Il numero 0 della nuova rivista napoletana
L’espressione, interamente dedicato al tema della "guerre",
si segnala in particolare per la radicalità della prospettiva
con cui affronta una tematica ormai all’ordine del giorno della storia,
una radicalità sia filosofica che etico-politica che credo
potrà far discutere ma che di sicuro sarà un antidoto
efficace al ricorrente rischio della retorica banalizzante che oggi
si avverte, purtroppo anche a sinistra, su tale tematica.
Nell’introduzione, a "firma
collettiva" (Collettivo 33) è chiarito il compito filosofico
(e politico) che la rivista fa suo: combattere il nichilismo, sia
nella versione catastrofista che in quella caratterizzata dall’elogio
della finitezza, in chiave consolatoria e nichilistico-passiva. E
"nulla come la guerra esprime nei nostri tempi questo nichilismo
della finitudine" (p. 9). Per contrastare gli effetti disastrosi
della guerra, allora, non basta la condanna morale, ma c’è
bisogno di attivare la "potenza affermativa del pensiero":
si deve innanzitutto poter "fare differenza fra la guerra e questa
guerra, fra la guerra in generale, se mai esiste, e questa guerra
particolare, posto che sia ancora una guerra e non si sia trasformata
in qualcosa d’altro che non sappiamo ancora nominare né pensare"
(ivi); in secondo luogo si deve poter pensare alla guerra come
espressione invertita e reattiva di forze che, contraddicendo la logica
leviatanica degli stati (la guerra, infatti, non è la prosecuzione
della politica con altri mezzi), possano generare processi, non necessariamente
cruenti, di emancipazione e di liberazione.
Il primo saggio di Maurizio Zanardi
(Il collettivo e l’espressione) è una riflessione sui
rapporti tra l’evento storico, l’evento-tyche (le guerre nell’epoca
della mondializzazione) e la nascita di un collettivo e di una rivista,
questa, intesa come forma con cui si tenta di (cor)rispondere a quell’evento.
Di fronte alla radicalità di un evento che ti coglie
alla sprovvista e ti sceglie, l’unico atteggiamento morale
e politico possibile deve essere per forza di cose radicale.
Nessuna mediazione, nessun moderatismo è giusto rispetto
a ciò che culturalmente ti dis-loca, sconvolgendo ogni tuo
programma, rispetto a ciò che sfugge alle categorie interpretative
già acquisite. Secondo Zanardi, trarre le estreme conseguenze
dall’evento-fortuna, significa, per il pensiero, accogliere l’accadimento
dell’impossibile (di ciò che non era annoverato nell’ambito
del possibile). L’evento, infatti, si può solo subire: "irrelato,
incalcolabile e straniero, l’evento è un incidente, un trauma
che non può essere né prodotto né decostruito"
(p. 21); ma la forza dell’evento ha bisogno di essere affermata, espressa
e "il collettivo è un darsi la voce, una convocazione,
affinché la fortuna non venga invano" (p. 28).
Il saggio di Alain Badiou (La
filosofia e l’11 settembre) si sofferma, invece, sulla relazione
tra terrorismo e guerra. Dopo aver chiarito come il termine "terrorismo"
sia un concetto vuoto, formale, che non designa un orientamento politico
ma solo la forma dell’azione non statale che si caratterizza per la
sua spettacolarità, per la sua violenza e per il suo non far
distinzione tra civili e militari, Badiou sottolinea come la guerra
contro il terrorismo, lunga e dura, sia "il simmetrico, anch’esso
interamente formale, della vaghissima parola terrorismo" (p.
