NON-LUOGO DI TRANSITO

 

Chaosmos 2003,
Sciogliere legare. Sacrificio democrazia sovranità
,
Filema edizioni, 2003, pp. 169, ISBN 88-86358-72-5,
Euro 13,00.

 

È possibile pensare ad una democrazia a venire non più fondata sulla sovranità statuale? È possibile concepire e praticare una comunità di singolarità al di fuori di qualsiasi legame sacrificale? È possibile concepire lo stesso sacrificio in termini non più religiosamente fondativi ma sovranamente e risibilmente negativi? Ossia, in ultima istanza, è possibile pensare ad una forma di libertà che rinunci a radicarsi nel potere (nel diritto e nella forza)?

Sono questi gli interrogativi centrali delle riflessioni raccolte in questo importante e stimolante numero-annuario di Chaosmos dedicato al tema Sciogliere legare – sacrificio democrazia sovranità.

Nei confronti del problema generale, tre ci sono apparsi i saggi – tra i nove ospitati nel volume – filosoficamente centrali: quelli di Carmelo Colangelo, di Bruno Moroncini e di Felice Ciro Papparo. Su questi innanzitutto conviene soffermarsi.

Nel saggio intitolato Debolezza e libertà, Carmelo Colangelo, attraverso il commento ad alcune riflessioni di A. de Tocqueville (contenute in La democrazia in America innanzitutto), pone in risalto uno dei paradossi dello "stato sociale democratico" moderno: da un lato il popolo sovrano sembra avere la stessa onnipotenza di Dio sull’universo, dall’altro ciascuno dei suoi componenti si vive come irrimediabilmente impotente e isolato, infinitamente debole rispetto alla forza del collettivo. Liberi e infelici, per tale motivo, appaiono a Toqueville gli americani democratici. Ma ciò spiega anche perché l’individuo democratico tenda a rinunciare all’esercizio effettivo del potere a favore di un’autorità centrale "dolcemente autocratica", a favore di un potere centrale onnipotente. La risposta di Toqueville a tale rischio strutturale della democrazia è che gli individui possono superare tale infelicità dipendente dalla loro debolezza attraverso la partecipazione associativa alla vita politica. Tuttavia Colangelo ci invita a leggere tale indicazione toquevilliana in chiave, appunto, "democratica" e non "liberale" – se per liberalismo si intende quella teoria politica che ipotizza l’esistenza di individui monadici pienamente "autonomi" e liberi. Quando Toqueville parla della libertà, la intende come "esperienza in comune", come "prassi collettiva" produttiva non di legami stabili e fondativi ma di un "complesso di singolarità". Singolarità (e non individui) che scoprono di poter mettere in comune la loro impotenza ma anche il loro irriducibile differire.

I paradossi e le contraddizioni della democrazia sono al centro anche del saggio Sovranità e democrazia di Bruno Moroncini. La tesi principale dell’autore è che la democrazia, intesa non come l’arte del possibile ma come l’arte dell’impossibile (cioè dell’inaudito, dell’inatteso), è la sola pratica politica che sfugge al radicamento sacrificale (che sfugge, cioè, al sacrificio religioso che fonda il patto sociale attraverso il laccio della colpa comune). Ed è anche la sola pratica politica che possa scindersi dalla sovranità statuale. A patto di intendersi, ovviamente. La "democrazia – scrive Moroncini – è il nome dell’evento che conduce al collasso la rappresentazione statuale […] per il fatto di implicare il passaggio di tutto il potere al dêmos, ossia a ciò che costitutivamente non si lascia contare per uno" (p. 49); il dêmos, infatti, concepito in un senso radicale, è quell’insieme di singolarità qualunque che non si lasciano "includere" in alcuna totalità statuale, vuoi perché fuoriuscite, vuoi perché espulse: "senza legame, senza famiglia e senza Stato, senza nazionalità e senza documenti, il dêmos si potrebbe dire è ciò che non è mai, che ex-iste forse, ma non è, che certamente si presenta, ma mai nella forma della presenza a sé, semmai solo nella modalità dell’a-venire" (p. 56). Tuttavia, la democrazia ha da sempre dentro di sé due rischi: il primo – quello che è più spesso messo in evidenza nella tradizione filosofico-politica – è che il dêmos si trasformi in plêthos, in folla canagliesca, in plebe in preda a pulsioni distruttive; l’altro rischio – in qualche modo conseguenza del primo – è che, dal momento che in democrazia sono abolite tutte le differenze di valore, "il dêmos elegga liberamente al governo della polis una canaglia, e una volta nominatala si trovi poi costretto per correggere il suo errore a consegnarsi mani e piedi all’uomo-lupo, al tiranno, sia obbligato cioè, per evitare la rovina, a suicidarsi e quindi a suicidare la democrazia" (p. 52). Di tale suicidio autoimmunitario della democrazia, di cui, a proposito della recente storia dell’Algeria, ha scritto Derrida (Voyous, 2003), si potrebbero fare molti esempi, dalla salita al potere del fascismo e del nazismo novecenteschi allo Usa Patriot Act del 26 ottobre 2001. La tesi sostenuta da Moroncini è che tale propensione al suicidio autoimmunitario da parte della democrazia sia "un carattere paradigmatico e non accidentale di questa forma di governo" (p. 53). Allora, se la democrazia è, da un lato, decostruzione d’ogni istanza sovrana e "dall’altro la causa della sua stessa interruzione e del ripristino della sovranità nella sua forma dispotica" (p. 57) è forse necessario scindere definitivamente sovranità e democrazia. Ma ciò facendo, argomenta ancora Moroncini, non si rischia di rinunciare, con la sovranità, non solo al monopolio del diritto e della forza ma anche all’affermazione della libertà? Non è forse vero, seguendo il paradigma hegeliano, che solo colui che è pronto a sacrificare la sua vita può essere sovrano, quindi libero e, perciò stesso, detentore del potere? Insomma, è possibile rinunciare al potere senza rinunciare alla libertà?

