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“Dipingere
e disegnare con le parole”
Il concetto di surriflessione da Merleau-Ponty a Lyotard
Daniele Dottorini
La centralità del problema del linguaggio nel dibattito filosofico
contemporaneo è ormai un fatto riconosciuto. Parlare di "problema
del linguaggio" nella filosofia contemporanea significa comunque evidenziare
un quadro complesso, composto da molteplici correnti e da autori e studiosi
diversi, sia appartenenti alla filosofia di impronta anglosassone, sia alla
tradizione europea e continentale. In moltissimi filosofi del XIX e XX secolo,
la problematica del linguaggio e della comunicazione è sì
centrale, ma le intenzioni, i metodi, le forme attraverso cui il problema
viene affrontato nelle varie filosofie divergono sensibilmente. Le correnti
di pensiero infatti che si sviluppano a partire dalle ricerche di Heidegger,
Wittgenstein, Saussure, Peirce, Carnap, Lévi-Strauss, Lacan, Foucault,
Derrida o Ricoeur sono unificate unicamente dal riconoscimento che il campo
in cui gli sforzi della filosofia contemporanea convergono è quello
del linguaggio. Scrive a tal proposito Paul Ricoeur: "In che modo il
linguaggio è capace di usi così differenti come la matematica
e il mito, la fisica e l'arte? Non è un caso se è proprio
oggi che ci poniamo questa domanda. Noi siamo appunto quegli uomini che
dispongono di una logica simbolica, di una scienza esegetica, di una antropologia
e di una psicoanalisi e che, forse per la prima volta, sono in grado di
abbracciare come una questione unica quella della ricomposizione del discorso
umano; di fatto, lo smembramento di questo discorso è contemporaneamente
reso manifesto e inasprito dallo stesso progresso di discipline tanto diverse
come quelle che abbiamo nominato. L'unità del parlare umano forma
oggi un problema".
La convergenza di gran parte della filosofia contemporanea intorno al problema
del linguaggio non implica necessariamente l'unità di tale problema
né l'unificazione delle definizioni possibili del linguaggio, della
sua origine o delle sue funzioni. Uno dei tentativi di leggere in senso
unificato la "svolta linguistica" della filosofia contemporanea,
quello di Richard Rorty, culmina con l'impossibilità di determinare
un concetto unitario, continuo e strutturato del "linguaggio"
o addirittura della "filosofia".
L'obiettivo di questo lavoro è quello di individuare, all'interno della
complessa questione del linguaggio, una particolare linea di ricerca
che ha interessato soprattutto (ma non solo) la filosofia contemporanea
francese di impostazione fenomenologica, in cui il problema del
linguaggio (e della scrittura) diventa rilevante in quanto luogo
critico, condensazione delle forme di dominio e di inganno delle regole
linguistiche che condizionano il soggetto parlante, ma anche luogo a
partire dal quale è possibile liberare un potenziale creativo e
decostruttivo, capace di determinare in modo nuovo i concetti stessi di
"soggetto" e di "realtà".
In particolare, l'analisi critica del linguaggio, dei luoghi e degli
spazi del discorsivo e del testuale, avviene attraverso un radicale
confronto con l'immagine, che assume il valore di problema filosofico.
Il rapporto tra parola e immagine - tra figurale e discorsivo, come dirà
Lyotard - ha caratterizzato un'aerea del dibattito filosofico tra gli anni
'60 e gli anni '70 del Novecento, producendo linee teoriche, impostazioni
di ricerca che, a tutt'oggi, costituiscono alcuni degli sviluppi più
interessanti della filosofia contemporanea.
