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di Silvia Paggi
Propongo qui, curandone la traduzione dal francese, la pubblicazione dell'articolo di Claudine de France L'antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente per diversi motivi. Innanzitutto gli scritti di Claudine de France - compreso il suo libro Anthropologie et Cinéma divenuto un punto di riferimento per chiunque si accosti seriamente alle problematiche dell'antropologia visiva - non sono mai stati pubblicati in Italia. Non c'è da stupirsi: nel panorama editoriale italiano brillano per assenza praticamente tutti i contributi stranieri in materia. In secondo luogo, in questo scritto è ben sintetizzato un punto di vista che l'autrice porta avanti da tempo, qui volto ad incentivare la costituzione dell'antropologia filmica (diversa denominazione di un ambito più conosciuto come antropologia visiva) come vera e propria disciplina, principale erede della multiforme esperienza del film etnografico. Infatti, l'edizione francese questo articolo è parte di un'opera collettiva dal titolo Du film ethnographique à l’anthropologie filmique(1), che raccoglie contributi di diversi ricercatori della Formation de Recherches Cinématographiques, centro di ricerca che opera da più di vent'anni all'Università di Paris X-Nanterre. Provenienti dall'ambito delle scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia), i ricercatori-cineasti che compongono l'équipe della ER.C., allievi all'origine di Jean Rouch e ora anche di Claudine de France (2) considerano ed usano il film come uno strumento e, al tempo stesso, come un oggetto di studio. Alcune considerazioni sulla fondazione dell'antropologia filmica. Rispetto alla costituzione dell'antropologia filmica come una disciplina a sé, sancita da Claudine de France in questo articolo, mi pongo una serie di interrogativi. Alcuni, che mi sembrano meno importanti, riguardano la scelta della denominazione; altri sono attinenti al progetto stesso, alle motivazioni di questa scelta ed alle conseguenze che essa può comportare. Già nell'introduzione a Cinéma et Antropologie (3), Claudine de France preferisce denominare "antropologia filmica" questo ambito di studi, usualmente più conoscíuto come "antropologia visiva"; scelta che ribadisce in questo scritto: È perciò partendo dal vasto campo esperienziale offerto dal .film etnografico e dalle produzioni a lui apparentate, che si sviluppa oggi questa nuova disciplina che, dal canto mio, qualificherei come antropologia filmica, preferibilmente ad antropologia visiva (infra). Non ci sono esplicite motivazioni per questa scelta ne nel lavoro del 1982 né nell'articolo cui qui si fa riferimento ma, per quanto mi è dato sapere, alla base di questa preferenza sta soprattutto la volontà di sottolineare la maggior pertinenza delle immagini in movimento rispetto, ad esempio, alle immagini fotografiche. Com'è noto, gran parte delle difficoltà che l’antropologia visiva incontra nella sua strutturazione, sono dovute al fatto che essa attinge le proprie conoscenze e i propri metodi da due settori disciplinari: l'antropologia e le scienze della comunicazione audiovisiva. Tra queste ultime, in effetti, la cinematografia (anche nella sua odierna forma elettronica) ha assunto un ruolo privilegiato. Per molti realizzatori, dalla cinernatografia etnografica all'antropologia visiva, la difficoltà risiede proprio nel riuscire a trovare un equilibrio soddisfacente tra le diverse, a volte contrastanti, esigenze di questi due grandi ambiti di riferimento. Dal mio punto di vista ho sempre considerato l'antropologia visiva come un proficuo campo di applicazioni all'interno degli studi antropologici, tant'è vero che uno dei maggiori punti di interesse risiede proprio nel suo mutuare dalle metodologie della ricerca antropologica ed al tempo stesso nelle modificazioni che in essa apporta. Le strumentazioni audiovisive sono così intese interamente al servizio della ricerca e della comunicazione nel campo degli studi antropologici. Di conseguenza, ho sempre interpretato il configurarsi, di fatto, dell'antropologia visiva in un ambito differenziato come una necessità contingente, dovuta alla novità della sua metodologia ed all'esigenza di crearsi un proprio spazio in cui potersi sviluppare. Una volta consolidata e riconosciuta, l'antropologia visiva si sarebbe potuta ritenere definitivamente integrata nelle metodologie della ricerca antropologica. La scelta di privilegiare lo strumento dell'indagine, il film, per identificare l'antropologia filmica come disciplina a sé mi lascia perciò perplessa. Ho sempre pensato che fosse semmai necessario il contrario: ancorare sempre più saldamente l'antropologia visiva alle problematiche dell'antropologia per ridurre al massimo i tentativi di fuga verso espressioni cinematografiche che non le sono proprie. Certamente, la resistenza degli antropologi a riconoscerne la validità non aiuta questo processo. Anche la perplessità a livello della scelta terminologica è, in qualche modo, collegata a questa mia concezione dell'antropologia visiva. Sebbene letteralmente l'aggettivo filmico denoti tutto ciò che ha attinenza all'arte cinematografica, nel corso della storia del cinema col termine