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“NON PENSARE, GUARDA!” WITTGENSTEIN SULL’IMMAGINE Leonardo V. Distaso
Proviamo a ricostruire, a ricomporre con gli stessi elementi a disposizione il tessuto che costituisce l’album di lavoro di Wittgenstein, un album le cui immagini sono strettamente connesse le une con le altre e tutte insieme sono stimolo per riflettere intorno al tema dell’immagine. Immagini per l’immagine, schizzi paesaggistici frutto di scorribande rigorose e insieme casuali, ossessive e ricorsive, convergenti e centrifughe, in lungo e in largo, in tutte le direzioni. I dubbi sono propri della chiarezza cui si tende; essi si manifestano in ogni passo, avanti e indietro, da diverse direzioni e “in pro” di sempre nuove immagini venute alla luce. Perché di immagini si tratta, di una “filosofia in immagini”, di un pensare che guarda e tiene fermo nello sguardo ciò che in esso è. A questo proposito utilizziamo l’edizione italiana delle Ricerche filosofiche, (Einaudi Paperbacks, Torino 1983), ma tenendo sempre sotto gli occhi l’edizione tedesca delle Philosophische Untersuchungen, (in Werkausgabe, Bd. 1, Suhrkamp Taschenbuch, Frankfurt a.M. 1988). Questo testo sarà riformulato, facendo riferimento al numero dei paragrafi e non delle pagine, in una sorta di riscrittura che dovrebbe ricomprendere un certo discorso di Wittgenstein, o più propriamente, portarlo alla luce sotto un certo punto di vista. E ci muoveremo unicamente rimodellando il contesto teorico proposto nel nostro volume Estetica e differenza in Wittgenstein (Carocci, Roma 1999). 11. Se penso agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, ciò vuol dire che li vedo, e vederli vuol dire, in questo senso, che vedo la loro funzione, li vedo secondo la loro funzione: essi sono quello che sono perché li vedo come martello, tenaglia, sega, cacciavite, ecc. Vedo la differenza delle loro funzioni, li vedo diversi a seconda della loro funzione: li vedo insieme alla loro funzione. Per questo dico che hanno un significato. E significati diversi vuol dire: diverse funzioni delle parole. Se vedo gli oggetti come questo e quell’oggetto a seconda della loro funzione, vuol dire che li vedo come quella funzione, e dico che sono questo o quello perché posso vedere la funzione della parola. Quando vedo un oggetto, vedo una parola (?). Per questo quando facciamo filosofia, capita di non vedere la parola con la stessa evidenza: perché non comprendiamo il suo uso (Verwendung). 18. Il nostro linguaggio, quello che già abbiamo, non è completo, non può essere completo. Esso non è un sistema chiuso, né una simbolica costruita ad hoc. Il nostro linguaggio è come una vecchia città ... con la periferia tipica dei suburbs americani. Non è completo, ma tendenzialmente infinito. 19. Immaginare (vorstellen) un linguaggio. Porre di fronte a sé un linguaggio; rappresentarsi un linguaggio. Und eine Sprache vorstellen heißt, sich eine Lebensform vorstellen. Significa rappresentarsi una forma di vita. Porre di fronte a sé una forma di vita; come rappresentarsi, presentarsi innanzi. Quando dici una parola (“Lastra!”), io posso comprenderla o no, a seconda se ne vedo l’uso, se vedo la parola insieme alla sua funzione, e se vedo la parola insieme alla funzione dell’oggetto che vedo quando vedo la parola. Ma non è che vedo la parola come vedo l’oggetto: vedo l’oggetto con l’occhio, con la percezione retinica; vedo la parola con “qualcosa” che guida il mio vedere retinico, che anticipa la mia percezione sensoriale e che indirizza il vedere al significato corrispondente all’oggetto, senza essere una mera percezione retinica. Ma alla parola corrisponde sempre e solo un oggetto? 