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Filosofia in immagini
“ Ma l’immagine mira allo scopo del vero…” Alcibiade (dal “Simposio” di Platone , 215 B)
“ L’immagine è un fatto ” Ludwig Wittgenstein (dal “Tractatus logico–philosophicus ” 2.141)
di Aldo Meccariello
Appunti per una ricerca
Nulla è così enigmatico come il concetto di immagine. Ma è possibile accostare termini come immagine e concetto ? Possono una serie di immagini materializzare un’astratta pensabilità? E’ come dare visibilità, riscontro visivo a ciò che per natura è invisibile cioè il concetto, è come affermare che si può guardare il pensiero allo stesso modo di un quadro o di un paesaggio. Come un raggio luminoso, l’immagine interrompe il continuum dell’astrazione innestando un diverso piano di significazione. L’intrecciarsi dei rapporti tra immagini e concetti suggerisce una radicale rivisitazione delle scritture filosofiche così come esse si sono sedimentate lungo la tradizione occidentale. Forse è necessario indagare sulla trama di figuralità che si è condensata sotto gli strati del pensiero astratto, forse è necessario scrutare il thauma, origine e arché del pensiero aurorale, lo stupore che ha generato la filosofia provocando estasi e vertigine al protofilosofo di Mileto mentre osservava appunto gli oggetti del cielo. In realtà - come aveva già notato Nietzsche[1] la traccia di pensiero figurale risale appunto agli antichi filosofi presocratici ove le immagini acquistano sempre più una dimensione autonoma e speculativa. Il rapporto tra immagini e concetti non è così semplice come potrebbe sembrare sulla base di uno schema dicotomico che isoli da un lato le immagini e dall’altro i concetti, cioè da un lato il mito, dall’altro il pensiero astratto; tale schema si è poi sedimentato nel linguaggio filosofico ove invece attraverso uno studio attento e analitico dei testi e delle opere, il nesso tra immagini e concetti è più scoperto ed evidente. Occorrerà perciò andare oltre quella inerziale prevenzione secondo la quale i filosofi, esperti nell’arte di creare i concetti, abbiano sempre polemizzato nei confronti delle immagini. Ma già Aristotele, in un passo del De Anima (III, 7, 431 a-b) affermava che “l’anima non pensa mai senza immagini”, nel senso che non esiste forma di pensiero che non si rapporti all’immagine . Se solo ripercorressimo storicamente alcune tappe del pensiero occidentale, allora si potrebbe partire da Platone che concepiva la filosofia ”una divina follia”, proseguire con Plotino, Agostino, i filosofi del Rinascimento, quindi Cusano, Bruno e poi Bacone , Vico, Leibniz, i filosofi romantici fino a Nietzsche , Bergson e Heidegger: si tratta di una linea di pensiero figurale, per certi aspetti, ancora tutta da tracciare e da ricostruire. Ma cos’è un'immagine? Quale è la sua costituzione? Come interagisce il pensiero con l’immagine? E questa con la realtà? [2]. Dell’immagine si può parlare in tanti modi perché in essa il visibile e l’invisibile si danno appuntamento in un gioco di rimandi reciproci; essa è una modalità attraverso cui il mondo si mostra, si manifesta. Un celebre passo di Heidegger nel saggio ”…poeticamente abita l’uomo” ci aiuta forse a capire come l’immagine non sia una copia, né un’illusione: “la parola usuale per indicare l’aspetto e l’apparenza di qualcosa è per noi Bild, «immagine». L’essenza dell’immagine è nel «far vedere» qualcosa. Per contro, copie e imitazioni (Abbilder, Nachbilder) sono già specie derivate della vera e propria immagine, che come aspetto visibile (Anblick) fa vedere l’invisibile e così lo immagina (einbildet) in qualcosa che gli estraneo..”[3]. L’immagine si annette, per così dire, l’estraneo e lo sconosciuto; ci mostra qualcosa che solo i poeti sanno intendere. Il dire poetante delle immagini raccoglie heideggerianamente il familiare e l’estraneo, l’ovvio e l’enigmatico in cui oscilla il nostro stesso essere nel mondo, il nostro abitare il linguaggio. Le imagines mundi ci provocano e ci espongono alle nostre origini e al nostro destino.