film si è sempre più identificato un certo tipo di prodotto(4). Siccome penso che le produzioni dell'antropologia visiva possano, e debbano, essere spesso ben diverse da un film, assumere questa radice proprio come denotativa mi sembra un elemento che può indurre fraintendimenti. Problematica mi pare quindi anche la scelta di escludere da questo ambito di studi tutte le possibili forme di registrazioni audiovisive che non concorrano alla produzione di immagini in movimento. Non vedo ragione di privarsene soprattutto oggi, in un'epoca in cui, oltre alla fotografia, nuove tecnologie di produzione e comunicazione, come l'informatica e la multimedialità, aprono in campo audiovisivo ulteriori prospettive (di ricerca, di analisi e di diffusione) alle scienze sociali. Mi interrogo, infine, anche sull'opportunità di creare un'ulteriore specializzazione disciplinare quando oggi l'esigenza più forte mi pare semmai quella di un ritorno ad una più forte interdisciplinarità. Ma a questo riguardo si presenta un risvolto interessante, anche se apparentemente contraddittorio, in quanto, costituendosi come disciplina a sé, l'antropologia filmica sarà meno legata all'ambito strettamente antropologico e forse proprio per questo più aperta ad accogliere contributi provenienti dai diversi campi delle scienze sociali e persino da ambiti più lontani con i quali si avvisa oggi, anche nel dibattito antropologico, l'opportunità di momenti di convergenza. Espressi questi dubbi, forse di natura più formale che sostanziale, resta il fatto che le motivazioni e le analisi su cui Claudine de France fonda la sua scelta sono tutte, dal mio punto di vista, pienamente condivisibili. Se in futuro l'antropologia continuerà a stagnare rispetto all'introduzione delle nuove strumentazioni audiovisive di ricerca, a sottovalutare gli apporti metodologici di chi le usa, ad ignorare le conseguenti necessità di attrezzatura e di didattica, la configurazione di una disciplina a sé stante, qui sostenuta da Claudine de France, diverrà necessariamente il polo di attrazione, in quanto unica via praticabile. L'antropologia filmica e l'antropologia Tra le tematiche che Claudine de France espone in questo articolo un punto, a mio avviso, importante è la sanzione della necessità, per l'antropologia visiva, di mettere fine all'epoca delle variegate produzioni che spesso o hanno poco a che fare con gli studi antropologici o non presentano la necessaria competenza strumentale, teorica e metodologica che l'uso delle tecniche audiovisive, in questo campo richiede. Anche se non esplicitamente affermata nell'articolo, la necessità di una preparazione specialistica per questo ambito di studi è presente tra le righe e deducíbile dalle posizioni che Claudine de France sostiene. Bisogna dare atto alla "scuola di Nanterre" di essere una delle rare formazioni universitarie (o la sola?) che affronti seriamente una preparazione all'antropologia visiva da tutti i punti di vista: teorico, metodologico e tecnico-pratico. Per quanto riguarda i cambiamenti che questo tipo di approccio apporta nelle metodologie della ricerca antropologica, risulta essenziale l'analisi della differenza tra osservazione diretta e osservazione differita, considerata anche in relazione alla scrittura. Claudine de France insiste, riprendendo una tesi già sostenuta con forza da Margaret Mead, sul condizionamento aprioristico, sull'insieme della ricerca antropologica, implicito nella predominanza della scrittura come mezzo di comunicazione. Le carenze mnemoniche dell'osservazione diretta vengono, secondo questa analisi, costantemente corrette dal linguaggio che le veicola. Non solo: il linguaggio scritto determina a priori i temi e i modi dell'osservazione, indirizzandoli costantemente verso ambiti a lui più idonei. Perciò Margaret Mead definisce l'antropologia una disciplina di parole(5). Nell’articolo qui proposto, Claudine de France rafforza il punto di vista dell’antropologia filmica sottolineando come la stretta relazione che intercorre tra, da un lato, filmare, rivedere ed analizzare l’osservato filmato e, dall’altro, lo scrivere incida profondamente sulla metodologia della ricerca antropologica. (Perché) la riproduzione audiovisiva delle manifestazioni del reale comporta uno sconvolgimento nell'apparato di ricerca dell'antropologo, di cui egli non ha sempre coscienza ma che, prima o poi, lo induce a ripensare sia la natura e lo statuto dell'osservato che le relazioni "osservatore/osservato" e "parola/scrittura" in seno all'inchiesta antropologica (infra). L'osservazione filmica, infatti, abitua anche il ricercatore ad un altro modo di osservare. Ciò è in parte dovuto alla consapevolezza che le immagini registrate sono i dati, la materia prima su cui basare l'analisi e costruire la comunicazione. Inoltre, durante la ricerca sul campo, lo statuto di ricercatore-cineasta richiede e permette di assumere punti di osservazione, ma anche attitudini relazionali, impensabili per un osservatore ad occhio nudo. Liberando l'antropologia dall'univoca predominanza della scrittura, l'uso delle strumentazioni audiovisive, oggi anche informatiche, non modifica solo le metodologie della ricerca antropologica ma apre anche nuovi campi di