Bruno Moroncini, La lingua del perdono Filema, Napoli 2007, ISBN: 978-88-95204-04-8, euro 10,00
Nella ormai considerevole produzione saggistica di Bruno Moroncini, La lingua del perdono rappresenta una tappa densa e profonda del percorso dialogico che l’Autore intrattiene da tempo con Jacques Derrida. Costui è infatti l’unico filosofo che, sia prima che soprattutto dopo la sua scomparsa (2004), sembra aver assunto per Moroncini il ruolo di interlocutore privilegiato: membro autorevole eppure intimamente, direi quasi teneramente affine, di quella comunità dei vivi e dei morti di cui egli ha tratteggiato la paradossale valenza etico-politica, proprio a partire dall’esigenza derridiana di decostruzione del politico moderno (cfr. B. Moroncini, La comunità e l’invenzione, Cronopio, Napoli 2002). Non è dunque casuale la scelta di inserire questa breve riflessione sul perdono in una collana – Chaosmica – che l’editore napoletano Filema ha dedicato al ‘banchetto’ ideale tra amici che si ritrovano a parlare attraverso le pagine di piccoli libri, nei quali la voce muta dell’uno risponde, magari a distanza di anni, all’invito silenzioso dell’altro. Così come alla medesima esigenza di contatto elettivo risponde l’idea di collocare, in appendice al saggio, un’intervista rilasciata da Derrida nel 1999, Il secolo e il perdono, nella quale egli riprende in forma incisiva e attuale le stesse tematiche che, parallelamente, andava sviluppando nel suo seminario all’Ècole des hautes études en sciences sociales (e di cui è testimonianza, in traduzione italiana, il volume Perdonare, Cortina, Milano 2004). Se il presupposto esplicito da cui entrambe le riflessioni partono (tanto quella di Derrida quanto quella, da essa parzialmente germinata, di Moroncini) è costituito dal carattere eminentemente linguistico, e dunque pubblico, del perdono – il perdono come atto performativo – , il loro comune nucleo etico è rappresentato dal problema della perdonabilità o imperdonabilità di quel male che la filosofia tende ormai a identificare come l’evento centrale o il rovescio negativo del moderno, come una sorta di buco nero con cui è obbligata a fare i conti: il male di Auschwitz (cfr., sempre di B. Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz, Quodlibet, Macerata 2006). L’esperienza di Auschwitz, nella sua eccezionalità de-soggettivante, nella sua inesplicabile fattualità, appare totalmente estranea ad ogni forma di esclusivismo dialogico, ma anche di chiusura o ripiegamento del pensiero sul proprio oggetto; si presenta anzi come immenso territorio desertico su cui mettere alla prova la possibilità stessa di tradurre il male in linguaggio. Nello stesso tempo, essa costituisce il punto di rottura del politico, il luogo in cui le sue categorie vengono costrette ad una severa riforma, aprendo così il pensiero alla questione extra- o meta-giuridica del perdono: il fatto stesso che la Sho’ah sia stata il primo ‘male’ ad essere rubricato nella categoria di ‘crimine contro l’umanità’, impone alla filosofia politica di interrogarsi in modo radicale sulla distinzione tra imprescrittibilità giuridica e (im)perdonabilità etica. Che cos’è il male perpetrato ad Auschwitz, e dunque cosa sono i mali che noi indichiamo con il termine di ‘crimine contro l’umanità’, intendendo con ciò il paradosso per cui nessuna corte di giustizia li può prescrivere, ma solo il singolo individuo (nessun governo e nessun ministro di Dio) li può perdonare? Essi sembrano essere l’esperienza universalmente individualizzante dell’azione malvagia, che ogni essere umano può fare o subire, indipendentemente dalla sua cultura e dal contesto socio-politico in cui si trova immerso (cfr. ad esempio il razzismo trasversale del nazismo e dell’apartheid in Sudafrica, cfr. p. 63); e sembra che soltanto se viene tradotta in linguaggio, quest’esperienza può dischiudere l’altra, eminentemente linguistica e misteriosamente performativa, del ‘tollere’: cancellare l’azione malvagia rivolgendosi individualmente al suo attore – perdonando la prima senza con ciò potere o voler redimere il secondo. È proprio in questa doppia negazione: fare il male senza esserlo – cioè sottraendogli per ciò stesso ogni peso ontologico; e d’altra parte perdonare il male ‘follemente’ al di là del bene (cfr. p. 17; 75), senza