Eleonora de Conciliis, Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di soggettivazione Napoli, Filema edizioni, 2006, ISBN 88-86358-82-2, € 18,00
Il soggetto o è un “lusso”, un lusso “differenziale”, oppure non è, non è “soggetto”. D’altra parte il soggetto è sempre solo un prodotto di “processi di soggettivazione”. È un risultato e non un’origine. È il risultato di processi “comparativi”, è il prodotto di un attivo confronto-scontro con gli “altri”. Tutta la storia dell’Occidente potrebbe essere pensata come storia di reiterati tentativi di costruzione del “soggetto”, come la storia delle “genealogie” della “soggettività”, vale a dire come la storia, discontinua, dei processi di produzione, “dal basso”, dal conflitto comparativo, del “soggetto”. Descrivere come ciò sia avvenuto, come la civilizzazione occidentale sia stata caratterizzata da ripetute e difformi strategie di produzione di soggettività, a partire dalla realtà della “comparazione”, sempre dissimetrica, con l’altro, è lo scopo che Eleonora de Conciliis si prefigge in questo ampio e complesso volume. Nella cultura occidentale, ella argomenta, «in forme diverse e a seconda delle epoche, alcuni individui sono riusciti a costituirsi come soggetti attraverso processi così intensi, raffinati e stratificati da richiedere, e parimenti produrre, un surplus di soggettivazione, un’eccellenza auto-costitutiva che chiameremo “lusso”» (p. 15). Il “lusso” è qui concepito come ciò che connota una ‘forma di vita’ che non trova ragion d’essere nella semplice vita biologica né in quella immediatamente legata alla soddisfazione dei bisogni primari. Ne consegue che tale forma superiore di vita, forse l’unica propriamente “umana”, sia stata riservata a pochi, sia stata esclusivo appannaggio di quelli che ne sono stati capaci (e che hanno avuto in sorte quelle privilegiate condizioni economiche indispensabili per provarci). O si è in condizioni di provare a soggettivarsi oppure si resta “assoggettati”, e, come gli “stolti”, senza saperlo (o credendo di non esserlo). Dal momento che “soggetti” non si nasce, per diventarlo è necessario “differenziarsi” dagli altri attraverso lunghe e laboriose strategie di comparazione. La produzione di sé – scrive de Conciliis – «costituisce un lusso comparativo – la profondità del soggetto, un privilegio differenziale» (p. 73). Il lusso, allora, consiste anche nell’oltrepassamento della stessa dinamica comparativa. I processi comparativi, infatti, non sono solo produttivi di “soggettività” ma anche, per così dire, di “stultitia” e di “assoggettamento”; vale a dire che sono universali. Attraverso il confronto comparativo (che può anche rovinare nello scontro aperto) si costruiscono tutti gli individui umani. Per tutti l’altro o è un modello da imitare – che, quindi, risulterà “superiore” – oppure è un non-modello da rifiutare e da escludere (vedi p. 35). Tuttavia, solo per alcuni questo processo, che resta inconsapevole per la maggioranza degli individui, è “saputo”, è consapevolmente assunto. E solo in quanto consapevolmente assunti, i processi differenziali di comparazione possono produrre “soggettività”, vale a dire quel surplus differenziale che, pur come risultato dalla comparazione, si manifesta, al contempo, come (provvisoria) redenzione – “qui ed ora” – da essa. Questa strada di (provvisoria) redenzione dal meccanismo della comparazione-differenziazione, strada che non nasce da un diniego della comparazione ma da una sua radicalizzazione lussuosa, è quella che, paradigmaticamente, troviamo praticata nell’antichità come vita filosofica. È il filosofo che è capace di costruirsi come “soggetto” attraverso il confronto con gli altri (incapaci di costruirsi). Costruirsi come soggetto ha significato nelle scuole ellenistiche, come ha mostrato Foucault, padronanza di sé, autarchia, capacità di auto-governo. «Il filosofo si crea, si produce come filosofo – scrive de Conciliis – poiché desidera differenziarsi dagli individui che non sono in grado di costruirsi, allo stesso modo in cui desidera superare la propria imperfezione. In questa forma di soggettivazione, l’altro non è mai trascendente