In che senso si può parlare di un rapporto che - come quello tra
parola e immagine - ha attraversato la storia del pensiero, assumendo di
volta in volta un peso e una rilevanza diversi? Sarebbe eccessivamente lungo
(sicuramente oltre i limiti di spazio di questo saggio) tracciare le fila
di una serie di elaborazioni concettuali intorno a tale rapporto; ecco perché
la struttura del lavoro prenderà in considerazione un momento particolare
di questo rapporto, un momento in cui una frattura si determina tra una
tradizione di pensiero (la fenomenologia) e un'altra (la filosofia come
decostruzione). Lavorando nelle pieghe di questa frattura, di questo passaggio
teoretico, ciò che emergerà sarà in particolare la
creazione e le trasformazioni di un concetto come quello di "surréflexion",
concetto che nasce nell'ultima fase della produzione di Maurice Merleau-Ponty,
e che viene sottoposto ad una serie di trasformazioni nella ricerca teorica
di Jean-François Lyotard. Analizzare la storia di un concetto preso
in un particolare momento di passaggio e di trasformazione: questo è
l'obiettivo. Ma l'obiettivo, come si è detto, non è posto
a caso. Proprio la rielaborazione di un concetto come quello di "surréflexion",
la sua ri-creazione, dall'ipotesi fenomenologica di Merleau-Ponty a quella
decostruzionista di Lyotard, mostra lo sviluppo di un pensiero, il suo passaggio
da una concezione della filosofia ad un'altra, secondo l'idea deleuziana
di una filosofia come pratica dei concetti: "Una teoria filosofica
deve essere compresa a partire dal suo concetto: essa non nasce da sé
e a caso. Non basta nemmeno dire che è la risposta a un insieme di
problemi. Senza dubbio, questa indicazione avrebbe per lo meno il vantaggio
di trovare la necessità di una teoria in un rapporto con qualcosa
che possa servirle da fondamento: questo rapporto sarebbe tuttavia più
scientifico che filosofico. Di fatto, una teoria filosofica è una
questione sviluppata, e nient'altro: essa consiste non nel risolvere un
problema, ma nello sviluppare fino all'estremo le implicazioni necessarie
di una questione formulata".
Sviluppare fino all'estremo una questione sviluppata, anche al di là
dello stesso autore. É questa, come vedremo, l'operazione che compie
Lyotard in Discorso, figura, confrontandosi con l'impensato del pensiero
di Merleau-Ponty, a partire dal suo testo incompiuto e ricchissimo, Il
visibile e l'invisibile.
La surriflessione come infinita circolarità (Merleau-Ponty)
"Surréflexion", surriflessione.
Questo è il nodo centrale del passaggio dalla proposta fenomenologica
di Merleau-Ponty al decostruzionismo di Lyotard, inteso inizialmente come
una forma estrema di fenomenologia, preludio alla sua trasformazione,
al suo abbandono.
La prima questione da affrontare riguarda l'uso del concetto da parte
di Merleau-Ponty, la sua applicabilità, il suo ambito, la sua
necessità. Il problema fondamentale nella filosofia di Merleau-Ponty,
pur riconoscendone le derive e le trasformazioni interne, riguarda la
coappartenenza "originaria" di corpo e mondo, l'impossibilità di
distinguere, se non arbitrariamente soggetto ed oggetto della
percezione:
"...il senso di una cosa percepita, se la distingue da tutte le altre,
non è ancora isolato dalla costellazione in cui essa appare, non si
articola se non come un certo scarto nei confronti del livello di
spazio, di tempo, di mobilità e in generale di significazione in cui
siamo insediati, non è dato se non come una deformazione, ma
sistematica, del nostro universo di esperienza, senza che noi possiamo
ancora nominarne il principio".
Il problema della percezione, della sua arbitrarietà, della deformazione
del rapporto esperienziale che il corpo intrattiene con il mondo, costituiscono
dei punti costanti della riflessione merleau-pontyana. La percezione,
e il linguaggio che è chiamato a "dirla", operano uno
scarto nei confronti di una pienezza preriflessiva che è sempre
in atto: "'La natura è al primo giorno': vi è oggi.
Ciò non significa: mito dell'indivisione originaria e coincidenza
come ritorno.
L'Urtümlich, l'Ursprünglich non appartiene a un tempo trascorso. Si
tratta di trovare nel presente la carne del mondo (e non nel passato)
un 'sempre nuovo' e 'sempre lo stesso' - una specie di tempo del sonno
(che è la durata nascente di Bergson, sempre nuova e sempre la
stessa)". Ritrovare, attraverso la filosofia, il modo di rendere conto
di tale pienezza. Se la percezione (e il suo medium, il linguaggio), è
uno scarto, un differimento tra un corpo pienamente presente alle cose
e un corpo distaccato, che opera una presa di distanza dalle cose, il
problema della filosofia, per Merleau-Ponty, sarà di ritrovare una
forma che mantenga la tensione tra i due poli di questa particolare
dialettica, in cui "...il soggetto - curiosamente situato e de-situato
nello stesso tempo - viene spinto non soltanto a circoscrivere, a
formarsi un proprio provvisorio ancoraggio spaziotemporale che possa
fornirgli - in assenza di punti di riferimento precisi - una presenza
collocata; ma viene anche sollecitato ad alimentare un atteggiamento
propriocettivo che porta ad acuire, a raffinare la concentrazione su di
sé, sul corpo proprio, "scoprendo" quella straordinaria
autoriflessività o reversibilità, quel chiasma per cui esso è senziente
e al contempo sentito, cioè appartiene al mondo delle cose sensibili,
ne è coinvolto e insieme ne è la deiscenza, la spaccatura che lo
trascende".
