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"il visibile è leggibile, udibile, intelligibile". "niente da fare: la fotografia ha qualcosa |
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Lo statuto dell’immagine tra icona e simulacro
Ricordando
con rammarico, in una recente udienza papale, che
diversamente dal volto di Cristo, tradizionalmente
conosciuto nelle immagini acheropite e della Veronica in S.
Pietro e del Volto Santo nel duomo di Lucca, non conosciamo
affatto il volto della Vergine Maria, è stato Giovanni
Paolo II a richiamare ancora oggi l’attenzione sulla
centralità delle immagini nell’esperienza religiosa,
sulla loro forza spirituale e, più in generale, sulla loro
straordinaria capacità comunicativa, evocativa e
persuasiva, memore forse di quella insuperata triade
funzionale delle immagini compendiata da San Tommaso, fatta
di capacità istruttiva (da esse si può imparare come dai
libri), rammemorativa (portano memoria delle cose sante e le
fanno facilmente ricordare) ed emozionale (stimolano alla
devozione)[1].
E non poteva essere altrimenti, dal momento che
l’Occidente cristiano, superato l’interdetto
veterotestamentario dell’immagine, cui rimane invece
fedele la tradizione giudaica, battezzato a nuova vita alla
fonte del secondo Concilio di Nicea, nel quale veniva
sancita non solo l’eresia iconoclastica e quindi la liceità
dell’immagine, ma, cosa ben più importante, la sua
venerazione, e passato attraverso la straordinaria
esperienza iconica del Barocco, che rappresenta la risposta
cattolica più energica alla furia iconoclastica della
Riforma protestante, pur tra grandi difficoltà e conflitti,
si è andato sempre più configurando come una vera e
propria civiltà dell’immagine, della visione, che è poi
all’origine stessa di quella che è stata chiamata
l’odierna civiltà dell’immagine, in cui il segno visivo
nelle sue più disparate manifestazioni, come si vedrà, ha
ormai acquistato una potenza sconfinata ed un ruolo del
tutto autonomo[2] Per
interrogarsi sullo statuto dell’immagine oggi occorre pertanto prendere
le mosse dalle origini stesse delle nostre tradizioni religiose e culturali
e fare quindi i conti, in modo specifico, con quel momento fondamentale
della nostra cultura, che nella battaglia sulle immagini, il Bilderstreit,
ha visto la contrapposizione tra iconofili e iconoclasti e che nel secondo
Concilio di Nicea ha poi trovato la sistemazione religiosa e dottrinale
più elevata alla questione dell’ È
noto che l’argomento principale contro l’icona deriva
dalla proibizione di fabbricare immagini contenuta
nell’Antico Testamento: “Non farai immagine o figura
alcuna né di ciò che si trova nell’alto dei cieli, né
di ciò che si trova sulla terra e di ciò che si trova nel
profondo degli abissi”[3].
Come si legge più estesamente nel Deuteronomio:
“Poiché non vedeste alcuna figura nel giorno in cui il
Signore vi parlò sull’Oreb, sul monte, dal fuoco, state
bene in guardia per la vostra vita. State bene in guardia
per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi
facciate la figura scolpita di qualche idolo - qualunque
immagine! -, la figura di maschio o femmina, la figura di
qualunque animale che è sulla terra, la figura di ogni
uccello che vola nel cielo, la figura di ogni rettile che
striscia sul suolo, la figura di ogni pesce che vive nelle
acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e
vedendo il sole, la luna, le stelle, tutte le schiere del
cielo, tu non sia tratto in inganno prostrandoti e adorando
quelle cose” (IV, 15-19). Fedele a questo divieto, il
monoteismo ebraico (nonché quello islamico), rimasto
fondamentalmente aniconico per il rifiuto di qualsiasi
concezione antropomorfica della divinità, come emerge già
nei primi comandamenti del Decalogo, ha fissato l’identità
tra iconismo e idolatria (eikon, eidolon), e
in questo senso ne ha sancito la perenne condanna[4].
Diverso, invece, il caso della tradizione cristiana, unica
eccezione tra i grandi monoteismi, al cui interno, pur non
mancando spinte aniconiche, comunque sempre in funzione
anti-idolatrica, ha prevalso una certa considerazione
positiva dell’immagine. Nel cristianesimo dei primi
secoli, ad esempio, bene attestata è l’esistenza di
oggetti e immagini simbolici, così come la presenza di
affreschi nelle catacombe, nei luoghi di assemblea e di
culto, spesso riguardati con vera e propria venerazione. Ma
in una prospettiva più ampia, si pensi ancor più
all’affermazione di S. Paolo secondo la quale “Cristo è
l’icona di Dio” (2 Cor., 4, 4), “icona del Dio
invisibile” (Col. 1, 15), al concetto giovanneo
dell’incarnazione del logos in Cristo (“E il Verbo si è
fatto carne”), oppure a quello di resurrezione dei corpi
nel giorno del Giudizio. Si tratta, evidentemente, di
qualcosa di più di semplici concessioni iconiche. In essi
è già implicito il riconoscimento della dignità della
figura umana e del mondo che essa rappresenta, che affonda
le radici in uno dei principi stessi dell’antropologia
cristiana, nell’idea centrale secondo cui Dio creò
l’uomo “a sua immagine” (ad imaginem) e “a
sua somiglianza” (ad similitudinem) (Genesi,
I, 26). Ed è a questo concetto di somiglianza che occorrerà
allora rifarsi per trovare la vera legittimazione
dell’immagine, che così intesa allontana dal pericolo di
cadere nell’idolatria. In questo contesto, il dibattito
sull’immagine si lega pertanto sia alla definizione
dell’essere dell’uomo, sia a quella della natura del
Figlio, volto e icona perfetti del Padre
divino[5] 2.
Nicea
e il diritto all’ Momento
centrale per la definizione dell’immagine così come oggi
la intendiamo è la famosa controversia sulle immagini
dell’VIII e IX secolo, che scoppiata nell’Oriente
bizantino presto si estese all’Occidente, in cui si
alternarono fasi di iconoclastia e di iconodulia e il cui
esito teorico più importante è rappresentato dal Secondo
Concilio di Nicea. Il settimo concilio ecumenico della
Chiesa Cattolica, tenutosi nel 787 nella “illustre
metropoli di Nicea dell’eparchia di Bitinia”, ebbe
notevoli conseguenze non solo in campo religioso, politico e
spirituale, restaurando il culto delle immagini nelle chiese
e ammettendo che la loro venerazione era conforme
all’ortodossia e “a Dio piacente”, ma anche in campo
estetico, artistico, e più ampiamente culturale, dando il
via ad una rinnovata produzione di oggetti d’arte e a
nuove formulazioni estetiche. Nel corso di questa
controversia il pensiero bizantino si trovò impegnato in
un’ampia gamma di questioni che andavano dalla sfera più
propriamente teologica e religiosa (Cristo e la sua natura)
a quella politica (i rapporti tra chiesa e impero), a quella
più strettamente estetico-artistica (natura e fini
dell’arte)[6].