cioè annullare, compensare o ridimensionare con un surplus di bontà la malvagità dell’agente, che si gioca, a mio avviso, la portata politica oltre che filosofica del libro qui recensito. Anche perchè il gioco si svolge sempre e necessariamente, sia in Moroncini che in Derrida, sul piano extra-politico, ma non per questo impolitico, del linguaggio speculativo. Che il male non sia semplicemente un fatto, ma un terribile effetto di linguaggio che nulla toglie alla sua agostiniana inconsistenza ontologica, è l’assunto da cui Moroncini parte convocando nel suo testo altri due autori che hanno smontato, con spirito profondamente affine a quello di Derrida, il politico moderno, rispettivamente prima e dopo Auschwitz: Walter Benjamin e Hanna Arendt. È importante sottolineare che tutti e tre si muovono entro un orizzonte squisitamente ebraico: per un ebreo la redenzione, in quanto piena esperienza del bene, non è affatto derogabile – men che meno traducibile – nell’aldilà, ma solo attesa nell’al di qua: nei termini di Derrida, esperienza dell’ad-venire. Mentre in quanto perdono, se pure riesce ad interrompere per un istante (Jetztzeit, nei termini di Benjamin) la catena delle vendette (la biblica legge del taglione), la redenzione non appare affatto legata all’esperienza metamorfica (tutta cristiana) del pentimento, bensì a quella del ristabilimento della perfezione originaria (in ebraico tiqqùn). Di conseguenza, il male non è oggetto di una trasformazione morale o di una purificazione linguistica ottenuta aposteriori mediante il sacrificio, ma – ad esempio per il giovane Benjamin – costituisce un’altrettanto originaria, radicale perversione della lingua in cui l’uomo comunicava se stesso e le cose a Dio. Più che la pluralità delle lingue, che dopo Babele impone la necessità della traduzione, il male è la superfluità della proliferazione dei significati, che, allontanando l’uomo dalla edenica nominazione del creato, lo riduce a cosa, cioè lo rende superfluo, preparando così quello sprofondamento del senso dell’agire politico che la Arendt ha visto all’opera nel nazismo. La modernità, in tale prospettiva, non è altro che imperdonabile ‘ciarla’: ipertrofia del linguaggio significante che impedisce all’uomo di esercitare la propria capacità redentiva, cioè di donare alle cose e a se stesso un nome. A questo peccato, concepito da Benjamin come perversione dello spirito linguistico, solo l’umile lavoro della traduzione può porre rimedio: se tradurre è redimere, redimere è perdonare. La possibilità di passare da una lingua all’altra si fonda su quella di liberare le cose e l’uomo stesso dalla catena dei rinvii – dalla banale superficie linguistica dei significati – e di restituire loro, anche solo per un attimo, la profondità del nome. Allo stesso modo, sul piano politico, Derrida suggerisce che non si tratta tanto di esercitare/elargire il perdono come riconciliazione effettuale: potenza sovrana e leviatanica che, narcisisticamente e/o collettivamente (ad esempio nella forma-stato), afferma se stessa come divinità terrena capace di umiliare ed abolire il male, riconciliando, cioè eguagliando e così non distinguendo più tra vittima e carnefice, attraverso la superiorità storica (per Benjamin, storicistica) del Bene; si tratta piuttosto di trovare il varco, autenticmente storico, attraverso cui sospendere l’espansione del male come ‘fungo’ – secondo la nota metafora che adoperò la Arendt per designare le coscienziose procedure di Adolf Eichmann, ma che potrebbe essere utilizzata per indicare, come in uno specchio, l’inesorabile macchia d’olio della vendetta. Si tratta infine, secondo il Derrida letto da Moroncini, di trovare un tempo residuo in cui far comunicare, nella loro irriducibile differenza, la vittima e il carnefice, i morti e i vivi, anche quando ormai nessuno dei due vuole o può cambiare l’altro. La natura linguistica del perdono, che Moroncini mutua da Derrida, si annuncia allora in un paradosso che porta il perdono stesso ai limiti estremi del linguaggio e della sua manifestazione ‘pubblica’ (politica); se infatti, da un lato, il carnefice può non chiedere pubblicamente perdono (come invece vorrebbero, per motivi opposti, gli altri due autori convocati da Moroncini sulla scia di Derrida, e cioè Paul Ricoeur e Vladimir