Bruno
Moroncini, Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia del tragico
moderno,
Napoli, Filema edizioni, 2004, ISBN 88-86358-93-8, €
18,00.
Antigone
o dell’indecidibilità
tra la vita e la morte. Oppure, Antigone o dell’etica del
desiderio. Oppure, ancora, Antigone o della politica del lutto
infinito. Queste le tre possibili alternative al bellissimo titolo,
Il sorriso di Antigone, che Bruno Moroncini sceglie per il suo
libro sul tragico moderno - titolo che, in verità, egli ri-sceglie,
giacché ripubblica il suo primo libro uscito nel 1982 (allora
per i tipi della Shakespeare & Company). Tre alternative
che, tuttavia, credo debbano essere evocate per dar conto non solo di
quello che il libro allora, nel 1982, voleva dire, ma soprattutto di
ciò che ora, nel 2004, esso propone alla riflessione.
Se
c’è una tesi che corre per tutto il libro, inclusa la recente,
ampia, postfazione, credo sia quella secondo cui nell’idea di
un “tragico moderno” – discussa in vario modo, e con
diversi esiti, dalla Goethezeit fino a Walter Benjamin –
la cultura europea abbia cercato di elaborare una forma artistica e
una strategia di pensiero per fare i conti con ciò che Moroncini
chiama il demonico. Con tale parola/baule egli intende la storia
umana concepita come l’infinita catena delle colpe e delle vendette
cui non è possibile sfuggire, come un passato che non passa e
che – non ritornando per poter essere niccianamente sospeso
– pesa come un macigno sull’esistenza. Il demonico, inoltre,
può essere concepito come il “mondo così com’è”,
mondo a cui non è possibile sfuggire, se non appunto attraverso
una via tragica che, radicalizzando lo stesso demonico, portandolo
alle estreme conseguenze, per così dire lo s-quadri e lo paralizzi
facendo apparire strade non ancora percorse, forse dimenticate o forse
ancor a venire. Antigone, col suo sorriso – un sorriso che, seguendo
l’autore, dobbiamo immaginare ci abbia rivolto, e ci rivolga sempre,
prima di morire – indica proprio una di tali strade. Una strada
cui la postfazione cerca di attribuire un nome, nella chiave di una
politica a venire, per dirla con Derrida. A tal proposito è molto
interessante il confronto, che lo stesso Moroncini propone, tra la conclusione
del suo vecchio studio e la re-interpretazione cui oggi la sottopone.
Nel capitolo finale intitolato La morte infantile, dopo aver
ripreso, con un occhio a Nietzsche, l’interpretazione kierkegaardiana
di Antigone, egli scriveva: “immaginiamola dunque anche noi, come
Kierkegaard, l’Antigone moderna. Presa tra due fuochi, il diritto
materno che le impone la sepoltura di Polinice e quello dello stato,
di Creonte, che glielo vieta, ella morendo li conduce entrambi alla
loro fine. La sua morte – scrive ancora Moroncini – non
è un sacrificio, non riconcilia gli ordini scissi della potenza
etica; ella sa di essere superiore ai suoi dei, anche a quelli di cui
deve rispettare la legge. Ella è sì l’eterna ironia,
ma a differenza di Hegel, noi pensiamo che Antigone inizi a guardare
con distacco anche a quelle potenze ctonie, quel diritto dei morti divenuti
antenati, quel corpo materno che pretende fagocitarla per sempre. Che
ella muoia vergine significa per noi che Antigone si rifiuta a ciò
a cui la vorrebbero costringere tutti: proseguire la specie perché
la catena e il potere mitico ad essa connesso non si interrompa. Ella
non sarà né sposa, per attendere al volere della legge
paterna, né madre per rispettare quello materno. Come ella stessa
dice unico letto di nozze sarà la sua tomba. Antigone esce danzando
dalla rete delle genealogie e delle filiazioni: senza padre né
madre, orfana senza rimpianti, fanciulla divina senza memoria, la sua
parola muta recide il proprio legame con il passato e non si volge al
futuro” (p. 137). Commentando oggi questa sua tesi, Moroncini
sottolinea come in essa si ponesse in rilievo che “per divenir
soggetto un individuo appartenente alla specie umana debba fare i conti
con la propria provenienza iscritta nella catena delle generazioni,
tentando di sospenderla o esaurirla, dovesse questa scelta costargli
la morte” (p. 143). Antigone è una singolarità che
si sottrae alla catena delle generazioni, che è anche la catena
delle colpe e delle vendette, paradossalmente senza sfuggire ad essa,
perché non sfugge alla contingenza che la fa sorella di un fratello.