Sicché la controversia sulle immagini si trasformò presto
in una controversia sulle idee, su prospettive di pensiero,
vere e proprie Weltanschauungen tra loro opposte, che
ebbe naturalmente anche pesanti ripercussioni sul piano
immediatamente pratico: nelle fasi del più violento
iconoclasmo si arrivò infatti alla distruzione di quasi
tutta l’ A
Bisanzio si scontrarono così due diverse dottrine
teologiche ed estetiche, come ben rileva Wladyslaw
Tatarkiewicz: quella “pittorica” dei Greci e quella
“astratta” dell’Oriente, benché si debba osservare
che variamente articolate, molteplici e anche tra loro
intrecciate erano le fonti e le ideologie delle due
tradizioni. L’accusa di idolatria, ad esempio, lanciata
agli iconofili per la venerazione delle immagini e dei
simboli antropomorfi, poteva in realtà essere facilmente
ribaltata anche sugli iconoclasti, per il culto riservato
all’effigie dell’imperatore (sugli stendardi, i vessilli
o le monete). Il ritratto dell’imperatore non era in
questo senso affatto dissimile dall’immagine di Cristo,
giacché il credo iconoclasta imperiale imponeva il culto
dell’immagine divina vivente storicamente incarnata
nell’imperatore. La stessa finale supremazia degli
iconofili in questa controversia, la vittoria quindi
dell’immagine sull’astrazione, rappresenta bensì la
vittoria della tradizione ellenica, nondimeno “conseguita
mediante il ricorso ad una teoria mistica. Solo il
misticismo poté salvare il culto delle immagini
nell’impero d’Oriente”[7] A
questo punto ci si potrebbe tuttavia chiedere: come mai una
fede che era cominciata con un esplicito interdetto della
rappresentazione, attaccando violentemente la creazione di
immagini e resistendo ad esse fino alle estreme conseguenze,
continuamente travagliata da una forte tentazione
iconoclastica nell’intento di rifuggire dall’idolatria,
ancora ostile all’immagine nel suo atteggiamento di fondo,
in quanto legata ad una concezione di tipo platonico che
vedeva nel segno visivo il regno delle mere apparenze
distinte dalle essenze, delle ombre illusorie solo fonte
d’inganno, ha successivamente finito non solo con
l’accettare la presenza delle immagini nel culto
religioso, ma ha addirittura capovolto il divieto in
permesso e il permesso in consolidata consuetudine, in
necessità A
ben vedere, se si presta un po’ d’attenzione, come si
diceva anche prima, non si può non notare che, di là
dall’interdetto biblico, l’immagine appartiene alla
natura stessa del cristianesimo, giacché esso si fonda
sulla rivelazione non solo del Verbo ma anche
dell’Immagine di Dio, manifestata dal Dio che si è fatto
uomo, tale che Giovanni può dire: “colui che ha visto me,
ha visto il Padre” (XIV, 9). Sicché l’esistenza
dell’immagine nel Nuovo Testamento viene quasi ad essere
presupposta, implicita nella proibizione contenuta
nell’Antico Testamento: essa scaturirebbe proprio dal
vuoto figurativo veterotestamentario, ne sarebbe come la
conseguenza e l’inveramento, il suo unico compimento.
L’antecedente dell’immagine cristiana, infatti, non è,
come potrebbe prima facie sembrare, l’idolo pagano,
la statua di Zeus, quanto piuttosto l’assenza stessa
dell’immagine, il vuoto figurativo, la mancanza di
un’immagine concreta prima dell’ Ed
è Giovanni Damasceno che meglio di altri si fa interprete e
portavoce di questa posizione nei suoi Contra imaginum
calumniatores orationes tres[8],
che rappresentano una delle vette più elevate della
dottrina della Chiesa a proposito delle immagini sacre. Il
suo rappresenta il primo compiuto tentativo, che spicca per
vigore e originalità Egli
ricorda anzitutto che l’Antico Testamento non vieta espressamente le
“immagini”, quanto piuttosto gli “idoli”, e distingue pertanto tra “adorazione”,
riservata solo a Dio, e “venerazione”, rivolta invece ai santi, alle
reliquie o alle altre immagini e oggetti sacri. La venerazione di cui
le immagini sono oggetto è inoltre un culto che non si concentra sulla
materia che le costituisce, ma si rivolge all’originale, transita verso
il prototipo divino cui l’immagine rimanda. È infatti su questa somiglianza
tra immagine e originale che si fonda il culto, sicché nel venerare
un’immagine sacra è Dio stesso che si venera: non tanto il legno di
cui è fatta la croce, ma il simbolo della passione e della morte di
Cristo. “Le cose materiali per se stesse non meritano venerazione, ma
se rappresentano chi è pieno di grazia, il sostenere che esse partecipano
di quella grazia è conforme alla fede” (PG 94, 1264). In questo
senso l’immagine e l’idea sono inseparabili, giacché per il Damasceno
l’immagine è l’ Su
questa linea, come è noto, si muoverà il Secondo Concilio di
Nicea, nella sua formulazione conclusiva ed essenziale, che grande importanza
avrà per la storia dell’immagine in Occidente e per lo stesso sviluppo
dell’arte occidentale: “[...] noi definiamo con ogni precisione e diligenza
che, accanto all’immagine della preziosa e vivificante croce, le sante
e venerabili icone, fatte di colori, di pietre preziose o di altro materiale
adatto, vengano innalzate nelle sante chiese di Dio e applicate sui
sacri vasi e paramenti, su muri e tavole, nelle case e nelle strade;
che siano icone del Signore, Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, e dell’immacolata
Signora nostra, santa Madre di Dio, e degli onorabili angeli, di tutti
i santi e degli uomini venerabili. Quanto più di continuo, infatti,
essi vengono visti attraverso la rappresentazione iconica, tanto più
coloro che le guardano vengono innalzati al ricordo ed all’ardente desiderio
dei prototipi. E dichiariamo anche che si può tributare loro un affettuoso
saluto ed una venerazione fatta di onori: non l’autentica adorazione
della nostra fede, che è dovuta soltanto alla divina natura, ma lo stesso
tipo di venerazione tributata alla forma della preziosa e vivificante
croce, ai santi Vangeli ed alle altre cose sacre dedicate a Dio. Ancora
dichiariamo che si può fare, in onore loro, offerta di incenso e di
luci, secondo il pio costume degli antichi, “l’onore tributato all’icona,
infatti, passa al suo modello”. E chi venera l’icona, venera l’ipostasi
di colui che è dipinto in essa, giacché così è rafforzato l’insegnamento
dei santi Padri nostri, e cioè la tradizione della santa Chiesa universale,
che ha accolto il Vangelo da un confine all’altro della terra”[9] E
a proposito del Concilio di Nicea, si deve rilevare che non
è un caso che i padri del niceno secondo si preoccuparono
di confutare le argomentazioni dell’eresia iconoclastica
appoggiandosi e discutendo proprio sui numerosi passi tratti
dall’Antico Testamento, in cui più forti erano le
resistenze alla raffigurazione del sacro. Ciò perché ora,
alla luce della dottrina dell’incarnazione, i divieti
biblici vengono riletti secondo il disegno provvidenziale
della salvezza esposto nel Nuovo Testamento, e quello che
per Israele sembrava necessario per scongiurare il pericolo
dell’idolatria, ora non ha più senso, giacché con
l’evento dell’Incarnazione del Verbo quel pericolo è È
così lo stesso Damasceno che, contro gli iconoclasti fedeli
alla mera lettera del divieto biblico, mostra precisamente
che l’immagine cristiana è la diretta conseguenza
dell’interdetto biblico, ne è anzi come l’esito ultimo
e l’essenziale inveramento, in quanto procede
dall’intima natura stessa del cristianesimo, che si fonda
sull’incarnazione, per cui “è chiaro che, quando tu
abbia visto che Colui che è incorporeo è diventato uomo a
causa tua, allora farai l’immagine della sua forma umana;
quando l’Invisibile sia diventato visibile per la carne,
allora raffigurerai l’immagine di Lui che è stato visto;
quando Colui che nella sovrabbondanza della sua natura è
senza corpo e senza figura, incommensurabile ed atemporale,
quando Colui che è immenso e sussistente nella forma di
Dio, si sia invece ristretto alla misura e alla grandezza,
dopo aver preso la forma di schiavo, e si sia cinto della
figura del corpo, allora riproduci la sua forma su di un
quadro, ed esponi alla vista Colui che ha accettato di
essere visto. Di Lui riproduci l’inesprimibile
condiscendenza, la nascita dalla Vergine, il battesimo nel
Giordano, la trasfigurazione sul Tabor, le sofferenze
generatrici d’immortalità, i miracoli-segni della sua
divina natura che furono compiuti con virtù divina
attraverso la virtù del corpo, la croce salvatrice, la
sepoltura, la risurrezione, l’ascesa al cielo. Tutte
queste cose descrivi con la parola e con i colori”[10] Di
qui la centralità dell’evento cristiano dell’incarnazione, su cui solo
è possibile fondare il discorso del culto e della venerazione delle
immagini sacre e pertanto scorgere “la vera e propria legittimazione
per la rappresentazione immaginifica di tutto l’ambito della rivelazione
cristiana all’interno della Chiesa”[11].