22. “Daß das und das der Fall ist”, non è ancora una proposizione del nostro linguaggio. Se dico: “Il fatto che le cose stanno così e così”, “il fatto che...” non è una proposizione del nostro linguaggio. “Dico che...” è l’inizio di una proposizione del nostro linguaggio che, insieme a innumerevoli altri tipi di proposizione, forma l’orizzonte dei giochi linguistici che pratichiamo. Ma “che” le cose stiano così e così è un fatto extralinguistico, un irriducibile che ci sforziamo di ridurre al nostro linguaggio. Io non so se le cose stanno così e così, io lo affermo. Se lo affermo, allora lo so. 30. Deve essere già chiara (schon klar) la funzione della parola all’interno di un linguaggio, per poterne spiegare il significato (Bedeutung). Il significato di una parola è l’uso solo se è già chiaro qualcos’altro: questo qualcos’altro è la possibilità della parola all’interno di un contesto complessivo, di un gioco linguistico. È questo che devo già sapere. Io comprendo la possibilità della parola se ho chiaro davanti a me il suo uso all’interno di un linguaggio; so già qual è il suo posto. Comprendere la possibilità significa sapere già (o sapere già fare) qualcosa. Vuol dire avere chiaramente sotto gli occhi la possibilità, il qualcos’altro, vuol dire gettare lo sguardo oltre, verso il “che è così” in quanto tale. Il significato è solo in quanto “che è” è ciò che già so. Il “fatto che” è ciò di cui parlo, ma di cui non posso parlare, a rigore, in quanto lo vedo già prima di “vedere così e così”. Vedo già chiaramente la funzione perché sono già nel linguaggio. Questo mio essere-già-nel linguaggio è il mio sapere-già (fare) qualcosa. Esso è il “che” che determina l’esser-che-è-così-e-così in quanto tale. 31. Chiede sensatamente il nome solo colui che sa già fare qualcosa con esso. Che ha già visto con chiarezza la sua possibilità. Che è già nel linguaggio e pretende maggiore chiarezza di quanta già ne abbia. 36-37. Questo “qualcos’altro” non è uno spirito, ma neanche un corpo; non è qualcosa che indichiamo come se indicassimo qualcosa che è là. Non è qualcosa che viene indicato direttamente dalla relazione tra nome e nominato, ma emerge tra di essi come l’irriducibile “dato che”. Il fatto che comunemente riteniamo che all’udire un nome venga richiamata alla mente l’immagine del nominato sta nell’idea che il nome corrisponde al nominato, e questo a quello, come se tutto consistesse nel mettere ordine tra le etichette e gli oggetti. Dare ordine vorrebbe dire capire e far capire a tutti che le cose sono quello che sono. 38. Le parole “questo”, “ciò”, “che”, non sono nomi; la parola “nome” indica molti modi diversi di intendere e usare una parola. “Che” non corrisponde a qualcosa che nominiamo. Non possiamo battezzarlo perché non soggiace alla strana connessione tra parola e oggetto. Non si può fissare un oggetto posto davanti a sé e ripetere “Che” come se fosse un nome. Qui siamo già in vacanza e giriamo a vuoto senza afferrare alcunché; dobbiamo cambiare filosofia, dissodare questa pretesa e questa superstizione filosofica, quella che ci fa pensare che a ogni parola corrisponda qualcosa e che qualcosa sia sempre e solo in corrispondenza con una parola. Dobbiamo tornare a qualcosa che sappiamo già, che abbiamo già sotto i nostri occhi e che in qualche modo non vediamo. Qualcosa di invisibile eppure assolutamente visto. 50. Ciò che deve esserci, fa parte del linguaggio; questa è una regola aurea del nostro modo di intendere e giocare il gioco linguistico: è il modo stesso del nostro farci rappresentazioni o esibizioni (Darstellung). 65. Tuttavia non abbiamo una forma generale che ci dica cos’è linguaggio, o gioco linguistico: vi è una parentela, ma non una definizione, una forma comune, un concetto che li unisca. La parentela va guardata: non abbiamo un concetto che le determini o le spieghi. L’essenziale del gioco linguistico non v’è. 66. Guarda se c’è qualcosa in comune; guarda le somiglianze e le parentele; guarda i vari giochi, guarda come le somiglianze emergono e spariscono, si sovrappongono e si incrociano, poi si dissolvono, svaniscono là da dove vengono, si intravedono, in controluce, poi riemergono. Sei in presenza di una famiglia, non di un principio, né di un concetto: qualcosa di sfumato. Non pensare, ma osserva! 