46). Nel passato quando i governi dichiaravano di voler sradicare
il terrorismo evitavano accuratamente di parlare di guerra: "come
in effetti dichiarare guerra a qualche civile traviato, a qualche
fanatico che mette bombe, a una banda di anarchici?" (ivi). Perché
ora gli USA parlano di guerra? La tesi del filosofo francese è
che "la potenza americana ha di sé una rappresentazione
in cui la guerra è la forma privilegiata o addirittura unica
di attestazione della propria esistenza" (p. 47). Riprendendo
un concetto di Deleuze, Badiou dice che il terrorismo dell’11 settembre
e la guerra che vi si oppone "costituiscono la testimonianza
de la sintesi disgiuntiva di due nichilismi" (p. 50);
c’è sintesi perché "gli attori che si fronteggiano
sono della stessa specie, poiché appartengono "allo stesso
mondo, quello nichilista del danaro, della potenza cieca, della rivalità
cinica, dell’oro nascosto delle materie prime, del disprezzo totale
della vita comune della gente, dell’arroganza di una certezza di sé
fondata sul vuoto" (p. 50); c’è disgiunzione perché
"è inevitabilmente nella forma del crimine che questi
attori si cercano e si trovano" (ivi). Infatti, "proprio
come il crimine di New York, la guerra americana è svincolata
da ogni diritto, indifferente a ogni progetto" (p. 52). La filosofia
"ha allora il compito di accogliere nel pensiero tutto ciò
che si regge al di fuori di questa sintesi", ma per farlo deve
rompere definitivamente con il motivo nichilista della finitudine
"che è la forma discreta attraverso la quale il pensiero
si piega in anticipo alla modestia che le ingiunge di conservare,
in ogni circostanza, il feroce nichilismo contemporaneo" (p.
54).
Jean-Luc-Nancy, nel suo breve ma
denso articolo, parte da una considerazione lapidaria:
"dopo l’11 settembre una cosa è ormai chiara: il mondo
si dilania intorno a una divisione intollerabile della ricchezza e
del potere" (p. 55); intollerabile perché il mondo
della tecno-scienza fa apparire intollerabile qualunque ierarchia,
destituisce di fondamento qualunque tentativo di sacralizzazione del
principio del potere. Secondo Nancy, il nostro è, infatti,
il mondo dell’uguaglianza fondata sull’equivalente generale
(denaro), prodotta dal dominio universale del valore di scambio;
in esso possono esserci solo sfruttatori e sfruttati, dominanti e
dominati, ma senza alcuna giustificazione gerarchica. Per tale
motivo tali divisioni appaiono intollerabili. Contro tale uguaglianza
(che implica enormi disuguaglianze, ma, al contempo, le rende
ancor più intollerabili) bisognerebbe far valere, a parere
di Nancy, un’altra gerarchia, "senza corona né tiara",
ma fondata sull’incommensurabilità dell’esistente singolare,
sulla parità di grandezze singolari e incommensurabili.
Tuttavia, oggi, il mondo, unificato dall’equivalente generale,
appare violentemente contrastato da un’altra potenza unificante,
che è un parto e una parte dello stesso Occidente, vale a dire
il fondamentalismo islamico che, all’immobilizzazione prodotta dal
capitale mondializzato, oppone una mobilitazione in nome di un dio
Unico. Ciò nondimeno, l’universalità totalizzante
del capitalismo, così come il monoteismo fondamentalista,
sono "due facce, una di fronte all’altra, dell’identico Unico,
nel momento in cui l’Unicità di Dio viene intesa come Presenza
assoluta" (p. 56). Si tratta, in sostanza, di uno scontro nichilista
interno all’Uno.
Per Daniel Bensaïd (Dio,
come sono sante queste guerre!) gli attentati dell11 settembre
sono da condannare sia moralmente, per le vittime che hanno fatto,
sia politicamente, per aver dato l’occasione all’amministrazione americana
di riunire dietro la loro bandiera "una colazione reazionaria
senza precedenti su scala planetaria" utilizzata per disegnare
a proprio favore il nuovo ordine imperiale dopo la Guerra Fredda.
La guerra infinita proclamata da Bush, afferma Bensaïd, è
il punto di arrivo e di crisi di un’evoluzione del concetto e della
prassi bellica che inizia con la Rivoluzione Francese. Quest’ultima
segna il passaggio dalla guerra settecentesca di manovra, lenta e
lunga, alla guerra nazionale massiccia e breve. Tuttavia la
guerra nazionale non tarda a diventare guerra totale e ad oltranza,
guerra in cui sfuma la distinzione tra civili e militari. Il culmine
di tale evoluzione si ha con il terrorismo di Stato rivelato e inaugurato
dalla bomba di Hiroshima. Tuttavia, la scomparsa dell’URSS e l’accelerazione
della mondializzazione ha finito per indebolire gli Stati-nazione
che detenevano il monopolio della "violenza organizzata",
favorendo la privatizzazione, la disseminazione e la frantumazione
della violenza che sembra oggi realizzare una sorta di "guerra
civile senza frontiere". La guerra infinita che gli Usa hanno
iniziato a combattere è, anche quando sembra essere contro
degli Stati, una guerra contro un nemico senza volto, una guerra che
sarà essa stessa in buona parte senza volto, segreta, e senza
esclusione di colpi.