E' in questo chiasma (incrocio) che si colloca la ricerca - già
al di là della fenomenologia stessa - di Merleau-Ponty sul linguaggio,
sulle sue potenzialità e sulla sua astrattezza. E' qui inoltre
che prende corpo il concetto di surriflessione: parlare di un mondo oggettivo,
di una cosa percepita in un atto riflessivo non esaurisce il problema
fondamentale del mio contatto originario con le cose, con il mondo. E'
necessaria un'altra operazione (profondamente filosofica): "Altrimenti
detto, noi intravediamo la necessità di una operazione diversa
dalla conversione riflessiva, più fondamentale di quest'ultima,
intravediamo la necessità di una specie di superriflessione che
tenga conto anche di se stessa e dei mutamenti che essa introduce nello
spettacolo, che quindi non perda di vista la cosa e la percezione grezze,
e che infine non le cancelli, non recida, attraverso una ipotesi di inesistenza,
i legami organici della percezione e della cosa percepita, e assuma viceversa
il compito di pensarli (...), di parlarne non secondo la legge dei significati
delle parole, inerenti al linguaggio dato, ma grazie a uno sforzo, forse
difficile, che impiega questi significati per esprimere, al di là
dei significati stessi, il nostro contatto muto con le cose, quando esse
non sono ancora cose dette". La surriflessione dunque assume, per
Merleau-Ponty, il ruolo di un'operazione filosofica che agisce sullo scarto,
sul chiasma irriducibile alla riflessione, mantenendo una circolarità
e una reversibilità continua tra "i legami organici della
percezione e della cosa percepita" e il loro inserimento in un orizzonte
di significato. Il problema filosofico è il problema di un soggetto
che si deve scoprire nelle interazioni (e, allo stesso tempo, in ciò
che sta prima ancora, in un legame originario) fra noi e qualcosa che
ci è dato, la cui costruzione obbedisce a certe costrizioni. Se
riflettere è far scaturire dalle cose e dalle percezioni delle
costanti, dei nuclei che permangono e possono così essere fissati
in un orizzonte di significato, allora la filosofia deve aprire il suo
spazio ad una surriflessione che necessariamente metterà in primo
piano "...l'intrecciarsi della mia vita con le altre vite, del mio
corpo con le cose visibili, dall'intersezione del mio campo percettivo
con quello degli altri, dalla complicità della mia durata con le
altre durate".
La surriflessione diventa dunque, nella prospettiva di Merleau-Ponty,
una particolare attività filosofica che mantiene nel linguaggio
stesso la tensione costitutiva tra il mondo della percezione e il mondo
del linguaggio, senza privilegiare uno dei due poli, ma mostrando il passaggio
stesso, la "metamorfosi" dall'uno all'altro e viceversa. Nella
percezione e nel linguaggio c'è sempre un possibile rimando al
mio essere nel mondo come corpo, come "carne", al mio essere
contemporaneamente vedente e visibile: "Come il mio corpo non vede
se non perché fa parte del visibile in cui si schiude, così
il senso cui mette capo la disposizione dei suoni si ripercuote su di
essa". Il mio essere nel mondo (in cui il mio corpo si schiude),
e la creazione della parola e del sistema di significazioni (che nasce
dallo scarto rispetto alla pienezza del sensibile operato dalla percezione)
appartengono ad un movimento che li lega insieme, ad una relazione che
non è né univoca né dialettica, ma iscritta in una
circolarità infinita, che impedisce di considerare il linguaggio
come "sistema" astratto di significazioni. Il linguaggio è
sì frutto di uno scarto, ma mantiene in sè - come invisibilità,
come non detto - la pienezza dell'essere da cui nasce: "...quando
essa [la parola, ndr.] trasforma le strutture del mondo visibile e si
fa sguardo dello spirito, intuitio mentis, tutto ciò si effettua
sempre in virtù del medesimo fenomeno fondamentale della reversibilità,
che sostiene e la percezione muta e la parola, e che si manifesta tanto
con un'esistenza quasi carnale dell'idea quanto con una sublimazione della
carne".