Lo scopo di questo breve saggio non è tanto quello di provare a classificare immagini e/o metafore nei testi filosofici[4], quanto di individuare alcune figure topiche in opere del pensiero occidentale a guisa di un glossario, al fine di evidenziare come il potere noetico dell’immagine abbia lievitato la teoresi e generato i concetti con esiti evidenti di trasgressione rispetto ai modelli di scrittura del pensiero astratto, sfatando un pregiudizio della modernità, secondo cui il pensiero o è logica o non è pensiero. Occorre piuttosto indagare come invece l’immagine intervenga nella costruzione della conoscenza, svolgendo una funzione nient’affatto periferica rispetto alla sensazione e all’intelletto. L’ipotesi di un pensiero che si guarda, che si sviluppa in forma di immagini che a loro volta producono concetti è ben lontana dalla facile e fuorviante dicotomia che mostri da un lato un pensiero per immagini, visivo e mitizzante e dall’altro un pensiero razionale, scientista e formale. In fondo la medesima contrapposizione tra logos e mythos generativa della nascita della filosofia affligge tuttora molta manualistica della storia della filosofia quando invece è una pura invenzione storiografica. Semmai le immagini mitopoietiche dell’inizio erano tutt’altro che ornamentali o decorative bensì esprimevano una forte creatività speculativa. J.J.Wunenburger, autore di un prezioso lavoro sulla filosofia delle immagini, analizzando come sia possibile il potere noetico dell’immagine propone, “malgrado l’assurdità delle dicotomie e l’ inattendibilità di ogni linea divisoria, di distinguere due tipi di categorie: le immagini immediatamente portatrici di sapere, quelle che lasciano che l’informazione incontri senza ostacoli la superficie delle figure (forme spaziali e immagini verbali); e le immagini mediatamente ricche di pensiero, quelle che necessitano di uno svolgimento interpretativo per esprimere tutta la loro profondità poetica”[5]. Nella forma di alcuni appunti di lettura, vorrei riferirmi alle immagini del secondo tipo attraverso un percorso che sarà volutamente parziale. Infatti discuterò di alcune immagini-visioni che fanno da luogo di origine della teoria e del pensiero.
Alcuni percorsi
Isole ed oceani
“Ogni attraccare e ogni salpare di nave è/- me lo sento dentro come il mio sangue-/incosciamente simbolico, terribilmente/ minaccioso di significati metafisici”. Così scrive un fine poeta come Fernando Pessoa[6] che assume il mare come la più scabrosa immagine poetica perché simboleggia l’incertezza e la inquietudine del vivere. Non è qui la sede per indagare come le immagini marine abbiano nutrito tanta letteratura e filosofia negli ultimi due o tre secoli, ma certamente l’affascinante immagine del mare come l’hegeliana distesa “assolutamente morbida dacché non resiste ad alcuna pressione, neppure ad un soffio” suggerisce percorsi possibili di natura teoretica che vede la ragione specchiarsi ora nella sua superficie ora nella sua profondità. Prendiamo due immagini marine, una di Bacone, l’altra di Kant, ma avremmo potuto sceglierne anche una di Hegel o di Nietzsche.
Chi si avventura in mare aperto sa che può attenderlo un naufragio. Isole e oceani, da sempre figurazioni simboliche di salvezza e pericolo, sono i luoghi fondativi della nostra civiltà, gli erasmiani luoghi della Follia, le “Isole Fortunate ove tutte le cose crescono senza semina né aratura, ove non v’è fatica, né vecchiaia […]” [7]. Il ricco mare Mediterraneo è sempre stato attraversato da viaggi, fughe, avventure che lo hanno trasformato in una corrente impetuosa che precipita verso i non-Luoghi d’Eropa [8]. Il frontespizio della Grande Instaurazione (1620) è di per sé emblematico: vi è rappresentata la navicella dell’ingegno umano nell’atto di oltrepassare le colonne d’Ercole. Il viaggio oceanico è una lunga, rischiosa avventura mai intrapresa prima. L’immagine baconiana è epica ed utopica insieme, aurorale e prometeica. Il moderno si apre con la rottura dei limiti con cui il Soggetto, auto-ponendosi, produce nuova esperienza e nuova razionalità. La novità del moderno inverte e rovescia i malinconici e patetici luoghi del passato (selve e labirinti)[9] e conduce all’esperienza aperta, alla traversata epico-avventurosa del Soggetto, novello demiurgo, ordinatore e modellatore della natura. La filosofia di Sir Francis Bacon nasce appunto qui, nella tensione allegorica di quest’immagine.