Senza il mistero dell’incarnazione l’immagine scadrebbe a puro nulla,
a vuota menzogna, illusione diabolica, falsità, senza la kénôsis,
l’annichilimento, l’abbassamento di Dio a uomo, l’annullamento assunto
dal Figlio nel suo lungo esilio dal Padre, la rappresentazione diventerebbe
mero orpello. Tutta qui è la giustificazione dell’icona, la possibilità
propria solo del cristianesimo, tra tutti i monoteismi, di dare spazio
alla raffigurazione della divinità, di rappresentarla in figure umane
sotto forma di immagine dipinta o scolpita, e di adorarla per il tramite
di questa sua stessa raffigurazione. E tutta qui è pertanto anche la
possibilità di essere del sensibile e del visibile, fragile e caduco
certo, ma che nelle forme dell’arte ne celebra anche la luce e lo splendore.
Sicché, sembra cogliere perfettamente nel segno il patriarca Niceforo
quando afferma: “se si sopprime l’immagine, non è il Cristo ma l’universo
intero che scompare”. La teologia dei padri della Chiesa stabilisce
dunque le condizioni di possibilità dell’immagine divina e di conseguenza
dell’ “Nei
tempi antichi Dio, incorporeo e senza forma, non poteva
essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio
è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza
di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è
stato visto”[12],
continua il Damasceno. Così “attraverso la pittura delle
immagini contempliamo l’effigie della sua figura corporea,
dei suoi miracoli e delle sue sofferenze, siamo santificati
e confermati, gioiamo, siamo proclamati beati e prestiamo
rispetto, onore e venerazione alla sua figura corporea.
Contemplando la sua figura corporea noi consideriamo per
quanto è possibile anche la gloria della sua divinità”[13].
In questo senso, le immagini così intese non sono
fuorvianti, non possono condurre all’idolatria, perché
ora conosciamo l’immagine di Dio nel mondo dell’uomo,
“abbiamo ricevuto da Dio la facoltà del discernimento e
ben sappiamo che cosa viene raffigurato da un’immagine e
che cosa invece non è circoscritto da essa”[14].
È dunque l’incarnazione stessa di Dio che autorizza a
rappresentare il Figlio con sembianze umane e fa sì che la
venerazione non vada all’immagine in sé Ma
se è così, l’Antico Testamento non è che la
prefigurazione del Nuovo; con il suo contrapporre la parola
alla visione non si verrebbe pertanto a proibire
l’immagine in assoluto, ma solo a preparare la nuova
immagine neotestamentaria di Dio, che si mostra nella
Persona del Verbo incarnato. Così, annota Leonid Uspenskij,
“la proibizione di rappresentare il Dio invisibile
contiene implicitamente la necessità di rappresentare Dio,
una volta che le profezie si siano adempiute. Le parole del
Signore: “Voi non avete visto immagini; quindi non
fatene”, significano: “Non fate immagini di Dio finché
non l’avrete visto””[15].
Si potrebbe pertanto conclusivamente rilevare che proprio
nella misura in cui viene assicurato il rispetto del suo
veto viene per ciò stesso salvaguardato anche il diritto di
essere dell’immagine[16] E
tuttavia si deve pur rilevare che, mai dimentico di questa sua originaria
natura di divieto, il recupero che lo spazio rappresentativo viene assumendo
col cristianesimo è ben lungi dall’essere definitivo, acquisito cioè
una volta per tutte, anche perché esso avviene, come scrive Gianni Carchia,
“tramite l’impiego della nozione equivoca di figura. Ché questa, se
da un lato, affermandosi - ben più che come semplice parusia del
logos - come verità incarnata integralmente sottomessa
al destino terreno, fa saltare inizialmente, ponendo l’urgenza della
propria realizzazione, i limiti sociali e ideologici insieme del razionalismo
e dell’eudemonismo tardo-ellenistici, dall’altro, lavora incessantemente
a porre l’esigenza storica e concreta che la definisce al servizio della
trascendenza, dell’ideologia e, in definitiva, della propria autodistruzione”[17].
Sembra perciò che nel momento stesso in cui è posta, l’immagine viene
anche negata nella sua autonomia rappresentativa. Sicché, come mossa
dall’ansia della sua fine, essa rimane ancora indecisa nel proprio statuto,
in bilico per un suo effettivo riscatto come spazio rappresentativo
autonomo, al di là Si
tratta però, in fondo, del “paradosso” del
cristianesimo stesso, dello scarto che al suo interno sempre
si manifesta tra il rilievo dell’esteriorità figurale
dell’immagine, tanto maggiore nelle forme rigogliose
dell’arte religiosa, e la propensione per la via
dell’interiorità pura dello spirito, che nel proprio
cammino espunge tutto ciò che è parvenza di mera forma.
Paradosso compreso e tematizzato a fondo forse da nessun
altro come da Hegel, come ricorda ancora Carchia, anche
nelle sue riflessioni estetiche sull’arte classica e
l’arte romantica[18].