74. Allora avrai chiaro cosa vuol dire vedere così e vedere diversamente, e comportarsi di conseguenza secondo un impiego, in un modo o in un altro. Se lo vedi così, lo impiegherai così, se lo vedi in modo diverso lo impiegherai in modo diverso. Ma cosa? Il nome, no! 83. Make up the rules as we go along! (Facciamo le regole mentre procediamo). 89. La logica è sublime nel senso che non si interessa dei particolari di ciò che effettivamente accade, di come vanno le cose. Essa si sforza di comprendere il fondamento o l’essenza di tutto ciò che è empirico, di ciò che è dell’esperienza, ma non si occupa dell’esperienza in quanto tale. Essa indaga l’essenza di tutte le cose (Wesen aller Dinge). Ma la nostra ricerca è diversa: non è logica, non è sublime nel senso che cerca qualcosa di essenziale all’esperienza senza minimamente toccarla, penetrarla, turbarla. La nostra ricerca parte dall’esperienza, dal suo interno, non per apprendere qualcosa di nuovo (l’essenza nascosta, o una nuova scoperta), ma per comprendere ciò che sta già davanti ai nostri occhi, e che ci pare proprio questo essere qualcosa che non comprendiamo. Qualcosa che sta già sotto ai nostri occhi è qualcosa che non comprendiamo. Noi vogliamo comprendere ciò che sta già sotto i nostri occhi e non siamo in grado di dire compiutamente, con un concetto o con una parola adeguata. C’è qualcosa, sotto i nostri occhi, che non comprendiamo e vorremmo comprendere, qualcosa che non comprendiamo in quanto tale, in quanto è qualcosa in generale, un “questo” a cui non corrisponde una parola conclusiva. Un “questo” che è “qui”, come il tempo agostiniano, ma non può essere colto con un concetto. Semmai visto, questo sì; un vedere che non può essere ridotto a percezione retinica, ma a un vedere che richiama alla mente (besinnen), un vedere che vede chiaramente, finalmente, ciò che è sotto i nostri occhi, che sappiamo già, ma non abbiamo la parola per dirlo, per porgerlo in maniera determinata ed esaustiva. Qualcosa sta già sotto i nostri occhi e noi dobbiamo imparare a vedere. Vederlo come qualcosa, in quanto qualcosa, e basta. Se riusciamo a richiamarlo alla mente, possiamo vederlo senza immagine, e poi, farcene un’immagine seguendo il lavoro del gioco linguistico, as we go along! ( mentre procediamo). 90. Una metafora: si tratta di guardare attraverso i fenomeni (durchschauen), partendo da essi, ma non fermandosi a essi; si tratta di attraversarli con lo sguardo per rivolgere questo alla possibilità dei fenomeni. Guardare la possibilità dei fenomeni. Per far ciò non bastano gli occhi: la possibilità non si guarda come una cosa, ma la si guarda con lo sguardo di chi vede ciò che vede e insieme vede ciò che lo rende possibile: lo sguardo che vede “che” il fenomeno è, e che il fenomeno è in quanto lo sguardo lo guarda. Uno sguardo nuovo: lo stesso sguardo. Un guardare grammaticale, che vede l’utensile insieme alla funzione, ma non riducendo né all’uno né all’altro la comprensione. Un guardare grammaticale che guida la ricerca grammaticale del mio essere-già-nel linguaggio e del mio sapere-già (fare) qualcosa verso la chiarificazione della possibilità del fenomeno e della parola. Questo è il guardare che va oltre nella direzione del “che è così” in quanto tale. Attraversa l’uso, l’empirico, il dato fenomenico, per farvi ritorno come a ciò che da sempre è sotto i nostri occhi e proprio per questo non capiamo: il Daß. 91. Non si tratta di una scomposizione, un’analisi che arriva a cogliere l’essenza, qualcosa che sta ‘sotto’ o ‘dentro’, e che è comune a tutti i linguaggi, tutte le proposizioni nel senso che ne costituisce la verità nascosta e fondamentale. Si tratta invece di fare completa chiarezza di ciò che abbiamo sotto i nostri occhi, ciò che ci sta davanti, ciò che parliamo, il linguaggio che abbiamo e che siamo. Non c’è un nascosto che va portato alla luce, ma una chiarezza di ciò che effettivamente diciamo e di ciò che effettivamente è il fenomeno. Der vollkommenen Exaktheit. (Dell'esattezza completa). 