rispetto all’individuo, ma solo diverso: superiore o inferiore» (p. 81). La soggettivazione filosofica «è auto-poietica e autonormativa, perché muove dalla decisione di non essere governati da nessuno, in nessun modo e a nessun prezzo» (p. 82). Potremmo dire, seguendo tali argomentazioni, che il filosofo è un maestro del non dipendere da alcun maestro; è maestro di auto-maestria. Ed è questo e non altro che egli può insegnare agli altri: la strada (lunga e dolorosa) per diventare padroni di sé, sfuggendo così sia al pericolo della “deificazione” dell’altro – secondo un’espressione che de Conciliis frequentemente utilizza – sia a quello della violenza di uno scontro diretto e volto esclusivamente al dominio sopraffattorio dell’altro. Il filosofo in tal modo costruisce la sua “libertà”, la quale, derivando «da un’assoluta padronanza di sé», non ha «nulla a che fare con la cura dell’altro se non come oggetto di confronto, anche se non di possesso/assoggettamento» (p. 86). Tuttavia questa strada, argomenta de Conciliis (interpretando Foucault), non è per tutti. Ad essa manca «il carattere dell’estendibilità universale», non solo perché non a tutti è data in sorte la condizione economica per «pagarsi il lusso della skhole e dell’otium» (Foucault, cit. loc.), ma perché tale carattere elitario «è piuttosto coincidente con il principio stesso del processo di soggettivazione» (p. 93), che implica la scelta di un modus vivendi che non può essere appreso «alla stregua di una tekhne qualunque» (ivi), ma comporta un duro e doloroso lavoro su se stessi di cui solo pochi sono capaci. È in fondo questa la “verità” del filosofo: la sua capacità di costruirsi come soggetto, la sua “verità soggettiva” che egli è pronto a difendere contro tutti, anche a rischio della vita. Il vero filosofo è, quindi, un parresiaste che «pericolosamente simile al folle – non predica, in asettico isolamento, un’evidenza di tipo logico o gnoseologico; piuttosto, egli entra decisamente in una relazione verbale con se stesso e con gli altri, in cui ne va della sua verità soggettiva, del suo essere-soggetto, e finanche della sua vita» (p. 106). Il volume di de Conciliis, ovviamente, non si ferma alla descrizione della soggettivazione filosofica tardo antica, ma continua la sua ricostruzione genealogica dei processi di soggettivazione, soffermandosi sull’epoca cristiano-medievale, caratterizzata «da un completo rovesciamento del modello greco-classico» (p. 128) di tipo autarchico, e dalla affermazione di un modello fondamentalmente “eteronomo” di produzione dell’individuo, di cui l’autrice, complice Foucault, evidenzia, in modo forse un po’ troppo svalutativo, i paradossi e i limiti. La sua ricostruzione passa poi all’epoca moderna, in cui, in un arco temporale che va all’incirca dal XVI al XIX secolo, si impongono nuove strategie di soggettivazione. In tale epoca, ella afferma (appoggiando le sue argomentazioni non solo su Foucault, ma anche su autori quali Elias, Gauchet e Bourdieu) nasce «la modellistica degli individui, ovvero l’elaborazione socio-culturale di ruoli, stili di vita e di pensiero, di cui gli uomini tentano di appropriarsi, ma che allo stesso tempo inventano di sana pianta. […] Nella giungla della competizione, l’individuo non può più sperare di salvarsi da solo grazie all’auto-costruzione filosofica, né di essere salvato dal Dio cristiano, ma deve scendere nell’arena della differenziazione sociale, dove la posta in gioco, attraverso la cultura, l’esercizio del potere, il denaro, l’eros, il successo, ecc., è la costruzione del senso di sé rispetto ad altri» (p. 159). Questo processo giunge fin dentro la società e la cultura ottocentesca, nel cui ambito «la borghesia […] deve elaborare un segno specifico di superiorità; questo segno ruota attorno al potere simbolico del capitale culturale, mediante cui il soggetto può “tracciare una linea di demarcazione nei confronti di coloro che ne sono privi”» (p. 176). È l’epoca della soggettività come intérieur, che, paradossalmente, significa sia “interiorità” che “interno” della casa borghese; interno in cui si rifugia, forse per l’ultima volta, l’individuo