Ma questa dialettica di storicità e trascendenza, visibile
e invisibile nello spazio rappresentativo cristiano non è
che la peculiarità della stessa fede cristiana, intimamente
segnata proprio dal paradosso e dallo “scandalo”
dell’evento chenotico, il cui presupposto fondamentale si
può forse compendiare nell’espressione: finitum capax
infiniti. Ed è in definitiva su di esso che si basa il
riconoscimento fondamentale del valore dell’apparenza
sensibile, il diritto all’immagine e, in ultima istanza,
la legittimazione dell’opera d’arte, da cui lo sviluppo
e la straordinaria ricchezza delle arti figurative
nell’occidente cristiano[19] Ed
è allora entro questo quadro concettuale, per giungere a
posizioni più recenti, che Gadamer, ad esempio, può
parlare dell’immagine come evento ontologico, di un modo
di essere dell’immagine che non si può comprendere
adeguatamente come un semplice oggetto della soggettività
estetica. Essa è un fatto ontologico in cui l’essere si dà
in una manifestazione visibile dotata di senso, tale che
nella rappresentazione viene a presentarsi un di più di
essere, una “crescita nell’essere”, dice Gadamer. Ed
è infatti nell’immagine religiosa che ciò si verifica in
modo esemplare: “solo l’immagine religiosa può
evidenziare tutta la portata ontologica dell’immagine. È
della manifestazione divina che davvero si può dire che
essa acquista il suo carattere di immagine proprio
attraverso la parola e la figura. Il significato religioso
dell’immagine si rivela dunque esemplare. In essa risulta
inequivocabilmente chiaro che l’immagine non è copia di
un essere raffigurato, ma ha una comunione ontologica con il
raffigurato. In base a questo esempio si fa evidente che
l’arte, in generale e in un senso universale, apporta una
crescita nell’essere in quanto gli conferisce il carattere
d’immagine. Parola e immagine non sono semplici aggiunte
illustrative, ma fanno sì che ciò che esse rappresentano
sia davvero completamente ciò che è”[20] Alla
base di questa prospettiva gadameriana è evidentemente
all’opera il superamento della logica del platonismo, il
rifiuto della concezione platonica dell’immagine come mera
copia sensibile, come semplice imitazione di un originale
sovrasensibile[21],
a vantaggio di una nuova concezione che vede l’immagine
come repraesentatio, nel senso etimologico di
“tenere in luogo di”, quindi rendere presente, far
essere presente. Allora, “se intendiamo l’immagine come repraesentatio,
fornita quindi di una sua propria valenza ontologica,
dovremo modificare essenzialmente, anzi rovesciare quasi, il
rapporto ontologico tra originale e copia. L’immagine ha
in tal caso una sussistenza autonoma che agisce anche
sull’originale. Propriamente, è infatti solo attraverso
l’immagine (Bild) che l’originale diventa
immagine originale (Ur-Bild), è solo in virtù
dell’immagine che il rappresentato diventa davvero
qualcosa che si dà in una immagine (bildhaft)”[22].
L’immagine, l’apparire sensibile, non è così più mera
parvenza, illusione, copia, ma repraesentatio, vale a
dire vera e propria presenza di essere, aggiunta di essere,
essere che si dà in presenza. Gadamer può così parlare
anche di magia dell’immagine, che si verifica
quando si ha una perfetta “identità e indistinzione tra
immagine e soggetto raffigurato”, sembrando così
richiamarsi direttamente alle dottrine dei padri greci, a
Teodoro Studita, ad esempio, il quale spingendosi anche
oltre il Damasceno, sosteneva esattamente non solo la
somiglianza, ma addirittura l’identità di Cristo con le
sue immagini, giacché se così non fosse Dio non potrebbe
essere il vero prototipo di quelle immagini[23].
Come un’ombra è inseparabile dall’oggetto che la
produce, così l’immagine è Siamo
in questo modo tornati nell’alveo della più pura
iconofilia, di cui abbiamo visto le radici nella teologia
dei padri orientali e alcuni sorprendenti affioramenti nel
pensiero di Gadamer, ma il cui interprete principale nel
pensiero contemporaneo, che merita ora una certa
considerazione, deve essere individuato nell’ 3.
Porta
dell’invisibile: l’ A
partire dalla cultura bizantina, la difesa più intrepida
della posizione iconofila sembra essere rimasta intatta solo
nell’ambito della religione ortodossa, in cui uno sviluppo
mai interrotto ebbe la produzione di immagini sacre (icone),
e nel cui orizzonte si deve infatti collocare la riflessione
sull’icona di Florenskij, sviluppata ai primi del
Novecento, che appare ancora oggi come la più Anzitutto,
secondo Florenskij, ciò che qualifica in modo essenziale
l’icona è il fatto di essere un’immagine sacra e la sua
prima e fondamentale determinazione è pertanto quella di
appartenere al culto. Sicché a fondamento dell’icona sta
un’esperienza spirituale, la percezione di un’autentica
esperienza spirituale sovramondana. “Come una visione
sfolgorante, straripante di luce si mostra l’icona. È
come se essa non fosse circoscritta, non puoi parlare di
questa visione altrimenti che con la parola: soverchia.
Si riconosce che è superiore a tutto ciò che la circonda,
situata in uno spazio tutto suo e nell’eternità”[24].
Essa, dunque, non può mai essere separata da questa sua
espressione liturgica e spirituale: centrale per la sua
esperienza è infatti la stessa pratica liturgica mediante
la quale l’ Ma se è così, si spiega anche perché le icone non sono il prodotto della fantasia creatrice dell’artista, e neppure l’espressione di un singolo individuo, ma sono manifestazioni della realtà divina originaria. L’icona non è infatti un oggetto artistico, il risultato di una creazione individuale, una rappresentazione sensibile di alcunché, ma più essenzialmente “rivelazione” e “testimonianza”. Essa è “conferma e proclama, annuncio per mezzo di colori del mondo spirituale”[25]: porta regale, dunque, attraverso cui entriamo in contatto con il mondo spirituale, attraverso cui facciamo esperienza della vita dello spirito. Ecco perché “ogni icona è una rivelazione”. Secondo
Florenskij l’icona sarebbe come una finestra, posta al confine tra il
mondo umano e quello divino, alla quale i celesti si affacciano sul
nostro mondo e, allo stesso tempo, attraverso la quale noi stessi possiamo
gettare uno sguardo sul mondo divino. Nel segno visibile, nelle forme
colorate dell’icona, si manifesta l’invisibile, irrompe la sua potenza.
Il Cristo e la madre di Dio nell’icona sono vere e proprie manifestazioni
spirituali, rivelazioni della realtà divina che attraverso l’ È
allora chiaro come, secondo questa visione, l’immagine non
possa essere pensata alla stregua di una mera
rappresentazione di un modello, come la semplice
raffigurazione di un originale. L’icona esula da tutto ciò.
Essa non è affatto imitazione dell’originale, non
rappresenta alcunché che sta al di là di essa, ma è
l’originale essa stessa: “è lei stessa - non la sua
raffigurazione, ma Lei stessa, contemplata attraverso la
mediazione, con l’aiuto dell’arte dell’icona. Come
attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di
Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua
raffigurazione. Sì, è nella mia coscienza e non è una
raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa
Madre del Signore” [26].
Ecco dunque la “porta regale”, forma vivente in cui
invisibile e visibile si toccano, spazio luminoso in cui i
due mondi si avvicinano e si schiudono l’uno all’altro,
testimonianza diretta che “proclama il Regno dei cieli nel
nucleo stesso della vita quotidiana”. Essa è Non
è allora un caso che le icone emergono visivamente sempre
su un fondo dorato. Esso è la più chiara manifestazione
dell’atmosfera celeste che circonda i volti e le figure
dei santi. La gloria della realtà celeste non può essere
avvolta che di luce dorata. L’icona ha tuttavia sempre
bisogno anche del colore, non può essere solo oro. Se non
fosse rivelazione luminosa non sarebbe neppure pensabile,
però se l’icona fosse solo luce pura finirebbe anche per
annullarsi. L’oro non si dà senza il colore e il colore
senza l’oro. È infatti nella tensione, nella ‘giusta
distanza’ tra le “distinte sfere dell’essere”
dell’oro e del colore che propriamente si manifesta
l’ Quanto
all’arte dell’icona occorre notare che il carattere
collettivo della sua creazione e l’identità propria
dell’icona stessa, che persiste sempre tale pur nella
pletora delle copie, nella sovrabbondanza della produzione,
una vera e propria identità nella differenza, la
sottraggono alla sfera della creatività individuale e la
pongono anche al riparo dall’obbligo di cercare sempre
nuove forme. L’icona è infatti sempre un’opera
collegiale, implica la collegialità del lavoro, e
l’esigenza della sua forma canonica, della sua fissità
formale, più che una limitazione, sostiene Florenskij, è
una liberazione, un “dono”: “l’artista il quale per
ignoranza si immagina che senza una forma canonica creerebbe
qualcosa di grande, somiglia al viandante cui sembri
d’ostacolo il terreno e s’immagini che appeso per aria
andrebbe più lontano che per terra”[27].