La risposta, a parere di Moroncini, consiste forse nel tentare l’impossibile – secondo la citata definizione della democrazia come arte dell’impossibile. Secondo tale modalità si potrebbe forse pensare, come propone Derrida, di opporre sovranità a sovranità, pensando, ad esempio, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, come un’altra sovranità che "supera" l’auto-immunità statuale. Oppure si potrebbe pensare, sempre secondo la modalità dell’impossibile, ad una "comunità democratica fatta di sovrani, e quindi una sovranità multipla, una sovranità che lungi dall’essere una e indivisibile presenti sempre un sovrano in più" (p. 59) e in tal modo sperare che, come è tante volte capitato – e con le parole di Toqueville – "l’estrema libertà corregga gli abusi della libertà".

Il saggio di Felice Ciro Papparo, dal titolo Tutti per l’(Uno)?, contribuisce alla discussione aperta dai primi due attraverso un approfondimento delle connesse nozioni di sacrificio e di sovranità nel pensiero di Georges Bataille. A partire da un testo giovanile batailliano intitolato Sacrifici, Papparo mostra come, per il pensatore francese, "sacrificio e sovranità siano niente altro che il modo più congruo per esplicitare il senso sottinteso dell’espressione l’io-che-muore" (p. 68). In tale espressione Bataille pensa, infatti, il soggetto umano come "strutturalmente dileguante, ovvero come un soggetto infinitamente diveniente, impossibile cioè e tuttavia lì" (ivi). Il concetto di sacrificio, per Bataille, non è che un altro modo di dire la negatività hegeliana. Infatti, è attraverso il sacrificio che l’essere umano ha distrutto la sua animalità. Ed anche in Hegel il "dolore del vivente" ha "la sua concreta corrispondenza nell’esistenza umana" (p. 73). Solo che il filosofo tedesco, traducendolo sul piano razionale, "articolando" l’immediatezza del suo darsi alla catena mediatrice della ragione, lo cancellò dal (nel) sistema, riducendolo a mero accidente. Per tale motivo, secondo Bataille, si tratta di opporre una fenomenologia dell’eros alla fenomenologia dello spirito. La famosa definizione batailliana dell’erotismo – come conferma della vita fin dentro la morte – è per Papparo il più coerente inveramento dell’hegeliana espressione secondo cui "lo spirito ottiene la sua verità solo trovando se stesso nella lacerazione assoluta". Vivere sovranamente significa allora riuscire a ridere della morte, non per sfuggirla in quanto tale, ma per sfuggirne l’angoscia. Ma in che modo? La strada che ci indica Bataille è, secondo Papparo, quella che passa attraverso l’abbandono della prospettiva che enfatizza la "finitezza" dell’individuo (e la sua illusoria autonomia) e l’accoglimento di un’altra prospettiva, di quella che potremmo chiamare dell’infinitizzazione della comunicazione dell’essere umano con l’altro da sé, con l’animale, con le cose [anche con le macchine?], con l’universo intero.

Gli altri saggi contenuti nel volume contribuiscono, con analisi particolari ed esemplificatorie, alla ulteriore chiarificazione dell’ambito problematico definito dalle nozioni di sacrificio e di sovranità. Mentre Augusto Iossa Fasano – nel saggio Altro sarò. Testimonianza, sacrificio, psicoanalisi – riflette sui rischi "sacrificali" cui va incontro l’operatore volontario in un centro di accoglienza per immigrati e/o rifugiati, Fabrizio Denunzio – in Bruciare sovranamente. Otto sequenze attrattive sul Dies Irae di Carl Theodor Dreyer – interpreta il diverso atteggiamento che, nel famoso film di Dreyer, si instaura tra i due personaggi femminili principali (due streghe che vanno al rogo) e la morte. Il piccolo ma prezioso saggio di Jean Starobinski – Il sacrificio e l’incoronazione (sul soggetto d’Idomeneo) – trattando, poi, della famosa opera giovanile di Mozart e dell’inedito sviluppo della vicenda del re cretese nel libretto di Varesco, esemplifica la differenza tra il sacrificio mitico che sancisce l’ordine del destino e il sacrificio amoroso che quell’ordine ha la potenza di infrangere. Inoltre, mentre il saggio di Gino Frezza – Il cuore di Londra – si dedica all’interpretazione del film Dirty Pretty Things (Piccoli affari sporchi) di Stephen Frears, il saggio di Giancarlo Alfano – "Le cose di prima a dopo, a dopo" – è un’ampia e ravvicinata analisi critica di famosi romanzi di Pavese, Calvino e Fenoglio sulla guerra partigiana in cui si argomenta dello scacco cui la narrazione va incontro quando cerca di dare un senso alla violenza e alla morte. Infine, l’ampia analisi di Giovanni Maffei – Ridere all’inferno: i Vicerè, Melmoth e altri "mondi demonici" – riflette, a partire dai Vicerè di De Roberto e dal Melmoth di Maturin, sulle differenze tra il riso rabelaisiano, "scoronante" e catartico, e quello "infernale", esemplificato in questi due romanzi, che ha le caratteristiche di un’estrema e paradossale (sovrana?) modalità di sottrazione ad un mondo senza uscita e senza salvezza.

Vincenzo Cuomo