92. Chiedere dell’essenza del linguaggio non vuol dire interrogare la natura del linguaggio nella sua struttura e nella sua funzione, ma interrogare direttamente qualcosa che è già aperto alla vista e che diventa perspicuo una volta rimesso in ordine (was schon offen zutage liegt und was durch Ordnen übersichtlich wird). Non si tratta di vedere nell’essenza qualcosa di essenziale, ma qualcosa che dobbiamo vedere penetrando la cosa con lo sguardo (durchschauen), quindi guardando la cosa e nient’altro, proprio esattamente la cosa, ma con uno sguardo che ne vede i contorni, le linee essenziali, l’aspetto nella sua interezza, e insieme i suoi nessi e le sue connessioni, i suoi rapporti, le sue sfumature, la sua superficie che è anche le sua rete di differenze; la sua unità all’interno di questa rete. 94. Sembra che la proposizione sia il medio tra fatti e segni, l’anello di congiunzione, l’elemento della corrispondenza rappresentativa, il mattone della concezione rappresentativa della realtà. Ciò è sublime concezione, come la logica. 95. Si può pensare ciò che nella realtà non esiste, dunque non c’è un’unica diretta corrispondenza tra linguaggio e mondo. 96. Così ci sembra che pensiero e linguaggio siano correlati del mondo, nel senso che ne sono immagini: noi ci facciamo immagini del mondo. 97. Come se il nesso sia essenzialmente puro, cristallo, anteriore a ogni esperienza: che il linguaggio dica che le cose stanno così e così è il punto archimedeo che spiega il fatto che io ho immagini dei fatti, immagini linguistiche prive di oscurità e anteriori all’esperienza. Ma si tratta di capire che anche questa concezione è terra terra: è anch’essa all’interno del processo di comprensione e azione linguistica e non al suo esterno. La filosofia deve capire questo, e non spiegare il nesso tra immagine e mondo. La filosofia deve capire che questo, il fatto che pensiamo in immagini il mondo, è dentro la nostra stessa esperienza linguistico-esistenziale, e non fuori. 98. Per questo ogni proposizione del nostro linguaggio è in ordine così com’è. 103. Non c’è alcun fuori: fuori manca l’aria per respirare. Si è sempre dentro, anche quando pensiamo di pensare in immagini; anche quando siamo alla ricerca di ciò che è sotto i nostri occhi e non nascosto in una profondità del tutto insensata. 108. Una proposizione non è altro che una famiglia di costrutti imparentati tra loro, qualcosa che usiamo comunemente, che è sempre alla nostra portata e, per questo, il più delle volte oscuramente presente. Qualcosa su cui gettare luce e che è qualcosa spazio-temporalmente determinata. 109. Non possiamo più dare spiegazioni, non possiamo più ritenere la filosofia come una superteoria linguistico-concettuale che dica in altro modo ciò che è sotto i nostri occhi; possiamo solo dire ciò che è, descrivere ciò che è sotto il nostro sguardo e, attraverso ciò, mostrare che esso è. Problemi filosofici sono quelli che si risolvono penetrando l’operare del linguaggio che abbiamo in modo da riconoscerlo, richiamarlo alla mente, chiarirlo. Chiariamo l’uso e il senso del nostro linguaggio e, così facendo, mostriamo ciò che è per mezzo del nostro linguaggio. 111. Ma quale profondità! Eccolo lì! 114. Si crede di guardare la realtà, ciò che chiamiamo realtà è il seguire i contorni della forma attraverso cui guardiamo ciò che guardiamo. 115. Un’immagine ci teneva prigionieri; l’immagine ci imprigionava: pensavamo che, guardando il mondo, ecco apparire un’immagine. Pensavamo in immagini e questa concezione era un’altra immagine: ma di che tipo? 116. Dobbiamo riportare la concezione del “pensare in immagini” dall’impiego metafisico all’impiego quotidiano. 