L’icona, del resto, non è né un oggetto qualunque né un
oggetto artistico: non è un’opera d’arte, un’opera
d’arte in senso autonomo, “bensì un’opera
testimoniale, a cui è necessaria anche l’arte, insieme a
parecchio d’altro”. La sua natura essenzialmente
spirituale spiega quindi anche la sua rigidità formale, il
suo evidente disinteresse per ogni forma di realismo come
per ogni forma di idealizzazione artistica, quella che può
addirittura sembrare una sorta di pietrificazione della
forma artistica, che non deriva certo da incapacità
artistica o da insufficienza espressiva, ma esprime invece
la intima presenza di perenni motivi spirituali che
impediscono la modificazione dell’ Alla
base dell’esperienza dell’icona si può allora in
definitiva scorgere quella che Florenskij stesso chiama una
“metafisica concreta”[28],
una metafisica dell’essere non astratta, inseparabile
invero dalle forme della bellezza sensibile; anzi si
potrebbe dire una metafisica materiale o anche una teologia
sensibile, visiva, centrata proprio sull’ Ora, però, posta complessivamente in questi termini, malgrado l’apparente semplicità con cui ci si mostra, la nozione d’icona ben teorizzata da Florenskij sembra rimanere nondimeno ambivalente nella sua natura e perciò quanto mai difficile da pensare: una “difficile bilancia, perennemente inquieta”, come la definisce Massimo Cacciari. D’altra parte, secondo Florenskij, una simile esperienza spirituale dell’icona si è potuta conservare e tramandare solo nella chiesa d’Oriente, nella religione ortodossa, mentre nel cattolicesimo romano e nell’Occidente in genere, soprattutto a partire dal Rinascimento e con l’introduzione della prospettiva nella pittura, è invalsa una secolarizzazione e laicizzazione delle immagini: pitture e immagini assolutamente terrene, carnali, mere superfici sensibili[29]. L’icona rimane dunque per noi un’esperienza estranea, difficile e lontana. Collocata, del resto, al limite tra l’invisibile e il visibile, l’oro e il colore, la luce e l’ombra, essa si mostra nondimeno intimamente irrisolta, duale, sfuggendo ad una definizione univoca, neutra, equidistante. Muovendosi nel mobile terreno intermedio che si spalanca tra degli opposti, essa sembra inoltre correre il rischio di lacerarsi, di smarrirsi, potendosi contemporaneamente sviluppare o verso “l’assoluta astrazione della Luce o verso il suo assoluto smarrimento. [...] Poiché l’icona non può essere perfetta, risolta bilancia tra queste dimensioni, ma il loro continuo, reciproco arrischiarsi, in essa è intrinsecamente presente la possibilità di questo dissidio, di questa dissonanza”[30]. È però questa sua inquietudine, questo suo fluttuare che la fa essere propriamente come tale, che ne costituisce perciò anche il fascino principale e ci spinge contemporaneamente a riflettere sull’enigma che l’avvolge. Che
l’icona sia enigma è d’altra parte ben evidente:
proponendosi di far vedere l’invisibile, di presentare
l’impresentabile, di instaurare il movimento di una
visione più ampia, uno sguardo biunivoco, una
corrispondenza di vedere ed essere visto, essa non può che
basarsi su un’esperienza essenzialmente enigmatica, posta
sotto il segno della comunicazione, della relazione e dello
scambio. Ma l’enigma non è il mistero e l’icona non è
l’immagine. Se infatti - come si legge in un
interessantissimo studio di Marie-José Mondzain, pubblicato
in Francia di recente, che mette in evidenza la connessione
tra immagine, icona ed economia e sembra fondare una sorta
di nuova dottrina dell’immagine, l’iconomie,
basata proprio su questa connessione essenziale presieduta
dall’economia, intesa come relazione tra sacro, natura e
ragione - “l’immagine è invisibile,
l’icona è visibile. [...] L’immagine è mistero,
l’icona è enigma [...]. L’immagine è similitudine
eterna, l’icona è somiglianza temporale”[31].
All’icona proprio in quanto enigma, manifestazione
sensibile del mistero invisibile, è pertanto affidata la
sola possibilità per l’uomo di ripetere l’evento
dell’incarnazione, di mettere in immagine l’immagine
invisibile che si è incarnata nel corpo. Essa propriamente
non rappresenta, non raffigura, ma ripete
l’incarnazione, rievoca la risurrezione.
L’esperienza iconica risulta pertanto pienamente
comprensibile solo entro le coordinate della teologia
orientale, in cui l’incarnazione, la chenosi, non è
meramente umiliazione, abbassamento, povertà, ma più
essenzialmente esaltazione e trasfigurazione della carne,
come sottolinea la Mondzain. L’incarnazione, scrive la
studiosa francese, non è affatto materializzazione e
“l’icona in quanto memoriale dell’economia
incarnazionale mette in opera una carne che non è
materia”; “la carne dell’icona tende verso quella che
fu la carne della resurrezione ch’essa commemora e di cui
mantiene la promessa”[32].
Sicché se dualità esiste nell’icona, scrive la Mondzain,
essa non ha nulla a che vedere con una concezione che
platonicamente oppone l’anima al corpo, lo spirito alla
materia. La dualità che abita l’icona è figlia
dell’unità duale del suo modello, di quella misteriosa
unità delle due nature del Cristo: “corpo carnale e corpo
iconico non possono divenire prigione o tomba per il Verbo.
Essi ne sono, al contrario, gli strumenti economici, vale a
dire le figure materiali della Redenzione”[33].
In questa prospettiva, il segno iconico non può Gli
elementi principali dell’icona possono allora essere
compendiati con le parole del teologo russo Pàvel Evdokìmov:
“L’icona decosificata, dematerializzata, si fa leggera
ma non esce dalla realtà. Il peso e l’opacità della
materia scompaiono, e linee dorate, sottili e serrate,
penetranti come raggi di energia deificante, spiritualizzano
i corpi. [...] Essa può rovesciare la prospettiva e far
culminare in un solo punto tutti i tempi e tutti i luoghi.
Tutto si dispiega fuori dello spazio-prigione, la posizione
dei soggetti e la loro grandezza dipendono dal loro valore e
significato [...]. Le figure si muovono con una scioltezza
sorprendente e scivolano per così dire lungo la superficie
secondo l’asse verticale o, al contrario, gravitano a
partire dalla superficie, sembrano lasciarla e avanzare
verso colui che le contempla [...]. I corpi conservano
appena quanto occorre del reale per segnare il loro punto di
partenza in questo mondo e poi lanciarsi verso l’alto.
[...] L’azione si svolge fuori dei limiti del luogo e del
tempo, e cioè dovunque e davanti a ciascuno. [...]
Nell’iconografia spesso la prospettiva è rovesciata. Le
linee si dirigono in senso inverso: il punto di prospettiva
non è dietro il quadro ma davanti. [...] Il mondo
dell’icona è rivolto verso l’uomo. [...] Dopo
l’incarnazione del Verbo tutto è dominato dal volto, dal
volto umano di Dio [...]. Il volto è costruito intorno allo
sguardo, il fuoco celeste lo illumina dall’interno ed è
lo spirito che ci guarda”[34].