Immanuel Kant
Al filosofo di Königsberg spetta un posto di rilievo per aver offerto solide basi speculative alla questione dell’uso dell’immagine in filosofia. Nella Critica della Ragion Pura (1787) vi è un’immagine che ritorna costantemente : “(…) Noi abbiamo fin qui percorso il territorio dell’intelletto puro […] ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato con cura a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore) circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse, ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno ad ogni istante l’illusione di nuove terre”[10] . Il paesaggio è nordico. Nebbie, ghiacciai, f navyde terre circondate da oceani. Il filosofo è il guardiano di questi confini tra la terra e il mare, una specie “di agrimensore del noto”, mentre l’ignoto appartiene all’oceano misterioso che nessuna caravella potrà mai attraversare[11]. Bacone e Kant: il crocevia della filosofia moderna si snoda dalla costituzione della scienza come modello di manipolazione della natura allo sguardo del Soggetto che ordina la realtà fenomenica. A livello puramente teorico, in una comparazione tra l’immagine baconiana dell’oceano e quella kantiana, sembrano riprodursi movimenti e slittamenti semantici la cui densità connotativa e denotativa sembra assai più eloquente delle pure rappresentazioni concettuali. Dall’isola al mare: il potere costruttivo e non integratore delle immagini sovrasta i concetti del pensiero astratto. L’immagine del mare in Bacone e in Kant è superficie ma anche profondità che nasconde l’abisso il luogo inaccessibile per la ragione. Il filosofo che si mette per mare sa di rischiare di perdersi perché non sente più la terra sotto i piedi ma allo stesso tempo avverte che il suo pensiero perde il senso della gravità, proiettato a scandagliare im-possibili orizzonti.
Raggi e Sfere
Giambattista Vico
Il frontespizio della Scienza Nuova seconda è un’intensa costruzione figurale. Riassunto folgorante dell’opera, ma anche dell’idea che il moderno è una combinazione di modelli , di mondi e di linguaggi. “La donna con le tempie alate che sovrasta il globo mondano, o sia al mondo della natura è la metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali […]”[12] La potenza dell’immagine è un raggio luminoso che, sprigionatosi dalla luce accecante della provvidenza che ha la forma di una sfera, colpisce il petto di una strana figura coi piedi sopra un globo che rappresenta la metafisica che a sua volta riflette il raggio, duplicandolo, sul filosofo, il quale, con la barba bianca, sotto questa luce, può intendere la realtà degli uomini, conferendole senso e nessi di significati. Il mondo degli uomini è rappresentato da pochi simboli: il fascio (gli Stati monarchici), la spada (l’aristocrazia guerriera), il mercantile (l’aristocrazia mercantile), la bilancia (le Repubbliche popolari), e il caduceo (le monarchie moderne). La posizione del globo sta ad indicare che la metafisica è scienza univoca e unilaterale che assume Dio come fondamento del solo ordine naturale. Accanto ad essa si affiancano le scienze storiche, la vita delle nazioni e delle genti. La dipintura allegorica mostra come la ragione e l’autorità, la verità e la certezza siano una sola cosa. La filosofia è comprensione della storia e Vico non certo per voglia polemica riduce