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Safaa Fathy, D'ailleurs Derrida, Algeria/Francia 1999, 78'

Jacques Derrida, Safaa Fathy, Tourner les Mots. Au bord d'un film,
Galilée - Arte éditions, Paris 2000, 173 pp., 175 Fr., Euro 26, 68

(Daniele Dottorini)

 

Testo a due voci, inizialmente unite, poi disgiunte in autonomi saggi-riflessione, che partono da una stessa esigenza: oltrepassare, ritracciare un percorso per portarlo al di là del suo senso immediato: questo il pretesto che ha dato vita a Tourner les mots, scritto da Jacques Derrida e Safaa Fathy, rispettivamente interprete e regista di D'ailleurs Derrida, documentario sul filosofo francese (co-prodotto da Arte) realizzato nel 1999.

Cominciamo dai titoli: D'ailleurs Derrida, titolo impegnativo, di non facile traduzione. "D'ailleurs" come d'altronde, d'altra parte, da altrove. Segno polisenso di una dislocazione, dei segni (dalla parola scritta alla sua registrazione nel testo filmico) del tempo (dal qui ed ora della parola o della presenza alla sua dislocazione nell'evento infinitamente rappresentabile del film), della filosofia o del filosofo (dalla biografica "alterità" di Derrida, all'"alterità" costitutiva della filosofia secondo Derrida).

Ogni significato, ogni possibile campo semantico della parola rinvia ad un dislocamento, ad un altrove da cui parte il discorso. Fathy riprende Derrida nel suo luogo natale, El Biar, in Algeria. È qui, in una inquadratura che isola il filosofo circondato dal deserto algerino, che Derrida parla dell'essere "d'ailleurs" come condizione filosofica, come luogo e momento di partenza (e di impossibile ritorno) di ogni filosofia. Ma anche come operazione cinematografica, condizione attraverso la quale il cinema, messa in mostra di una presenza che è anche, contemporaneamente, assenza, si dispiega alla fruizione. È qui che si gioca l'analogia, il campo di intersezioni continue che permette al cinema e alla filosofia di riconoscersi, di ritrovarsi: "Le cinéma permet ainsi de cultiver ce qu'on pourrait appeler des "greffes" de spectralité, il inscrit des traces de fantômes sur une trame générale, la pellicole projetée, qui est elle-même un fantôme" (1).

L'essere altrove (o d'altra parte) del filosofo come della filosofia, dell'uomo come del discorso, si manifesta al cinema in tutta la sua potenza come spettralità, zona d'indiscernimento del logos che ha sempre a che fare con la filosofia, operazione che Derrida, rileggendo Hegel, designa come il marcare un margine che essa stessa concepisce come suo, di cui si riappropria (2).

Il movimento del film allora si mostra come gioco a due, tra un soggetto/oggetto (Derrida) e un autore/spettatore (Fathy), consapevoli nei loro ruoli intercambiabili. In una delle sequenze iniziali, Derrida, in primo piano, con alle spalle un acquario chiuso dai bordi (dai limiti) dell'inquadratura, riflette sul suo essere lì, lui che, nel momento della fruizione del film, sarà contemporaneamente presente e non presente, di fronte allo spettatore e altrove. L'uomo e l'acquario, chiusi nell'inquadratura, diventano strumento di una analisi filmico-filosofica, come già lo era la celebre sequenza di The Lady from Shanghai, in cui Orson Welles e Rita Hayworth giocano la loro scena di seduzione sullo sfondo di un acquario, il cui limite corrisponde al bordo dell'inquadratura. Quello straordinario saggio di analisi filmica, forse una delle sequenze della storia del cinema in cui l'inquadratura si mostra con maggiore evidenza come limite, implosione che rimanda sempre ad un suo oltre, ad un necessario oltrepassamento verso quella zona di invisibilità che la costituisce.

Il primo riconoscimento tra cinema e filosofia avviene dunque, in D'ailleurs Derrida, nella consapevolezza di una spettralità che avvolge entrambi. L'ossessione dello spettro, del fantasma che è contemporaneamente presente/assente, che sfida quindi il discorso/film a cercare il suo limite, appartiene all'ultimo Derrida, alla sua riflessione recente: "Uno spettro è allo stesso tempo visibile e invisibile, allo stesso tempo fenomenico e non fenomenico: una traccia che segna anticipatamente il presente della sua assenza. La logica spettrale è de factu una logica decostruttiva. Essa è l'elemento della hantise nel quale la decostruzione trova il suo luogo più ospitale, nel cuore del presente vivente, nella pulsazione più viva del filosofico"(3).

Il film si svolge quindi sempre con una consapevolezza del luogo come decentramento, come spazio e tempo del discorso che è sempre - per usare un'espressione che Derrida riprende dall'Amleto shakespeariano - "out of joint", dissestato (désajointé)(4). Fathy compie un detour attraverso i luoghi, l'Algeria, Parigi, gli Stati Uniti, facendoli attraversare dal filosofo. Ma mai il luogo è attraversato pienamente, quasi sempre è lambito, toccato, visto da lontano o in una sua parte (in una sequenza girata a Parigi, Derrida mostra dall'interno della sua autovettura l'Università dove per tanti anni ha fatto lezione; il luogo è intravisto, di sfuggita, attraverso uno scarto della macchina da presa che cerca di cogliere l'edificio - il suo esterno - mentre questo già sfugge via e l'auto prosegue il suo viaggio). È in questo spazio-tempo, che non accoglie, non ordina corpi, parole e fantasmi che allora la parola filosofica ritrova se stessa e si dispiega nel film.