È dunque entro l’orizzonte di un faccia a faccia
con l’invisibile, di uno sguardo dell’(sull’)assoluto,
di un’ampia visione che è contemporaneamente un
vedere e un essere visti, che può in sintesi essere colta
l’esperienza essenzialmente spirituale dell’ 4.
L’ Nell’ambito
del discorso sull’immagine fin qui svolto, non è
difficile individuarne il nodo teorico fondamentale nel
rapporto che l’immagine intrattiene con l’originale.
L’immagine sembra sempre portare con sé il riferimento ad
un modello, ideale o naturale che sia, in relazione al quale
si determina il suo stesso significato. Il problema del
rapporto dell’immagine con l’originale viene a
presentarsi anche nell’odierna società della
comunicazione generalizzata in cui ci troviamo a vivere,
solo che in essa le cose si complicano terribilmente, fino
al punto in cui diventa difficile, se non impossibile
(talvolta persino inutile), distinguere l’una
dall’altro. Qui, la distinzione tra visibile e invisibile
sembra infatti essersi tecnologicamente dissolta, consumata,
annullata, resta nondimeno il problema di capire, ora più
che mai, quale sia lo statuto dell’immagine
nell’“epoca dell’immagine del mondo”, per dirla con
Heidegger, nell’epoca cioè in cui il mondo si è ridotto
e trasformato in immagine, nell’epoca del trionfo del
dominio e della tecnica, la cui essenza sfugge al controllo
dell’uomo e gli si contrappone come un Gestell, per
usare ancora l’espressione heideggeriana[35] La questione dell’immagine oggi si pone dunque come un problema di grande interesse e si impone nuovamente alla nostra attenzione nel momento in cui ci troviamo di fronte al fenomeno dell’immagine sociale, cioè di quell’immagine prodotta dall’universo intero dei mezzi di comunicazione di massa, che rendono di fatto possibile parlare oggi di società dell’immagine. Ma per società dell’immagine non si deve semplicisticamente intendere una società in cui l’esperienza umana è caratterizzata dall’esperienza visiva, dalla rappresentazione segnica, perché da questo punto di vista ogni società è una società dell’immagine. Questa espressione oggi riveste un significato molto più esteso; significa che viviamo in una società in cui l’immagine, diventata tecnica, anzi ormai elettronica, cioè prodotta e riprodotta mediante l’insieme delle strumentazioni ideate e controllate dall’uomo (non più solo l’immagine fotografica, cinematografica e televisiva, ma ormai anche quella informatica, elettronica, grafica, video...) svolge una funzione essenziale nel processo formativo, informativo e creativo dell’individuo. L’immagine, cioè, in questo contesto non è più semplicemente pensabile come un qualcosa che si frappone tra l’uomo e la realtà, ma diventa una realtà autonoma essa stessa, una nuova realtà, diventa una “cosa” di cui disporre, da manipolare, che influisce sul nostro stesso immaginario e con cui diviene quanto mai necessario misurarsi e fare i conti. Ora,
ben lungi dalla dimensione metafisica introdotta
dall’icona, dal suo peculiare spiritualismo, si presenta
lo statuto dell’immagine con l’introduzione delle
tecniche di riproduzione industriale della stessa, le cui
origini si possono far risalire indietro fino
all’invenzione della stampa, ma che trovano piena
realizzazione solo nello sviluppo dei mass media
contemporanei e dell’odierna società Già
nel 1964 lo studioso americano Daniel Boorstin[36]
parlava della notevole capacità dei media nel loro
complesso di costruire degli eventi in apparenza veri e
naturali, ma che in realtà trovano il loro fondamento solo
nell’esigenza nutrita dagli stessi mass media di avere dei
‘fatti’ di cui parlare, dei contenuti di cui disporre.
Pseudoeventi, dunque, come li chiamava Boorstin, creati dai
media e utili solo per soddisfare il loro bisogno di
comunicare e di trasmettere oggetti. Questa è la capacità
derealizzante dei media, che crea una situazione nella quale
l’immagine prende il posto del reale. Più recentemente,
in questa direzione, Jean Baudrillard[37]
ha ripetutamente parlato di un’era della simulazione e
della simulacralità, come di un nuovo status in cui il
segno ha dissolto il significato, l’immagine ha perduto
l’originale, in cui la realtà quotidiana è stata
sgretolata dai media ricreandone una completamente diversa,
che vive proprio all’insegna della simulazione. Ecco
dunque il simulacro, vale a dire una immagine artificiale
priva di dipendenza diretta dalla realtà Né
icona, né visione, il simulacro non ha nessun rapporto
d’identità con il modello, con l’originale, è
un’immagine priva di prototipo. Secondo Mario Perniola,
che ne ha teorizzato il concetto nel nostro paese, “il
simulacro non è un’immagine pittorica, che riproduce un
prototipo esterno, ma un’immagine effettiva che dissolve
l’originale”; “immagine senza identità: esso non è
identico ad alcun originale esterno e non ha una sua
originalità autonoma”[38].
Lo statuto dell’immagine
contemporanea, segnata essenzialmente dai media, non
consiste pertanto nel rinvio ad un significato posto al di là,
o al di qua, dell’immagine stessa, quanto nel riferimento
a sé come ad una mancanza di realtà, di esemplarità. Non
più realtà, dunque, ma simulazione, non più Per
una sua adeguata comprensione, all’interno di una più
ampia dimensione epocale va tuttavia inserito il fenomeno
del simulacro. Esso infatti sembra profilarsi solo
nell’epoca del declino della metafisica, del nichilismo
compiuto, in cui, come diceva già Nietzsche nel Crepuscolo
degli idoli, insieme al mondo vero si è dissolto anche
quello apparente. Nel momento in cui tramontano i valori
forti della metafisica, la Verità, il Soggetto, in cui
diventa difficile appellarsi ad alcunché di unico ed
originario, con l’erosione del principio di realtà
introdotto dai media, si fa strada il simulacro, che si basa
proprio sulla dissoluzione dell’opposizione vero/falso,
essere/apparire, originale/copia, presentandosi come
immagine che si dà Esso
è una “effettività sociale”, una presenza immediata,
non “una versione depauperata, imbarbarita, degradata
dell’opera d’arte o del prodotto funzionale, ma
un’immagine che si dà come tale, che è effettiva per la
sua coincidenza con l’occasione da cui nasce”[39] Il
presupposto teorico del discorso sul simulacro trova
pertanto la sua legittimazione nella valorizzazione
dell’immagine in quanto immagine, nell’affermazione
della propria essenziale autonomia, nella pregevolezza del
segno nella pienezza della propria presenza. Il simulacro
non ha la pretesa di essere alcunché di diverso da quello
che è, mostrandosi completamente per ciò che è nel
momento stesso del suo apparire. Esso presuppone pertanto
sia il superamento della visione platonica dell’immagine
come copia sensibile dell’idea, sia il superamento
dell’assolutismo visionario alla base di ogni posizione
iconoclastica, tanto di ieri quanto di oggi. Iconofilia e
iconoclastia sono in questa prospettiva reciprocamente
accomunati nel rifiuto di riconoscere il reale valore
dell’immagine in se stessa: per entrambi l’essenziale è
sempre altrove, nell’idea, nel modello, nella visione, che
sia rappresentabile o meno non ha importanza. Scrive infatti
Perniola: “Iconofilia e iconoclastia s’incontrano nella pretesa
metafisica di porre un rapporto tra l’immagine e
l’originale; che questo rapporto sia d’identità, come
nell’iconofilia, o di differenza, come
nell’iconoclastia, ha poca importanza: ciò che è
importante è il presupposto metafisico, comune ad entrambe,
che afferma l’esistenza di un originale materializzato
nell’icona oppure rivelato nella visione. Ma l’immagine
prodotta dai mass-media non ha originale: essa è una
costruzione artificiosa, priva di prototipo”[40] Nell’epoca
della sua “riproducibilità tecnica”, per dirla con
Benjamin, ma ormai anche della sua costruzione, fruizione e
manipolazione infinite, l’immagine conosce dunque
funzioni, ruoli e condizioni del tutto inediti e imprevisti.