i domini della metafisica, dando dignità agli oggetti della Scienza nuova: la Storia. La dipintura vichiana si lascia afferrare e avvolgere dalla luce, icona possente della scienza e della metafisica moderna. La luce, elemento solare e divino, rivela le forme e i colori del mondo, mostra le cose che lo sguardo del filosofo scruta in una nuova dimensione. Dunque lo sguardo è visione congiunta alla luce. I raggi vichiani rinviano alla luce degli astri che si riflettono nella prosa galileiana del Sidereus Nuncius dove l’uomo per mezzo del cannocchiale si fa spettatore del mondo e nel silenzio osserva la bellezza dell’Universo. La luce è la manifestazione visibile dell’invisibile , e dona senso al mondo delle cose e degli uomini; la luce è il tramite tra la sfera celeste e quella sublunare, la luce accompagna ogni teofania. Chiave di volta delle concezioni che vedono come realtà cosmica essenziale la luce è la contrapposizione del mondo delle tenebre a quello luminoso. Nel canto XXVIII del Paradiso, Dante vede "un punto quindi che irraggiava lume acuto / sì che il viso che egli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume". Intorno a questo punto che irradia luce così potente che l’occhio si abbaglia e deve chiudersi a causa della intensità, intorno a questo punto che non ha dimensioni, si avviluppa un alone che è un cerchio di fuoco che gira con velocità immensa e poi successivamente si presentano i diversi cerchi angelici che in qualche modo sono - se si vuole - sempre più materiali tanto che aumenta la loro grandezza e diminuisce la loro velocità e luminosità. Così nell’immagine vichiana la luce sembra richiamare infinite suggestioni, molteplici istanze filosofiche neoplatoniche e cabalistiche, naturalistiche e scientifiche.
Spade e moltitudini
Thomas Hobbes
Quando nell’epoca moderna, nella durezza dei conflitti, la politica diventa intricato congegno, lo Stato si trasforma in un terrificante mostro Leviatano che esercita “imperio sopra li uomini” . Il frontespizio dell’opera (Leviatano 1651) mostra il corpo del Leviatano formato da una moltitudine ammutolita, mentre superbo e possente brandisce da un lato la spada e dall’altro lo scettro. “Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto… di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto, il Dio immortale la nostra pace e la nostra difesa”. [13] Il passo batte con insistenza sul tema della moltitudine, negata e svuotata di volontà: l’incorporazione della moltitudine che forma il petto del mostro è di per séun’unione ibrida, senza legame e/o rapporto alcuno con il Leviatano. L’immagine hobbesiana dell’uomo artificiale di proporzioni ciclopiche rispetto all’uomo naturale davvero suggerisce per la nostra indagine la legittimazione di un pensiero figurativo, ermeneuticamente fecondo. L’essenza del “politico moderno” come ordine e conflitto si raccoglie, si esprime figurativamente in una formidabile immagine apolide moltitudo/solitudo, unità senza relazione, legame senza cum[14], raffigurazione dello Stato-grande macchina. La funzione dell’immagine hobbesiana svolge la precisa modalità di costruire una teoria politica che è basata sul criterio della scienza. Le condizioni di pensabilità della natura nel secolo della rivoluzione scientifica sono le medesime per pensare quel corpo artificiale che è lo Stato.