Il saggio di Bruno Moroncini (Il
dono della guerra), il più ampio e teoreticamente radicale
che appare nella rivista, riprendendo alcune analisi di Dumézil
e di Deleuze e Guattari, si interroga su cosa sia il desiderio
e l’urgenza della guerra. La risposta è che tale desiderio
(tale imperativo) ordina e si augura la rottura del legame sociale,
di ogni comunità "organica" e di ogni struttura gerarchica
"fino a produrre una molteplicità di cose singolari a
tal punto sparpagliate e disseminate da non poter mai più esser
ricondotte ad unità" (p.75). La tesi è che, nonostante
le guerre siano innanzitutto e per lo più assimilate all’attività
di Stati, l’essenza della guerra consista nel desiderio/imperativo
di sciogliere il legame sociale e di tradire il patto politico istitutivo
della compagine statuale. Come hanno ben visto Deleuze e Guattari,
il guerriero è una "macchina da guerra" che
continuamente mette in discussione la gerarchia. Ne consegue, tuttavia,
non solo che la guerra, in tal senso intesa, non debba essere necessariamente
cruenta, ma anche (e soprattutto) che "le guerre vere e proprie
sarebbero solo le guerre popolari e rivoluzionarie, le guerre di liberazione"
(p. 78), tese a creare nuovi rapporti sociali non-organici. A tali
guerre di liberazione sembra opporsi la contemporanea forma della
guerra capitalistica, il cui nichilismo fine a se stesso genera "deserto
dentro e fuori, nel soggetto e nel mondo" (p. 81). Tuttavia il
capitalismo, suggerisce Moroncini, ha cambiato in modo così
radicale lo statuto della guerra che "la guerra di liberazione
e rivoluzionaria non necessariamente tenderà a scontrarsi con
le leggi del capitalismo, ma molto spesso sarà parallela alla
loro messa in atto e in certi casi […] ne risulterà totalmente
indiscernibile" (ivi). Le guerre del capitale, infatti, tendono
ad essere guerre totali di annientamento e distruzione anche perché
sono "immensi investimenti di plusvalore non riutilizzabile dal
sistema economico complessivo se non sotto forma di dispendio di uomini
e cose" (p. 82). Esse sono pertanto guerre totali, che sfuggono
al calcolo razionale e politico, e guerre incondizionate, in
quanto ognuna di esse "si pensa anche come l’ultima guerra, come
la guerra capace di metter fine ad ogni guerra, come la guerra che
la guerra fa alla guerra e che quindi lavora per la pace" (p.
83). È questo il lato idealistico di tali guerre, nel
senso che ognuna di esse tende a pensarsi come guerra ideale,
che realizza kantianamente, in un’unica guerra, l’idea della
guerra (che, sempre kantianamente, come è noto, è un
concetto della ragione cui non può corrispondere alcun oggetto
d’esperienza). Tuttavia, per raggiungere il suo scopo, la guerra ideale,
in quanto ultima guerra, dovrebbe portare la guerra a tutto l’esistente
e, quindi, annichilendolo, dovrebbe annichilire anche il suo stesso
scopo. La questione allora, secondo Moroncini, riguarderà l’etica
e la politica che siano capaci di essere all’altezza dell’orrore che
una tale guerra mette in campo. Detto diversamente, come agire per
far emergere in tali guerre incondizionate "il fulgore, non necessariamente
sanguinoso, della macchina da guerra di liberazione e rivoluzionaria"
(pp. 98-99)? Moroncini ritiene che una risposta credibile si possa
ritrovare nelle pagine conclusive della Part maudite di Georges
Bataille, laddove il filosofo francese rifletteva sull’economia americana
intesa come "la più grande massa esplosiva che sia mai
esistita al mondo", sottolineando come, se "tale economia
[sia] risultata all’altezza di due guerre [mondiali]", "nel
proseguimento del suo movimento di crescita, quale improvviso sortilegio
l’avrebbe trasformata in un’economia di pace?" (p. 101). Ma concludeva
affermando che "se è vero che mal si vede come gli Stati
Uniti possano prosperare senza l’aiuto di una ecatombe di ricchezza,
sotto forma di aerei, di bombe e di altri equipaggiamenti militari,
si può immaginare un’ecatombe equivalente consacrata ad opere
non cruente; […] si può preveder anche una vasta competizione
economica che costerebbe a chi ne prendesse l’iniziativa sacrifici
paragonabili a quelli delle guerre, e che fonderebbe su un bilancio
della stessa natura che i bilanci di guerra, un dispendio non compensato
da nessuna speranza di profitto capitalista" (pp. 101-102). Quindi,
commenta in conclusione Moroncini, l’unica risposta etico-politica
che sia all’altezza delle guerre del capitale sarebbe quella che le
trasformasse "in una dépense cosciente e volontaria,
in un potlac senza riserve e senza resto" (p. 102). Perché,
come affermava Bataille, "quell’eccedente energetico che non
viene distribuito in doni fatalmente lo sarà sotto forma di
bombe" (ivi).