Si fa largo questa nuova specie di immagine, la cui realtà
è assai più complessa e articolata di qualunque altra
forma di realtà, giacché essa non assume più un carattere
esemplare, unico, originario, sul tipo dell’opera
d’arte, quanto piuttosto presenta i tratti di
un’immagine senza referente, di una costruzione
artificiale senza modello, senza prototipo e incapace di
presentarsi essa stessa come un modello. Simulacro è allora
il termine più adatto per descrivere l’ Con
ciò, dall’immagine come copia, riflesso sensibile
dell’idea sovrasensibile, e dall’immagine come icona,
accesso privilegiato ad una visione spirituale, siamo
passati all’immagine come cosa, artefatto che non
è più né copia né originale, che ha la propria realtà
in se stesso, autonomo e sganciato dal riferimento ad un
prototipo. Immagini dunque che sono diventate “cosa”[41],
cose reali ed effettive, sempre pronte e disponibili,
effetto però del processo di simulacralizzazione del reale,
nel quale la realtà stessa, quella pesante ed opaca che è
sempre stata parte essenziale di noi e delle nostre
esperienze, si è come dissolta, tecnologicamente
sgretolata, lasciando il posto a questa nuova realtà Qualunque discorso imagologico non può oggi fare a meno di tenere conto di queste nuove configurazioni dell’immagine, così come non può dimenticare quale ne sia la provenienza: il diritto all’immagine conquistato a Nicea in seguito alla trasgressione del divieto biblico, che però è oggi diventato anche diritto alla panvisibilità. Nel profluvio visivo nel quale siamo immersi, l’immagine sembra tutto, di tutto si dà immagine e tutto non sembra altro che immagine. A questa sovrabbondanza visiva sembra tuttavia corrispondere una grande povertà teoretica (da theorein) e immaginativa, cioè una reale mancanza di capacità di “vedere” (leggere, udire, capire) le stesse immagini che frettolose scorrono davanti a nostri occhi. Esse non sembrano voler dire altro che la propria proliferazione e per ciò stesso di esse non sembra essere più nulla. Nel nostro impero visivo, in cui tutto può e deve essere visto, “l’immagine è divenuta metastasi del mondo come panvisibilità”[42]. Possiamo
con ciò concludere dicendo di essere giunti alla fine
(dell’età) dell’immagine? Negata e rimossa, in realtà,
l’immagine fa sempre il suo ritorno. Il suo potere è tale
e tanto che come l’araba fenice è capace di risorgere
dalle sue ceneri. Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo
assistito a numerosi casi di iconoclastia politica, evidente
nei crolli dei regimi dell’Europa orientale. Assieme ai
regimi crollavano e dovevano essere distrutte le immagini
eloquenti dei protagonisti e degli ispiratori cui quei
regimi si erano richiamati. Ecco allora le immagini
dell’abbattimento delle statue di Lenin a Mosca, o di Marx
ed Engels sulla Potsdamerplatz a Berlino, insieme a quelle
di gioiosi bambini che divertiti si aggiravano tra le rovine
spezzate di quelle statue. Ma con ciò ecco allora
l’immediato avanzare di una nuova iconologia,
l’iconologia dell’ Che
sia ancora un vecchio simbolo del potere, di ogni potere,
come in questo esempio o sia una nuova conformazione
elettronica costruita dai media, che dissolve il nesso
copia/originale, come nel caso del simulacro, l’immagine
è certo ancora ben lungi dal conoscere l’
[1] Cfr. III Sent., IX, 2, 2: “Fuit autem triplex ratio institutionis imaginis in Ecclesia. Primo, ad instructionem rudium, qui eis quasi quibusdam libris edocentur. Secundo, ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria essent, dum quotidie oculis repraesentantur. Tertio ad excitandum devotionis affectum, qui ex visis efficacius incitatur quam ex auditis”. Dove si fa quanto mai evidente il riconoscimento dell’importanza del senso della vista e si esprime chiaramente una posizione emblematica che è alla base dell’ampio sviluppo dell’arte sacra occidentale. [2] Per specifici approfondimenti sulla storia dell’immagine in Occidente si possono utilmente vedere: M. Brusatin, Storia delle immagini, Torino, Einaudi, 1989; D. Freedberg, Il potere delle immagini, [1989], trad. it., Torino, Einaudi, 1993; R. Debray, Vie et mort de l’image. Une histoire du regard en Occident, Paris, Gallimard, 1992; A. Besançon, L’image interdite. Une histoire intellectuelle de l’iconoclasme, Paris, Fayard, 1994. [3] Esodo, XX, 4-5. Di prescrizioni aniconiche l’Antico Testamento abbonda: Esodo, XX, 23; XXIV, 17; Deuteronomio, IV, 12; IV, 20; IV, 27-28; si pensi pure al noto episodio del vitello d’oro: Esodo, XXXII. [4] Esodo, XXX, 20. Interessante, da questo punto di vista, sembra il singolare accanimento, fino alla maledizione, del veto figurativo biblico contro la forma artistica della scultura: “Maledictus homo, qui facit sculptile et conflatile, abominationem Domini, opus manuum artificium” (Deut., XXVII, 15). Forse più di ogni altra arte, la scultura ha infatti la pretesa di fissare nello spazio circoscritto della materia l’incommensurabile grandezza dell’irrappresentabile, costringendo la libertà dello spirituale alla certezza di un’individuazione. Niente di più estraneo alla mentalità giudaica, per la quale - come ricorda Bultmann - il primato tra i sensi “spetta all’udito”, poiché “Dio non può né deve essere veduto [...]. Il modo in cui l’uomo riesce a percepire Dio consiste nell’ascoltare”, a differenza della cultura ellenica, per la quale è la vista il senso più alto (Il cristianesimo primitivo, trad. it., Milano, 1964, pp. 15-16). Il tendenziale aniconismo delle religioni monoteistiche, il rifiuto di qualsiasi rappresentazione sensibile della divinità, si spiegherebbe, secondo W. Worringer in chiave psichica, con l’inquietudine provata dall’uomo di fronte ai fenomeni naturali di un mondo ostile. Impulsi diversi presiederebbero al politeismo e al monoteismo. Se il naturalismo delle religioni politeistiche nascerebbe da un rapporto armonico e fiducioso tra l’uomo e il mondo esterno, da un rapporto empatico con la natura, nei monoteismi dominerebbe invece un impulso all’astrazione, che scaturisce dal bisogno di trovare un punto fermo, ideale, assoluto e necessario, sottratto all’inarrestabile e minaccioso fluire del divenire della natura. Cfr. W. Worringer, Astrazione e empatia, [1907], trad. it., Torino, Einaudi, 1975, pp. 33-45. [5] Delle tre parole greche che stanno per “immagine”, eidolon, eikon, agalma, quella riservata al Cristianesimo, come immagine di culto, che rimanda sempre ad un paradeigma, un modello, platonicamente, eterno, è ovviamente eikon. È noto infatti che i Settanta impiegarono il termine eidolon, quando nel Decalogo si dice del divieto di fare immagini di Dio, ma eikon, ovviamente, quando nel Genesi si narra di Dio intento a creare Adamo. Su tutto ciò cfr. il lucido saggio di