Case sul Vesuvio
Non c’è dubbio che la scrittura nietzschiana sia una scrittura tutta innervata d’immagini. L’eclissi della filosofia è in lui tutt’uno con il rifiuto della funzione tradizionale della scrittura intesa come una forma di automatismo concettuale. L’immagine filosofica in Nietzsche si moltiplica in un gioco dionisiaco di potenti narrazioni e di dense allegorie, il cui significato resta sempre da cercare, dentro, dietro, o altrove. La verità del mondo è una falsa rappresentazione che gli effetti illusori della scrittura hanno contribuito enormemente a legittimare. “Per immensi periodi di tempo, l’intelletto non ha prodotto nient’altro che errori”[15]. E’ il punto alto della critica nicciana alla filosofia e alle sue storie. Il vero filosofo deve invece vivere pericolosamente, scagliarsi contro le terribili illusioni degli uomini esperti nella conoscenza. C’è un’immagine che si può prelevare dall’inesauribile laboratorio della scrittura nicciana ed è davvero incandescente: “Credete a me!- il segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il più grande godimento, si chiama : vivere pericolosamente (gefahrlich leben)! Costruite le vostre case sul Vesuvio […]. Finalmente la conoscenza stenderà la mano verso ciò che le spetta- vorrà signoreggiare e possedere, e voi con essa!.” [16] L’inattuale esortazione nicciana agli uomini della conoscenza è davvero stupefacente: la utopiana città del sapere deve essere costruita sulla terra vulcanica continuamente esposta a terremoti e a rivoluzioni continue, terra che non è fondamento, ma abisso. Nietzsche non sa che farsene del Kant agrimensore della solida isola “terra della verità”. Il Vesuvio, il leopardiano “sterminator Vesevo” è immagine della potenza e potenza dell’immagine: di distruzione e cancellazione del fondamento, del roccioso Io Penso kantianamente esaltato. Restano i movimenti sismici e gli strati di sabbia e di lava vulcanica. Del paesaggio vulcanico parla anche Walter Benjamin in straordinari passi che ricapitolano la vicenda del moderno come paesaggio di rovine: “nell’ordinamento sociale Parigi è il corrispettivo di ciò che è il Vesuvio nell’ordinamento geografico. Un massiccio minaccioso, pericoloso, un focolaio di rivoluzione sempre attivo. Ma come le pendici del Vesuvio, grazie alle stratificazioni di lava che lo ricoprono, si trasformarono in frutteti paradisiaci, così sulla lava delle rivoluzioni fioriscono come in nessun altro luogo, l’arte, la vita mondana , e la moda”[17] . Al di là di un ovvio accostamento tra l’immagine nietzschiana e quella benjaminiana, che si dispongono in un comune registro tra il geografico e l’archeologico, è sorprendente notare come il Vesuvio simboleggi la catastrofe della modernità. L’immagine archeologica del Vesuvio è l’immagine-rovina in cui si specchiano le leopardiane ”magnifiche sorti e progressive” del genere umano. Il filosofo- archeologo guarda ai ruderi del moderno per ricostruire la sua origine e la sua genesi[18].
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati e la bocca aperta che ha il viso rivolto al passato. […] Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[19] . L’immagine dell’Angelo attraversa l’intero pensiero benjaminiano che è intriso di potenza messianica. Come è noto, il tema dell’Angelo nella tempesta è la IX Tesi di filosofia della storia (1940): l’Angelo guarda al passato che appare come una immane catastrofe rovesciatasi ai suoi piedi. Tuttavia una tempesta lo spinge verso il futuro, pur continuando egli a volgersi verso il passato. Lo sguardo dell’Angelo si posa pensoso sul ”minuto e fragile corpo dell’uomo” che torna dal fronte del primo conflitto mondiale. Immagine folgorante e premonitrice della violenza distruttiva del ‘900. Le guerre di massa hanno mutato completamente il paesaggio degli uomini, ad eccezione delle nuvole da cui l’Angelo muove i suoi pensieri. Fra passato e futuro vi è rottura. Luogo di questa frattura è il tempo-ora che spazzando via ogni modello di progresso storico lineare, rivela una nuova storia capace di sprigionarsi dal passato. L’idea stessa di felicità non è rinviata al remoto fine della storia ma è il possibile non compiuto della situazione in cui viviamo “[…] tutta tinta del tempo, a cui ci ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita”. La storia è una prova di possibili che gli uomini devono cogliere nella irriducibilità misteriosa di ogni attimo[20]. Conclusioni provvisorie
Considero esercizi di letture le note che ho sviluppato intorno alle immagini proposte. Per un lavoro che in larga parte è ancora da fare. La filosofia non è più solo il luogo cristallino dei concetti ma un corpo di immagini che transitano e si trasformano tra le pieghe del testo. Una ricerca sulle immagini filosofiche non potrà pertanto risultare esaustiva perché investe i contenuti medesimi del pensiero. E se davvero la filosofia potesse davvero dipingere il mondo con le immagini ? ”Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”[21]. Capire che la realtà è invecchiata significa metterla ad una distanza che consente di ri-conoscerla: la filosofia può dipingere il mondo col suo grigio solo sul grigio. E se al chiaroscuro della celebre immagine hegeliana si affiancassero altri colori , altre tonalità cromatiche, altre immagini ? Quelle proposte sono immagini-visioni che dilagano e invadono la sfera del dicibile e del rappresentabile: se proviamo a collezionarle in una unica sequenza: - isole ed oceani, raggi e sfere, spade e moltitudini, case sul Vesuvio, angeli nella tempesta-impegnano la teoria ad una nuova vita.
