Hannah
Arendt, Percorsi di ricerca tra passato e futuro. 1975-2005,
Il futuro è, nella nota immagine benjaminiana cara alla Arendt, il luogo verso cui l’angelo della storia volta le spalle. È la forza a cui caparbiamente cerca di opporsi per poter aprire le ali. Mentre il passato è il luogo verso cui è costantemente rivolto e da cui tuttavia tenta di allontanarsi provando a vincere la resistenza di ciò che lo riporta indietro. Proprio l’intreccio tra il passato, il senso e la riscoperta della politica greca, e il futuro, l’attualità delle sue analisi e del suo modo di intendere il rapporto tra filosofia e politica, è il filo conduttore del volume dedicato ad Hannah Arendt a trent’anni dalla morte. Cercando di sfuggire alla doppia impasse della commemorazione dell’opera e del resoconto dello stato degli studi, il volume si propone di privilegiare un approccio critico, una rilettura e una ripresa di temi e problemi ancora aperti. Del resto, la stessa Arendt sottolineava che per onorare un pensiero e per mantenerlo in vita bisogna collocarsi in una posizione critica. Ma come viene affrontato questo compito critico? È sempre difficile trovare una prospettiva unitaria in un volume collettivo, e di conseguenza è pressoché impossibile definire, in modo univoco, il senso da attribuire al termine critica. La varietà degli interventi, il fatto che visibilmente non sono stati raccolti per nuclei tematici, per un verso dà al lettore la sensazione di smarrirsi in una pluralità di interpretazioni, per l’altro però accresce l’effetto che intenzionalmente i curatori del volume hanno voluto dare alla raccolta, cioè materializzare la vitalità di una riflessione teorica e le possibilità di metterla in discussione. Forse questa è la prima accezione nella quale si può intendere il termine critica, cioè la scelta di collocarsi nello spazio frammentato di un pensiero in corso, piuttosto che nella rassicurante unità dell’opera. Il volume si apre proprio all’insegna dell’incompiutezza. Il pensiero della Arendt ha le caratteristiche di una eredità incompiuta, non solo per la forma molteplice (articolo, saggio, libro, conferenza, lezione) in cui esso si presenta ma principalmente perché mantiene il carattere di una continua apertura (L. Boella). La non unitarietà e la passione per il frammento è, del resto, non solo l’elemento che sostiene l’operazione teorica di ‘detotalizzazione’, cioè lo smantellamento della tradizione ininterrotta della metafisica dell’Uno, ma anche l’elemento che, mettendo al riparo la politica dalla radice nichilistica che vi si annida, permette di pensarla all’insegna di una ri-nascita (F. Collin). In modo molto generico e di conseguenza adottando il criterio più comprensivo possibile, si può dire che il termine critica va inteso in senso kantiano, di misura dei limiti e delle possibilità, non della ragione, ma di un pensiero. Limiti e possibilità, ancora una volta misurati sul registro del passato e del futuro. Misurare il rapporto con il passato significa da un lato ripensare la ripresa del modello della polis greca al di là di ogni nostalgia (E. Antonini) ma anche mettere in evidenza che in questo ritorno alla politeia è presente un lato oscuro, un elemento di inevitabile distacco dal mondo greco, cioè la difficoltà incontrata dalla Arendt, comune a tutta la tradizione politica occidentale, a pensare la guerra (A. Dal Lago). Questo legame con il passato viene declinato anche riscoprendo il rapporto della Arendt non solo con la tradizione del pensiero moderno ma anche con quello medievale alla ricerca delle origini non compromesse della filosofia (M. Forcina). All’interno di questo cammino a ritroso trovano posto anche interventi di carattere più storico-filologico, da un lato la ricostruzione del rapporto tra la Arendt e la rivista «Tempo presente» (G. Magni) e dall’altro l’analisi delle relazioni che legano l’opera sul totalitarismo alle discussioni che nascono intorno alla rivista «Politics» a partire dagli anni ’40 (P. Adamo). Un posto a sé nella ricerca delle radici del pensiero arendtiano è riservato al legame con l’ebraicità. Attribuire un senso politico all’essere ebreo, all’indomani della fondazione dello stato di Israele, porta la Arendt ad un’aspra critica sia nei confronti della soluzione dei sionisti sia verso quella degli assimilazionisti, denunciandone l’utopia e auspicando