Per Antonella Moscati (L’esercizio
della morte. Dopo l’11 settembre) il terrorismo, dopo l’11 settembre,
è divenuto uno schema prefabbricato, un grande pregiudizio
con il quale si rende a priori omogeneo ciò che non lo è:
"ormai si chiama terrorismo ogni forma di violenza che non sia
quella di coloro di cui si ritiene che ne abbiano il legittimo monopolio"
(p. 104). D’altro canto la sicurezza è divenuta ormai
l’unica parola d’ordine dei governi, cosa che sta mettendo seriamente
in pericolo la stessa sopravvivenza della democrazia. Moscati riflette
sulle contraddizioni del biopotere, studiato da Foucault, che da un
lato, secondo la sua essenza, tende a regolare e a salvaguardare la
vita della popolazione in tutti i modi possibili, dall’altro, attraverso
la forma del "razzismo di stato", impone la guerra e porta
la morte. Il razzismo di stato (per cui ogni stato tende a salvaguardare
e a regolare la vita della sua popolazione anche a danno delle altre)
è la forma grazie a cui il biopotere si mantiene e si trasforma
tra Ottocento e Novecento, creando cesure e frammentazioni nel continuum
biologico della specie, giungendo a concepire la morte "degli
altri" come una condizione non solo della propria vita ma anche
del suo miglioramento. C’è, quindi, secondo Moscati, una morte
che è del tutto funzionale al biopotere, che è non solo
quella che si è manifestata nei massacri delle "razze
inferiori e cattive" (è il caso del nazismo) ma è
anche la morte "che nasce dall’esclusione e dalla dimenticanza,
la morte, ad esempio, così come essa si presenta nei paesi
lasciati morire dagli embarghi o dai prezzi troppo alti dei farmaci
contro l’Aids" (p. 109). Tuttavia, nell’attentato alle due torri
si è manifestata un’altra modalità di morte, assolutamente
inaccettabile dal punto di vista del biopotere occidentale: la morte
degli attentatori suicidi. L’attentatore suicida è, infatti,
"uno che, nella morte e con la morte, crede di poter restituire
alla vita tutta la sua potenza, tutta la potenza che le è stata
tolta" (ivi). Tale immagine della morte sembra avere un effetto
devastante sull’immaginario occidentale, anche se l’attentato suicida
non fa alcuna strage, tanto da sostanziare il pregiudizio sul terrorismo
e giustificare la riduzione delle garanzie democratiche. Ci troviamo
forse di fronte ad una crisi del progetto biopolitico o semplicemente
di fronte ad un sua battuta d’arresto?
Nel suo intervento Angela Putino
(Una nota sulla biopolitica), rifacendosi come Moscati alla
teoria biopolitca di Foucault, articola la tesi secondo cui da un
lato "l’homo oeconomicus è l’apice della biopolitica",
segnandone una nuova tappa evolutiva, dall’altro la guerra, conseguentemente,
è espressione di una tendenza immunitaria attraverso cui l’homo
oeconomicus si protegge da ciò che potrebbe metter in pericolo
il suo privilegio.