[1] Friedrich Nietzsche, I filosofi preplatonici, a cura di Piero Di Giovanni, Bari, Laterza, 1994, pp.5-7. Vincenzo Vitiello, Vico e la Topologia, Napoli, Cronopio, 2000, pp.43-47 : «La distinzione tra immagine e realtà sembra netta e facile a cogliersi: ogni cosa è reale “in sé”, “immagine”per altro”.[…]La condizione, dunque, per cui qualcosa può essere immagine, è d’essere “con” altro, epperò “per ” altro. Di “per sé” nessuna cosa è immagine. Presa isolatamente una cosa non può essere immagine. Ma può essere realtà ?». Martin Heidegger, “...poeticamente abita l’uomo”, in Saggi e discorsi (1954), tr.it., ediz.it. a cura di G.Vattimo, Milano, Mursia, 1976, p.135. Si rinvia al capitolo 4 del volume elettronico di Frédéric Cossutta, La funzione delle metafore nei testi filosofici, dal sito www.ilgiardinodeipensieri.com . L’Autore analizza lo statuto teoretico della metafora, all’opera nei testi filosofici. Egli non si limita a classificare le forme del ricorso alla metafora, ma cerca di comprendere le regole che la governano e la sua precisa funzione all’interno del testo. Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Torino, Einaudi, 1999, p.272. F.Pessoa, Poesie di Alvaro de Campos, Adelphi, Milano 1993, p.67. Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Milano, Mursia, 1966, p.35. Si veda il volume di Massimo Cacciari, L’Arcipelago, Milano, Adelphi, 1997. Per l’Autore, l’immagine più appropriata per designare l’identità filosofica dell ‘Europa è l’Arcipelago le cui isole custodiscono e testimoniano la storia-destino del vecchio Continente. Francesco Bacone, La grande instaurazione, Prefazione, in Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975 pp.526-7. Immanuel Kant, La Critica della Ragion Pura, a cura di Vittorio Mathieu, Bari, Laterza, 1977 , p.243. Remo Bodei, Scomposizioni , Torino, Einaudi, 1987, pp. 61-68. Rinvio a queste pagine di straordinaria intensità che assumono l’immagine nautica kantiana come luogo di passaggio al pensiero romantico.[12] G.B.Vico, La Scienza Nuova, Idea dell’opera, in Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990. Tommaso Hobbes, Leviatano, a cura di G. Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp.167-168. Si veda il saggio di Roberto Esposito, Communitas, Torino, Einaudi, 1998. L’ Autore tende ad assumere il paradigma dell’immunizzazione come nucleo costitutivo dell’antropologia politica hobbesiana. Il significato originario di comunità cum munus si rovescia nell’autonomizzazione del munus e nella soppressione del cum. Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza e Idilli di Messina, Milano, Adelphi, 1992, afor. 110 , p.150. Ivi, afor.283, pp.203-204. Walter Benjamin, Opere complete IX. « I passages » di Parigi a cura di R. Tiedemann, ed.it. a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi 2000, p.88. Su questo tema , si veda l’intrigante saggio di Luisa Bonesio, La terra invisibile, Milano, Marcos y Marcos 1993. Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e Frammenti, Torino, Einaudi, 1976, pp.76-77. Per una lettura sorprendente ed originale dell’idea messianica di W.Benjamin in connessione con l’idea di S. Paolo nelle Lettere si veda il volume di Giorgio Agamben, Il tempo che resta, Torino, Bollati Boringhieri 2000. G.W. F.Hegel- Lineamenti di una filosofia del diritto- Bari, Editori Laterza 1974, p.20.
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