una costituzione dell’identità politica non per negatio e soprattutto post-nazionalistica (E. de Conciliis). Sotto quest’ultimo punto di vista, il pensiero della Arendt sulla costituzione plurale della sfera pubblica offre l’occasione di riflettere sulla trasformazione dello spazio politico in un’era globale (P. Vernaglione). Ma l’aspetto critico coincide anche con l’analisi dei limiti di un pensiero, uno dei quali è individuabile nel modo in cui la Arendt struttura la sua antropologia, intorno alle tre modalità di lavoro, opera e azione. All’origine della sua visione ci sarebbe una lettura troppo riduttiva della filosofia e dell’economia di Marx. Uno degli effetti di questo misconoscimento è l’idea che il lavoro è solo un ciclo ininterrotto di consumo-produzione-consumo, da cui è esclusa qualsiasi possibilità di felicità e di soddisfazione. Il riconosciuto carattere antipolitico del lavoro e la lettura ‘naturalistica’ della società sembrano collocare la proposta politica della Arendt in uno spazio irrimediabilmente utopico (F. Andolfi). Sul polo opposto, non quello del lavoro ma quello dell’azione, l’antropologia arendtiana diventa motivo di un confronto con l’opera di Gehlen, anch’egli convinto sostenitore che l’azione è il carattere distintivo dell’umano. Confrontando le posizioni di questi due autori è possibile ritrovare al di là delle differenze, una comune volontà di radicare l’umanità dell’uomo nella sua costituzione antropologica (M. T. Pansera). Nonostante i suoi limiti, però, l’analisi antropologica arendtiana rivela una radice rigorosamente filosofica ed una intenzione decostruttiva. Essa, infatti, mira allo smontaggio della figura del soggetto-sostanza dell’ontologia classica. Questo aspetto è evidenziato attraverso un tema particolare e poco toccato dagli interpeti del suo pensiero, quello di una critica della vita intima. Nome proprio e negazione del nome si intrecciano così in un percorso volto a mettere in evidenza i passaggi dal intimo mondo del cuore alla costituzione plurale mondo (R. Viti Cavaliere). Parlare di un legame con il futuro significa, invece, misurare il pensiero della Arendt non tanto rispetto alla sua attuabilità quanto rispetto alle possibilità di pensare l’agire politico, che esso ci offre. Una di queste è la ripresa del tema della philia, come risorsa politica, come modo di vedere il mondo con gli occhi dell’altro, la cui origine viene fatta risalire alla filosofia e alla figura di Socrate, che molta importanza ha avuto nella riflessione arendtiana (A. Meccariello). Ma la capacità di collocarsi al posto dell’altro, viene analizzata anche scandagliando la radice schilleriana del giudizio estetico riflettente, sul quale la Arendt radica la possibilità di costituire un mondo comune (T. Serra). Il libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto sul quale viene fondata, a partire da Kant, la possibilità del giudizio estetico di gusto e la sua comunicabilità, diventa anche uno spunto di riflessione in chiave pedagogica. Questo approccio offre l’occasione per poter leggere, percorrendo vari testi dell’autrice, il tema dell’educazione come azione e come opera, facendolo diventare un cardine per pensare una nuova politica della responsabilità (M. Durst). Dunque, quale risposta dare alla domanda che apre il volume – «che cosa di un pensiero può essere salvato per l’oggi e che cosa dell’oggi può essere salvato dal pensiero?». Di un pensiero costantemente alla ricerca delle ragioni di un mondo comune, può e deve essere salvata l’infaticabile operazione di smontaggio della tradizione politico-filosofica occidentale e la critica a tutto un apparato di concetti politici in cui è operativa una radicale volontà di nulla. Per contro, proprio la volontà di mondo, la passione per l’alterità e il riconoscimento della differenza, è ciò che questo pensiero offre al mondo d’oggi per poterlo pensare in un altro modo. Resta tra gli altri, solo un dubbio o un sospetto, che gli strumenti concettuali utilizzati dalla Arendt e il suo metodo, sono forse troppo indebitati con la tradizione filosofica classica, sono forse troppo all’interno della sua antropologia, per potere essere veramente operativi e liberatori, in un mondo che da tempo ha cominciato a funzionare senza nomi propri.
(recensione di Antonella Cutro)
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