studio. Possono così essere affrontate diverse tematiche, finora spontaneamente scartate, per le quali l'osservazione diretta e la scrittura non sono sufficienti a garantire un'analisi approfondita e quindi un buon esito della ricerca. L'attenzione e l'importanza che l'autrice attribuisce, anche in questo articolo, alla descrizione ~ ponendola come terzo principio fondamentale in antropologia filmica - denota la centralità dell'aspetto etnografico. Claudine de France sottolinea come proprio accordando all'accuratezza della descrizione uno spazio privilegiato l'antropologia filmica realizza appieno le ambizioni della ricerca etnografica, fornendole gli strumenti più adeguati. Innanzitutto, accordando alla descrizione un posto privilegiato, se non csclusivo, l'antropologia filmìca non si limita a imitare o prolungare l'etnografia classica. Essa ne diventa la piena realizzazione, finora ritardata, perché le fornisce finalmente lo strumento che si meritava. Col dovuto distacco che l'esperienza dell'immagine animata consente di prendere, l'etnografia classica, basata sul far ricorso all'osservazione diretta, all’inchiesta orale e alla scrittura associate, appare come un mero precursore dell'antropologia filmica. Senza voler scivolare nel finalismo, i modi di descrizione scritta da essa originati possono essere considerati come balbettii infantili in confronto alle possibilità descrittive offerte dal film etnografico. Per di più, le lacune della descrizione filmica possono essere colmate dallo scritto, a costante disposizione. Solo la gerarchia tra i diversi mezzi d'espressione utilizzati è sovvertita. Ciò significa che l'antropologia filmica offre per la prima volta i mezzi per una piena realizzazione della descrizione le cui possibilità, grazie all’immagine, cominciano appena ad essere sfruttate (infra). L'applicazione più pertinente e interessante dell'antropologia filmica è quindi, a mio avviso, quella che Claudine de France chiama la ricerca di base, ossia l'utilizzazione privilegiata delle strumentazioni audiovisive, da parte dell'antropologo stesso, fin dalla ricerca sul campo. Solo in questa configurazione, infatti, l'opzione audiovisiva si implica profondamente nella metodologia stessa della ricerca, influenzandone e determinandone la riuscita. L'importanza per l'etnografo di mettere in atto una metodologia adeguata alla situazione che si prefigge di documentare e studiare, permane anche nell'ambito dell'antropologia visiva, la quale deve ogni volta adattare le proprie scelte metodologiche alle esigenze che scaturiscono da una determinata ricerca. Non si tratta infatti di un modo come un altro di acquisire documentazione, ma di un modo che, se applicato coerentemente e consapevolmente, comporta specifiche metodologie di ricerca e influenza profondamente la relazione stessa tra i1 ricercatore e la gente studiata, ossia tra osservatore e osservato, tra filmante e filmato. In questa prospettiva, nella quale mi riconosco, le scelte che l'antropologo-cineasta attua (scelte di messa in scena, di comportamento, di metodologie d'inchiesta, ecc.) devono innanzitutto, adattandovisi, rispettare le esigenze dell'indagine etnografica sul campo. Da questo punto di vista, è quindi escluso qualsiasi elemento o comportamento che, dettato da altre esigenze (tecniche, artistiche, ecc.), entri palesemente in contrasto con gli obiettivi della ricerca di base. L'esplicito richiamo che Claudine de France fa alla disponibilità temporale del ricercatore-cineasti non è che uno, anche se fondamentale, di questi fattori imprescindibili per l'antropologo-cineasta, In conclusione, se ancora fino a non molto tempo fa ci si poteva nascondere dietro esigenze e condizionamenti tecnici per evitare di affrontare la necessaria riflessione metodologica di base che comporta l'introduzione delle strumentazioni audiovisive nella ricerca antropologica, soprattutto quella sul campo, oggi questo non è più credibile. Le tecnologie adatte ci sono. Quello che manca è un approccio serio e consapevole che permetta di approfondire questo settore disciplinare in ogni ambito, istituzionale o meno, che si prefigga di sviluppare la ricerca antropologica. L'articolo qui proposto mi pare vada proprio in questo senso, indicando con chiarezza e acutezza analitica quali sono i presupposti e i fondamenti necessari perché questo campo di ricerca trovi una struttura adeguata.
Note 1 Du film etnographique à l'anthropologie filmique. Textes ressemblés ci présentés par Claudine de France. Edìtions des archives contemporaines (1994). 2 Claudine de France, allieva di André Leroi-Gourhan, è Direttore di Ricerca al C.N.R.S., responsabile della F.R.C. e della Formazione Dottorale in "Cinema, televisione, audiovisivi" dell'Università di Paris X-Nanterre. 3 Cinéma et anthropologie, Paris, Maison des Sciences de l'Homme, (1982). 4 Così come con "cinema" è stato sempre più identificato lo spettacolo cinematografico, mentre il termine "cinematografia" ha mantenuto il suo significato originale di tecnica di riproduzione delle immagini in movimento. 5 Margaret Mead, Visual anthropology in a discipline of words", in Principles of visual anthropology (1975).
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