che la condizione sociale avuta in sorte rende capace di differenziazione dalle masse e dalle folle metropolitane. Da questo punto in poi la lotta differenziale e comparativa dell’individuo borghese nei confronti della massa degli “stolti” deve fare i conti con processi di disciplinamento e controllo sociale e con processi bio-politici che mostreranno la loro paradossale indifferenza per la vita stessa degli individui proprio nel nazionalsocialismo. E, dopo Auschwitz, non sarà più possibile costruire alcun “soggetto”. «La logica che presiede all’esaltazione delle masse – scrive de Conciliis – è la stessa che ha reso possibile la distruzione degli inferiori. Poiché la differenza tra loro, in fondo, è niente, questi ultimi vengono ridotti a niente, letteralmente annientati affinché i sopravvissuti possano godere della comparazione pura, che è quella tra i vivi e i morti. Auschwitz è l’abisso in cui l’individuo occidentale scopre di non essere se stesso, ma molto di meno. In quel luogo tutto il sistema comparativo tra gli individui si contrae nel nulla, collassa nel vuoto di senso» (p. 210). Nel Novecento, quindi, tutto muta, almeno due volte. Con i totalitarismi una prima volta e con il consumismo, sempre più globalizzato, successivamente. Seguendo il lessico di de Conciliis, è come se nel Novecento assistessimo alla sostituzione dei processi di soggettivazione con anonimi processi di de-soggettivazione (cfr. il capitolo VI). Processi, questi ultimi, produttori di stupidità, di stultitia. Per citare un famoso aforisma di Adorno – autore non utilizzato direttamente dall’autrice ma non per questo lontano dai suoi pensieri – potremmo dire che «non c’è vita vera nella falsa». Se il soggetto è un lusso comparativo, quando il lusso viene fagocitato nell’economico, come suo elemento essenziale, e diviene, per ciò stesso, alla portata di tutti, allora esso non “soggettivizza” più ma istupidisce. Quando il lusso si riduce a semplice consumo economico del lusso, esso, ben al di là delle differenze sociali, ben al di là della distinzione tra ricchi e poveri, diviene alla portata di tutti e, quindi, secondo la logica messa in campo dall’autrice, di nessuno. Il vero problema diviene, allora, quello della pervasività della stupidità. Come liberarsene? Oppure, come convivere, senza perdere lucidità, con il rischio della perdita della “soggettività”? La lettura del libro lascia la forte impressione che, in fin dei conti, siano le strategie classiche della “cura di sé” che de Conciliis predilige. Le pagine dedicate al commento delle ricerche foucaultiane sulla soggettivazione filosofica di età ellenistica sono quelle in cui ella rivela una maggior partecipazione, anche perché solo la strategia della cura filosofica di sé può condurre, more comparativo, a quella forma di redenzione laica dal meccanismo stesso della comparazione, la cui definizione è, forse, la vera proposta etico-politica del volume. D’altra parte le pagine più dure del libro sono sia quelle dedicate alla soggettivazione “eteronoma” cristiano-medievale, sia quelle dedicate alla de-soggettivazione post-moderna, vale a dire quelle dedicate a strategie di produzione dell’individualità caratterizzate, tra l’altro, e non a caso, dal mancato padroneggiamento del tempo. Di fronte all’imprevedibilità della chiamata alla fede, di fronte all’imprevedibilità della conversione, della metanoia, così come di fronte all’imprevedibilità della tendenza, del cool, della moda, il filosofo (antico e contemporaneo) si sente un po’ stupido. E, da tale raggiunta (e positiva) “stupidità” – che, come gli è facile capire, lo accomuna, a tutti gli altri – potrà cominciare a lavorare “di concetto”, pazientemente, sulla stultitia dei più, a partire da una delle verità elementari del nostro tempo (ma, forse, di ogni tempo): quella in base alla quale lo stolto è colui che afferma di essere esclusivamente “se stesso”, esclusivamente Soggetto. Il filosofo, a quel punto, sorriderà di nuovo, perché avrà capito come differenziarsi dai più senza pretendere di diventar soggetto.
(recensione di Vincenzo Cuomo)
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