Arriviamo, quindi, a prendere in
considerazione il saggio di Carlo Formenti, uno dei più acuti
studiosi italiani del fenomeno Internet, che propone un punto di vista
di notevole interesse. Il suo intervento (Totalità e infinito.
Scenari della guerra fra sistemi aperti e sistemi chiusi), attraverso
un’intelligente rilettura dell’opposizione concettuale levinasiana
tra totalità e infinito, cerca di delineare il
conflitto tra logica totalizzante (inglobante e difensivo/immunizzante)
e logica infinitizzante (aperta agli attraversamenti dell’Altro) all’interno
della galassia Internet. Il conflitto tra una logica della totalità
e una dell’infinito, presente nella cultura europea a partire dal
Cinquecento, dall’epoca della Riforma e dell’inizio della globalizzazione
dei mercati, ha trovato storicamente il suo luogo proprio sull’altra
riva dell’Atlantico, nell’America delle derive settarie e anarchiche
ma anche dello sterminio dei nativi, nonché dell’esplosione
del capitalismo senza regole. La storia degli Usa è fatta,
infatti, sia dal sogno nomadico della continua secessione, del "movimento
centrifugo delle monadi che rifiutano la sovranità del Leviatano"
(p. 131) (le figure dell’infinito), sia dalle ricorrenti tensioni
totalizzanti e implosive che, specie a partire da fine Ottocento,
hanno fatto sì che la dinamica espansiva della società
americana, raggiunto il "muro del Pacifico", si ricolleghi
alla politica dello Stato e tenti di imporre, anche attraverso la
guerra, il suo dominio sulla vecchia Europa e sul mondo (le figure
della totalità), sia infine dalla dinamica espansiva di
un capitalismo senza regole (le figure della "cattiva infinità").
L’America è tutte e tre queste figure, nelle loro ibridazioni
e nei loro conflitti. Arriviamo, quindi, al fenomeno della Rete. Se
in Internet, secondo Formenti, le figure della totalità hanno
sempre avuto scarso peso, interessante è piuttosto l’analisi
dell’evoluzione dei rapporti tra le figure dell’infinito (infinito
e falso infinito), vale a dire tra l’anarco-capitalismo della net-economy
e il "nomadismo desiderante" delle comunità virtuali,
delle comunità di hackers e di sviluppatori di software open
source. Secondo Formenti, "il sogno di una convivenza pacifica
fra nomadismo desiderante e narcocapitalismo, caratterizzato da un
riequilibrio dei rapporti di forza a favore del primo, attraversa
tutti gli anni ‘90" (p. 138), in cui rivive la saga dell’american
dream: "eretici e utopisti non tornano solo a disporre di
vie di fuga: ora i loro deliri e le loro visioni trovano spazio nel
cuore stesso del mercato" (pp.138-139). Certamente ciò
è accaduto anche grazie all’idea speculativa che prima o poi
l’abbondanza virtuale si sarebbe trasformata in profitto reale. Ma,
fino alla fine dello scorso secolo, l’idea che tutti, sia gli hackers
sia gli operatori della net-economy, potessero giocare e vincere il
loro gioco, sembrava non solo prevalere ma anche prospettare "l’ombra
di una globalizzazione ‘dolce’" che avrebbe consentito "una
distribuzione universale dei benefici delle nuove tecnologie"
(p. 139). Ad un certo punto, nei primi due anni del terzo millennio,
tale sogno viene meno di colpo "sotto le macerie di un duplice
crollo: quello dei titoli tecnologici prima e quello delle Twin Towers
poi" (p. 140). Questo secondo crollo ha poi "riportato al
centro della scena la figura della totalità". L’America
della net-economy e delle libertà democratiche "scopre
di colpo, e in modo scioccante, di essere parte dello spazio globale
che lei stessa ha costruito" (p. 142). Del resto i sistemi economici
"aperti" sono anche fragili ed "esposti a sfide, attacchi
e sabotaggi dai quali non possono difendersi se non al rischio di
rinunciare alle proprie caratteristiche" (p. 143). L’attacco
alle Twin Towers, che avrebbe richiesto una risposta di ben altro
tenore, ha colto gli Usa "mentre avevano appena eletto colui
che è probabilmente il peggior presidente da un secolo a questa
parte" (ivi) ed espressione degli interessi della parte più
retriva della Vecchia Economia e della Deep America cristiano-integralista.