D'ailleurs Derrida è un film filosofico non solo e non tanto perché è un film "su" un filosofo, o perché al suo interno si parla di filosofia; è un film filosofico perché rilancia - nel suo ex-sistere come evento, traccia, immagine e discorso - il problema stesso della filosofia come attività (seguendo Derrida) decostruttiva, come attraversamento della spettralità.

Tracce queste che si dispiegano, che non finiscono di inquietare (filosoficamente). Tracce che si prolungano nel testo scritto, nel libro scritto dopo il film, appunto Tourner les mots. Libro che nasce appunto come esigenza, come si diceva all'inizio. Esigenza di una ulteriore indagine filosofica a partire dalla esperienza propria dei due autori (rispettivamente inteprete-attore e regista).

Partiamo ancora una volta dal titolo: Tourner les mots. Nella conversazione a due voci che apre il testo (Contre-Jour, pp. 11-25), Derrida apre ancora una volta la questione dell'intraducibilità (intraduisibilité) del termine "tourner", termine sia cinematografico ("girare un film"), sia cinetico (girare nel senso di "contornare", "girare attorno", "essere attirati da un centro inaccessibile"); sia stilistico: "tourner" nel senso di "rifinire", "aggiustare", "dare una bella forma". Significati, questi, che si riuniscono e si intersecano nel libro, per mostrare - a partire dal testo cinematografico - come la parola (e il corpo, e il soggetto) subisca al cinema una trasformazione, una metamorfosi: "Tourner les mots signifie éviter les mots, contourner les mots, faire que le cinématographique résiste à l'autorité du discours; en même temps, il s'agissait de tourner les mots, c'est-à-dire de trouver des phrases d'interviews, de cours, de conférences, des phrases déjà propices à une prise de vue cinématographique" (5).

È a partire da queste considerazioni iniziali che Tourner les mots si sviluppa dunque sia come testimonianza di un evento (la realizzazione del film), sia come discorso filosofico a partire dall'evento stesso.

Usiamo la parola evento non a caso: l'esperienza di realizzazione del film costituisce una sfida, o meglio un invito a ripensare i concetti filosofici, proprio nel momento in cui questi vengono messi in gioco nella durata dell'immagine. Nel saggio centrale del libro (Lettres sur un aveugle. Punctum caecum, pp. 71-126), Derrida riporta il problema del cinema nel suo rapporto con la filosofia a quell'altrove (ailleurs) che è anche un fuori (dehors) e che costituisce l'estraneità del film rispetto al soggetto (étrangeté). Il film non si colloca dunque nel terreno della rappresentazione, ma, al contrario, come sfida al problema della mimesi, come accenno, messa in mostra paradossale dell'invisibilità che fonda il visibile. Dunque la conversazione a due voci si sviluppa a partire da questo riconoscimento: il cinema non può e non deve costituirsi come epifania del visibile, ma al contrario come possibilità in più di indagare l'invisibilità del senso, la sua estraneità rispetto all'oggetto rappresentato. Siamo qui vicini alla seconda definizione di "tourner": essere attirati da un centro invisibile, da un'assenza che marca la presenza apparentemente piena dell'oggetto o del soggetto che abitano il film.

Emerge dunque, in una scrittura che in Derrida (come in Fathy, che oltre ad essere una regista è anche una apprezzata poetessa in lingua araba) si fa sempre più evocativa e sempre meno legata ai codici del discorso filosofico tradizionale, la consapevolezza della fecondità teorica del dislocamento e del suo effetto perturbante, sia del linguaggio, sia dell'immagine, che nel cinema come nel discorso filosofico (una analogia che non va però presa alla leggera, né data per scontata) si determina come una forza che attiva il senso, che mostra, senza rappresentarlo, la profondità del reale: "dans une conversation, Derrida disait que telle une descendante de la mort, l'image est toujours une suaire, ce qui révèle en voilant, ce qui cache le visage et l'exhibe à la fois. Le voile imprimé par les traits du visage qui surprend. L'image nous regarde et révèle l'autre en soi. Qui n'a jamais été surprise par sa propre photo? Chaque image prend une part inconnue de soi et la fixe, une part étrangère qui ne se laisse pas réappropier, parce qu'elle appartient déjà à un autre monde, le monde de l'icône et du simulacre" (S. Fathy, p.164).

Effetto di dislocamento, di alterità e di estraneità che investe la struttura stessa del libro in cui il dialogo tra interprete ed autore si interrompe ben presto per lasciare spazio a percorsi personali in cui ognuno dei due autori rivede il proprio ruolo, facendo della scrittura un'indagine a posteriori, un ulteriore "tourner les mots".

 

Note:

(1) J. Derrida, Le cinéma et ses fantômes, intervista di A. De Baeque, T. Jousse, in "Cahiers du Cinéma", 556, 2001, p.78.
(2) Cfr. J. Derrida, Margini, Einaudi, Torino 1997, p. 11.
(3) J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, Raffaello Cortina, Milano 1997, p.132. Qui il filosofo riprende la questione dello spettro come questione centrale del discorso filosofico. Cfr. a questo proposito J. Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994.
(4) Cfr. Spettri di Marx, cit. p. 10.
(5) J. Derrida, Le cinéma et ses fantômes, cit., p. 83.


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