K. Kerenyi, Agalma, Eikon, Eidolon, trad. it. in Demitizzazione e immagine, in “Archivio di Filosofia”, 1-2, 1962, pp. 161-171. [6] A questo proposito Wladyslaw Tatarkiewicz scrive: “Ci si può chiedere se la disputa iconoclastica appartenga alla storia dell’estetica e non piuttosto a quella della teologia. In realtà, essa appartiene ad entrambe: alla teologia, per quanto implichi conseguenze estetiche e a un’estetica che si fonda su presupposti teologici. [...] La disputa bizantina riguardava non solo la natura di Dio ma anche la natura del bello. Quando, per ordine di Costantino V, i mosaici della vita di Cristo in una delle grandi chiese di Costantinopoli furono distrutti e sostituiti da rappresentazioni di animali e di piante, i contemporanei affermarono che “ogni bellezza sparì dalle chiese”, come dice un testo del tempo che ci è rimasto” (Storia dell’estetica, vol. II, trad. it. Torino, Einaudi, 1979, p. 56). [7] W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, cit., p. 51. Su questi problemi nell’estetica bizantina cfr. V. Byckov, L’estetica bizantina. Problemi teorici [1977], trad. it., Galatina, Congedo, 1983 e S. Averincev, L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina [1977], trad. it., Bologna, il Mulino, 1988. [8] Difesa delle immagini sacre, trad. it. a cura di V. Fazzo, Roma, Città Nuova, 1983. [9] Vedere l’invisibile, a cura di L. Russo, Palermo, Aesthetica Edizioni, 1997, p. 147; il libro presenta per la prima volta in italiano i testi sulle immagini del Secondo Concilio di Nicea, insieme ad un utile apparato critico e ad appendici storica, storico-artistica e teologica. [10] Discorsi, I, 8, PG 94, 1237 D-1240 A e Discorsi, III, 8, PG 94, 1328 D. [11] E. Benz, Teologia dell’icone e dell’iconoclastia, in “Archivio di Filosofia”, cit., pp. 201-202. [12] Discorsi, I, 16, PG 94, 1245. [13] Discorsi, III, 12, PG 94, 1336. [14] Discorsi, III, 8, PG 94, 1328. [15] L. Uspenskij, La teologia dell’icona [1980], trad. it. Milano, La Casa di Matriona, 1995, p. 11. [16] Nella Dialettica dell’Illuminismo (trad. it. Torino, Einaudi, 1969, p. 31), proprio in questo senso Horkheimer e Adorno scrivono: “il diritto dell’immagine è salvato nella ferma esecuzione del suo divieto”. [17] G. Carchia, La legittimazione dell’arte, Napoli, Guida, 1982, p. 28. [18] Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, t. I, trad. it., Torino, Einaudi, 1976, pp. 595-605. Egli significativamente scrive: “L’ideale classico, quando sta al suo vero livello, è chiuso in sé, autonomo, riservato, refrattario, è un individuo conchiuso, che respinge ciò che è altro da sé. [...] le figure degli dei antichi, pur essendo umane, non appartengono al mortale, poiché questi dei non hanno provato la fragilità dell’esistenza umana, ma si sono immediatamente elevati al di sopra [...]. La soggettività infinita, l’assoluto dell’arte romantica, non è invece immerso nella propria apparenza, esso è in sé ed appunto perciò ha la propria esteriorità non per sé ma per altri, come lato esterno lasciato libero a disposizione di ognuno. [...] qui Dio stesso discende nell’esistenza finita, temporale, per mediare e conciliare l’opposizione assoluta che vi è nel concetto dell’assoluto” (p. 597). [19] Presupposto che ovviamente non vale per qualunque posizione iconoclastica, riassumibile invece nell’espressione: finitum non capax infiniti, che esprime l’assoluta discontinuità e incomunicabilità tra il piano della storia e quello della trascendenza, implica una visione della divinità assolutamente pura e disincarnata, quindi non suscettibile di rappresentazione sensibile, nonché un tendenziale rifiuto della realtà mondana. Tratti essenziali che in sintesi caratterizzano il monoteismo giudaico, quello islamico e un certo protestantesimo. [20] H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Milano, Bompiani, 1983, p. 177. [21] Sui molteplici aspetti della concezione platonica dell’immagine si rimanda all’illuminante saggio di J.-P. Vernant, Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione, trad. it., Milano, il Saggiatore, 1982, in particolare pp. 119-152. [22] H. G. Gadamer, op. cit., p. 176. [23] “Non erra chi dice che nell’immagine è presente la divinità”, scrive Teodoro Studita in Antirrheticus I, 12 (PG, 99, 344). [24] P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, trad. it., Milano, Adelphi, 1977, p. 70. [25] Ivi, p. 77. [26] Ivi, p. 65. [27] Ivi, pp. 79-80. [28] Cfr. ivi, p. 125, nonché più in generale R. Salizzoni, Icona e mito, in “Rivista di Estetica”, 1, 1979, pp. 108-115 e, ora, Id., L’idea russa di estetica, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992. [29] Cfr. P. Florenskij, La prospettiva rovesciata ed altri scritti, Roma, La Casa del Libro, 1983. [30] M. Cacciari, Icone della Legge, Milano, Adelphi, 1985, p. 191. [31] M.-J. Mondzain, Image, icône, économie. Les sources byzantines de l’imaginaire contemporain, Paris, Seuil, 1996, p. 15. [32] Ivi, pp. 123-124. [33] Ivi, pp. 149-150. [34] P. N. Evdokìmov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Milano, Edizioni Paoline, 1982. [35] Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1968 & 1984, pp. 71-101 e Id., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it., Milano, Mursia, 1976, pp. 5-27. L’epoca dell’immagine del mondo, scrive a questo proposito Gianni Vattimo riferendosi proprio ad Heidegger, “definisce propriamente la modernità come quell’epoca in cui il mondo si riduce - o piuttosto si costituisce - ad immagini; non tanto alle Weltanschauungen come sistemi di valori, prospettive soggettive, oggetto di una possibile “psicologia delle visioni del mondo”, ma alle immagini costruite e verificate dalle scienze, che si dispiegano sia nella manipolazione dell’esperimento, sia nell’applicazione dei risultati alla tecnica, e che, soprattutto (il che Heidegger non esplicita, peraltro), si concentrano alla fine nella scienza e nella tecnologia dell’informazione” (La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989, p. 26). [36] Cfr. D. Boorstin, The Image, New York, Harper, 1964. [37] Cfr. J. Baudrillard, La societé de consommation, Paris, Denoel, 1970; Id., Pour une critique de l’économie politique du signe, Paris, Gallimard, 1972; Id., L’échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard, 1976. [38] M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1983, p. 20 e pp. 128-129. [39] Ivi, p. 153. [40] Ivi, p. 121. [41] Sulla tendenza dell’immagine video a determinarsi come “cosa”, cfr. M. Perniola, La cosa videomatica, in Transiti, Bologna, Cappelli, 1985, pp. 217-229, nuova ediz. Roma, Castelvecchi, 1998, pp. 199-209. [42] L. Russo, Presentazione, in Vedere l’invisibile, cit., p. 10. |
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