La risposta americana assume, quindi, le caratteristiche "di
una brutale estensione della sovranità delo stato-nazione americano
sul resto del pianeta" (p. 145). E l’attacco che è stato
scatenato alla cultura libertaria della Rete non è stato da
meno, come dimostra il Digital Millenium Copyright Act. Secondo
Formenti, la posta in gioco è la colonizzazione capitalistica
della Rete, attraverso "quel disciplinamento di utenti e consumatori
che le leggi del mercato non sembrano in grado di realizzare"
(p. 146). Tutto ciò ci fa comprendere come "la guerra
con cui è cominciato il terzo millennio non è semplicemente
una guerra al terrorismo, bensì l’inizio di una lunga battaglia
fra sistemi aperti e sistemi chiusi, fra Totalità e Infinito"
(p. 148).
Gabriele Frasca, nell’articolo conclusivo
della rivista (Il dolce stil no. Per un’arte degenerata e denaturata),
propone un’acuta riflessione sullo statuto dell’arte nella società
contemporanea, in cui la rete simbolica che ricopre il mondo "diviene
piuttosto pellicola" (p. 149) tanto aderente alla realtà
da "colmarla", eliminandone ogni vuoto, ogni iato, ogni
pausa, ogni silenzio. Ciò che in tal modo si manifesta è,
secondo Frasca, il "niente-tace" che, pervasivo, sostanzia
"la via patria e imperialista alle tecnologie dell’informazione"
(p. 150). Il niente-tace dice e ridice: "tu stai qui"
e, dicendolo, riporta all’uno, all’unità, ciò
che, nel parlare è sempre uno e due, l’uno e l’altro.
Ma, "se il niente-tace è perché il niente ci legge"
(ivi), allora, "per lacerare la pellicola, tornare liberi alla
morte che promette la vita, occorre espellersi la lettera […] far
saltare il vincolo […] ritrovare il luogo in cui è stata inferta
la lettera" (p. 154) fino forse, per chi sente la propria vita
come costretta in "un budello di salsiccia", a "esplodere
con tutto il proprio corpo, o trascinarlo sofferente per ostenderlo
morente lungo le polverose strade imperiali" (p. 154). È,
quest’ultima, la soluzione scelta dagli attentatori suicidi: morte
barattata con la morte. Ma, secondo Frasca, "uno per uno […]
gli emisferi del Sacro Romano Emporio fanno comunque sempre uno".
Allora, "se vi è un compito per una politica dell’emancipazione
(Collettivo 33), questo da sempre è quello di inoculare nell’uno
della macchina stativa l’agente patogeno del due" (p.
155). È quanto ha spesso fatto l’arte, magari malgrado se stessa,
inscenando la presunta "resurrezione del figlio dell’uomo […]
senza chiederne in cambio la morte (senza porsi a fondamento
né dell’Imperatore, che chiede i suoi martiri, né dell’emporio,
che invece li fa)" (p. 156). L’arte insegna la denaturazione,
è snaturante e disumana, "si sottrae al flusso informativo
(uniformativo), impone pause in cui far srotolare a vuoto il nastro"
(p. 157). Il suo è un dolce stil no che "reseca
l’uno"; e infatti, afferma Frasca, la "formula metastabile
dell’arte […] da tempo è: x-1 (moltiplicare il sottrarsi all’uno)"
(ivi).
Vincenzo Cuomo
Indice:
Collettivo 33, La filosofia come affermazione
infinita
Maurizio Zanardi, Il collettivo e l’espressione
Alain Badiou, La filosofia e l’11 settembre
Jean-Luc Nancy, Dell’Uno e della gerarchia
Daniel Bensaïd, Dio, come sono sante queste
guerre!
Bruno Moroncini, Il dono della guerra
Antonella Moscati, L’esercizio della morte. Dopo
l’11 settembre
Angela Putino, Una nota sulla biopolitica
Carlo Formenti, Totalità e infinito (Scenari
della guerra fra sistemi aperti e sistemi chiusi)
Gabriela Frasca, Il dolce stil no (Per un’arte
degenerata e denaturata)
BUONE NOTIZIE
Gioia Costa, Carmelo Bene, o dell’abbandono