È
vero, ma è per fare dei bastoni! La mia mano, lei, non
può fare a meno di scrivere». Infatti quando ebbe il
quaderno, si mise coscienziosamente a fare dei bastoni ... due pagine
di bastoni che a poco a poco divennero lettere.
Se ne può dedurre che egli certamente aveva
la sensazione di avere fatto ciò che voleva fare, ciò
che doveva fare.
Era solo, quel giorno, mentre moriva: credo non avrebbe
desiderato testimoni. Né il conte impensable di Lautréamont,
né Edgar Poe sur sa bouche d’égout a Baltimora,
né Gérard de Nerval pendu, et de lui-même, à
un réverbère ne hanno avuti. E i testimoni presenti
alla morte di Charles Baudelaire non videro morire Charles Baudelaire,
ma una carcassa che, un tempo, era stata Charles Baudelaire.
Antonin Artaud aveva dichiarato che mai sarebbe morto
in un letto. È morto seduto. Aveva anche detto che non sarebbe
mai morto come tutti gli altri, che il suo corpo sarebbe andato in pezzi:
«Chi sono?
Da dove vengo?
io sono Antonin Artaud
e che io lo dica
come io so dirlo
vedrete il mio corpo attuale
volare in frantumi
e ricomporsi
sotto dieci mila aspetti
notori
un corpo nuovo
che non potrete
dimenticare mai più».
Cosa dire di meglio, come dire altro?
Nota
1) Artaud dans la vie,
"Tel Quel", n. 20, 1965, p. 25-40 (non vengono qui tradotte
le note dell’autrice e le p. 35-40, relative al viaggio in Irlanda compiuto
da Antonin Artaud nell’agosto del 1937). Il testo, nato come risposta
ad un questionario elaborato da Bettina Liebowitz Knapp (che pochi anni
dopo pubblicò un saggio dal titolo Antonin Artaud, man of
vision, Lewis, New York 1969, avvalendosi dell’introduzione di Anaïs
Nin), è stato, in seguito, antologizzato nel volume di Paule
Thévenin, Antonin Artaud, ce Désespéré
qui vous parle, Editions du Seuil, Parigi 1993, p. 57-79.