Jankélevitch: il primo per far trionfare il Bene come Essere unico insieme all’etica cristiana della metànoia, il secondo per imporre quella ebraica dell’imperdonabilità della Sho’ah come unica possibile forma di vendetta), ebbene, se il malvagio può restar tale ed essere tuttavia perdonato; dall’altro lato, la vittima può trovarsi nell’impossibilità di perdonare (ad esempio perchè è ammutolita nella morte), e dunque la sua (im)possibile volontà di perdono deve venire affidata a (tradotta da) qualcuno in un tempo ad-venire. Ora, la domanda che il libro rivolge, implicitamente, al lettore, e il lettore al libro, è la seguente: è possibile ‘tradurre’ sul piano politico l’ineffettualità linguistica della redenzione e la volontà etica, irriducibilmente individuale e quindi, al limite, a-linguistica (o forse idiolettica, comunque tendenzialmente muta) del perdono? È cioè possibile indicare all’individualità delle vittime una traduzione pubblica, intersoggettiva, della loro sofferenza fattuale, oscuramente e disperatamente infra-linguistica? Esiste, insomma, una lingua del perdono? La risposta dev’essere forse cercata nello statuto infra-ontologico del male, che accomuna, pur se in una diversa declinazione del perdono, ebraismo e cristianesimo. La teodicea cristiana postula la necessità del dolore come prova e dunque la ‘finzione’ del perdono come misericordia divina: mero riflesso dell’inessenzialità del male – perchè il pentimento del colpevole ne cancellerebbe, superandolo, l’essere malefico (selgando l’atto dall’agente, secondo Ricoeur). D’altra parte, l’impossibilità ebraica del perdono (incarnata dalla posizione di Jankélevitch: cfr. il suo Perdonare?, La Giuntina, Firenze 1987), blocca ogni sortita etica al di là del male della Sho’ah: inchioda gli individui alla loro sofferenza senza permetterne una traduzione linguistica – l’unica in grado di redimerne la dolorosa sopravvivenza, di renderle giustizia; l’unica a poter ‘donare’ senso storico alla comunità dei vivi e dei morti. Secondo Moroncini, l’unica pratica più-che-umana (non a caso indicata da Benjamin come “collera di Dio”) capace di trasformare la semplice natura in più-che-vita (cfr. pp. 54-57). Tuttavia il male, da Agostino a Kant, è concepito dalla filosofia occidentale come meno, come non-essere: esso non è nè una cosa, nè un individuo (infatti non può essere nominato dalla lingua edenica), ma un’azione. È l’applicazione di una forza, il suo mero trasferimento da un punto ad un altro, ovvero il contrario di ogni traduzione linguistica. E proprio questo, invece di facilitarne il perdono (la traduzione, appunto), lo rende imperdonabile. Nello spirito (ebraico) della lingua, persino nel suo silenzio, si può perdonare la persona, ma non il factum; ci si può pentire, ma non si può annullare la propria azione. Si può provare la sublime tenerezza della bontà, ma non la si può applicare all’opacità infra-storica dell’atto, così come non si può trarre piacere dal vendicarsi. L’azione non sopravvive, dunque non esiste più: si sottrae alla lingua del perdono allo stesso modo in cui sfugge alla vendetta. Allo stesso modo, non si può perdonare o vendicare al posto di altri, forse neppure al posto dell’altro che si era quando si subiva il male. Questo principio iper-eracliteo (‘non ci si può bagnare neppure una volta nello stesso fiume’) smaschera certo ogni pretesa politica, istituzionale del perdono; impedisce e de-legittima ogni pratica di riconciliazione sovra-individuale (sacerdotale) che consiste nel concedere o addirittura nel chiedere perdono a qualcuno ‘in nome’ di qualcun altro; ma, al tempo stesso, il perdono impossibile impetrato da Derrida all’interno della lingua resta, e non può che restare sempre inferiore a quello di Dio: eticamente povero, oltre che extra-politico. Dopo Benjamin, e soprattutto dopo Auschwitz, Dio è soltanto un nome che l’uomo chiede, implora di poter tradurre nella propria Babele di lingue – di poter pronunciare con la propria singolarità precipitata nella storia. A loro volta, però, le azioni malvage scivolano sempre, come l’olio, al di sotto del perdono: cadono vischiosamente verso il basso, perchè il male che compiono è un’esperienza infra-linguistica e quindi imperdonabile dell’umano.
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