Questa contingenza ella la porta fino in fondo, fino alla morte, con
un atto anti-politico – ma non impolitico perché foriero
di una politica a venire – che, come si diceva, sospende sia il
diritto statuale paterno che quello ctonio materno. Ella, sottolinea
Moroncini citando Lacan, non ha ceduto sul proprio desiderio; sceglie
di morire non per contravvenire al divieto di Creonte ma solo perché
ama suo fratello. Un fratello che nessuno potrà ridarle, un fratello
insostituibile. Un fratello, potremmo dire, avuto in dono dalla catena
delle generazioni, catena che attraverso tale evento appare in una luce
liberante e non più demonica. Il dono del fratello è per
Antigone un dono che la pone in un debito infinito e, nello stesso tempo,
estinto. Dono che libera attraverso un legame, legame che slega. Non
è la morte effettiva di Antigone che qui interessa, ma la sua
scelta d’amore e di morte, la sua scelta di con-morire
col fratello. È quello il suo sorriso ed è in quel
sorriso che, scrive Moroncini, dobbiamo imparare a prendere dimora (vedi
p. 138), facendo “buon uso della morte”. La strada che Antigone
ci indica – etica e politica ad un tempo, ma di un’etica
e una politica a venire - è quella che istituisce la comunità
dei con-morenti, una comunità che non si realizza mai, perché
comunità di vivi e di morti, sottolinea Moroncini. Tale
comunità è istituita derridianamente dal dono dell’altro,
dal dono della sua morte, dono di libertà e di legame ad un tempo,
legame che slega, come si diceva. Non accade libertà (non accade
umanità) se non facendo i conti con la morte. Lo sapeva bene
Hegel che, tuttavia, pur restando affascinato dalla figura di Antigone,
aveva preferito pensare l’umano attraverso le figure fenomenologiche
del padrone del servo – e del loro diverso fare i conti col “padrone
assoluto”, vale a dire con la morte. La strada che Antigone ci
indica è, invece, eccentrica sia rispetto alla prospettiva sovrana
del padrone sia rispetto a quella che, col servo, passa attraverso l’etica
del lavoro (e l’etica del bene, a questo connessa). Antigone ci
fa capire che, nel vivere-insieme, bisogna fare in conti con la mortalità
che ci contraddistingue e con l’eredità delle generazioni
passate, eredità di cui non ci si potrà mai del tutto
appropriare, portando a compimento il “lavoro del lutto”,
ma che, indecidibilmente, può apparire sia come il demonico che
obbliga, sia come il dono che libera. Questa strada, secondo Moroncini,
indica che “non si dà umano se non a partire dall’illimitato
e incessante processo del morire e che esso si trasmette e sopravvive
attraverso le strutture elementari della parentela, la differenza dei
sessi e la differenza fra i sessi, e più di tutto nella loro
forma pura ed essenziale, vale a dire l’amore sororale”
(p. 169).
Se
la filosofia politica è stata pensata fino ad oggi, in maniera
consapevole o inconsapevole, sul fondamento delle relazioni parentali
padre/figli, madre/figli o ancora – pensiamo al lascito politico
della rivoluzione francese – su quello della fraternità,
la proposta che, attraverso la figura di Antigone, Moroncini ci fa è
quella di ripensare la politica a partire dalla relazione fratello-sorella,
perché “l’unico modo per essere fratelli è
esserlo come lo sarebbe una sorella” (p. 180), beninteso una sorella
come Antigone che, senza cedere sul proprio desiderio, accolga la contingente
eredità delle generazioni trascorse, sfuggendo al “demonico”
attraverso il suo compimento.
(Vincenzo Cuomo)
Indice:
Ouverture
Il buon uso della morte
Le leggi dell’ospitalità
Antigone perduta
L’elogio della povertà
La volontà senza decisione
Antigone ritrovata
La morte infantile
Il legame della divisione. Post-scriptum
2004