119. Quando pensiamo in immagini ci facciamo una sacco di bernoccoli, ma non capiamo perché ce li facciamo. Guarda, non pensare e capirai il perché del tuo bernoccolo. In vacanza, ci si fa un gran numero di bernoccoli. 122. Dobbiamo finalmente vedere chiaramente l’uso delle nostre parole. Vedere chiaramente non è esattamente la stessa cosa che usarle. Mentre le si usano, le si deve vedere. Ciò è possibile attraverso la rappresentazine perspicua (Übersichtlichkeit), che è un altro modo per dire il durchschauen. La Übersichtlichkeit designa il nostro modo di vedere le cose, vede come vediamo le cose mentre le vediamo. 124. La Übersichtlichkeit non intacca l’uso effettivo del linguaggio, lo vede e basta. Lo può solo descrivere: questa è la filosofia. 125. Si tratta di gettare luce sull’uso, mentre usiamo, facendo qualcosa che non tocca e non intacca ciò che usiamo. 127. Metter insieme ricordi: giocare col tempo, nel tempo, con un altro tempo. 129. Gli aspetti più importanti delle cose sono nascosti, non nel senso che sono sotto o fuori, ma che sono nella loro semplicità e quotidianità; a sua volta semplicità e quotidianità nascondono tali aspetti: l’evidente e il più visto non ci colpiscono ed è qui che la filosofia deve intervenire gettando luce, guardando nuovamente, guardando attraverso il velo che l’immagine ha posto. 130. Giochi linguistici: termini di paragone intesi a gettare luce attraverso somiglianze e dissimiglianze sullo stato del nostro linguaggio. La filosofia è lo stare nei nessi del gioco linguistico guardando attraverso questi nessi che abbiamo sotto gli occhi sforzandoci di comprendere l’interezza nella loro differenza. 133. Tendiamo così alla estrema chiarezza, completa, in modo che il problema svanisca e ci resti sotto gli occhi la semplicità del Che. 138. Allora comprendiamo una parola non nel suo uso, perché l’uso è ciò che facciamo, ma la comprendiamo di colpo, comprendiamo qualcosa che è diverso dall’uso, è un’altra cosa: è la filosofia. 522. Paragoniamo la proposizione a un’immagine: come se fosse un ritratto o un quadro di genere. Ciò che mi dice un quadro è quel ‘qualcosa che mi dice’, anche se ciò che mi dice non è vero in senso stretto: è solo un rimando al ciò che è. Ciò che è non me lo dice un quadro. Ma cosa mi dice un quadro? 523. Un quadro, come “immagine di”, mi dice se stesso, la sua struttura, il suo come è, così come un tema musicale. 524. Lo stupore di fronte al fatto che qualcosa è, è come è, è ovviamente così: questa è la cosa più meravigliosa: il Daß. 527. Comprendere qualcosa che è: come comprendere un tema musicale, qualcosa che non posso dire se qualcuno me lo chiede, ma posso solo ripetere per mostrare che ho capito. Ho capito che è così. 531. Ma non posso sostituire ciò che ho capito con qualcosa d’altro per dimostrare che ho capito. Ciò che ho capito è così e non può esser detto che così: non posso sostituire ciò che ho capito con qualcos’altro che ho già capito: come non posso sostituire le parole di una poesia per mostrare che l’ho capita. Comprendere una poesia è come comprendere una proposizione nella sua estrema evidenza. Comprendere una proposizione è come comprendere una poesia o un tema musicale. È una comprensione estetica, che guarda attraverso, getta lo sguardo su ciò che è, getta luce e chiarisce ciò che è sotto i nostri occhi. 533. La filosofia, come un guardare attraverso, descrive il senso, lo guarda in quanto tale, muove dalla meraviglia e dallo stupore che il mondo è, che questo è, e dice: “Ecco qui, ciò che è, lo comprendo nel suo tutto, uno, lo guardo nelle sue differenze e nelle sue connessioni, e lo lascio così com’è”. La filosofia è, così, estetica.
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