La surriflessione come trasgressione (Lyotard)
A dieci anni dalla morte di Merleau-Ponty,
nel 1971 compare in Francia un saggio ad opera di Jean-François
Lyotard, Discorso, figura, in cui il filosofo francese approfondisce
una serie di critiche alla fenomenologia (e in particolare alla fenomenologia
di Merleau-Ponty), già in parte espresse ne La phénoménologie.
Il punto di partenza di Lyotard è proprio la tensione costitutiva
tra percezione e impercezione, visibile e vedente, visibile e invisibile
che caratterizza la produzione dell'ultimo Merleau-Ponty. Lyotard vede
in questa impostazione l'apertura ad una critica radicale ad ogni dialettica
riconciliativa e, in generale, ad una ratio occidentale fondata sull'opposizione
radicale tra sensibile e pensiero, tra res cogitans e res extensa, tra
idea e cosa: "Questo libro è invece una difesa dell'occhio,
la sua localizzazione. Qui si caccia come preda l'ombra. Anzi, quella
penombra che dopo Platone la parola ha gettato come una patina grigia
sul sensibile, tematizzandolo senza dargli tregua come una diminuizione
d'essere (...) - ebbene proprio questa penombra è l'interesse di
questo libro".
Ma la posizione di Lyotard è ancora più perentoria di quella
merleau-pontyana; ciò che fonda l'opposizione, il chiasma, per
Merleau-Ponty è il corpo, la carne, ciò che fonda ogni percezione,
e che rimane (deve rimanere) nella tensione costitutiva di una filosofia
alla ricerca del vero atto che fonda la possibilità di parlare.
Per Lyotard ciò è impossibile: lavorare sul linguaggio per
restituire l'origine stessa dell'atto del dire è un'utopia: "Infatti
egli [Merleau-Ponty, ndr.], voleva introdurre il gesto e la mobilità
del sensibile fino nell'invarianza caratteristica del sistema della lingua,
per dire ciò che è costitutivo del dire, per restituire
l'atto che apre la possibilità di parlare. Non male come ultimo
sforzo della riflessione trascendentale: ma niente da fare; il sistema
è già da sempre là e il gesto di parola che si suppone
crei la significazione non può essere colto nella sua funzione
costituente; ma sempre e solo "sub specie" decostruzione".
Per Lyotard la fenomenologia non può pretendere di risalire
all'origine, a ciò che costituisce il fondo di ogni atto di
significazione. L'attività filosofica deve, al contrario, mostrare
tutto ciò che abita il discorso, eccedendolo rispetto ad ogni visione
del linguagio artiicolato come sistema. La tensione radicale quindi non
è più tra corpo e parola, tra percezione e impercezione, ma tra parola
e immagine, ciò che Lyotard chiama l'ordine del discorsivo e figurale:
"Disfare il codice senza tuttavia distruggere il messaggio ma, al
contrario, liberandone il senso e le riserve semantiche laterali, che
la parola ben strutturata maschera. (...). Una tale descrizione esige
il ricorso almeno a due tipi di negatività: quella della struttura
della lingua e quella dell'esperienza visiva, entrambe incluse nel
nostro uso del discorso". Lyotard introduce dunque un nuovo piano
d'immanenza entro cui il concetto di surriflessione acquisterà
(rispetto a Merleau-Ponty) nuovi usi e connotazioni; la compresenza
nella parola di un livello discorsivo e di un livello figurale porta il
discorso filosofico ad affrontare una nuova pratica critica,
decostruttiva del linguaggio e del Logos; e, allo stesso tempo, a
vedere, nell'immagine, non una forma che si "legge", che si decodifica
secondo un codice dato, ma una sorta di laboratorio del pensiero che
non può essere ridotto ad alcuna significazione, in cui non c'è
conciliazione, ma movimento dell'occhio e del desiderio.
La surriflessione dunque non è la riconquista, il possesso della
pienezza della parola, ma un'operazione a distanza che consentirebbe
alla filosofia di costituirsi come attività smascherante di ogni
visione e di ogni discorso, sguardo sfigurante ed eretico, non
contemplazione; in una parola, decostruzione.
Lyotard struttura così il suo confronto a distanza con Merleau-Ponty,
articolando, attraverso la rilettura del concetto di surriflessione, un
nuovo piano d'immanenza per il discorso filosofico, in cui il concetto
trova nuovi spazi e, soprattutto nuove funzioni. La critica più
recente ha evidenziato come la lettura di Lyotard della fenomenologia
di Merleau-Ponty sia, a sua volta, sottoponibile a critica. La volontà
di rovesciare la fenomenologia, vista come ingenua filosofia della coscienza,
porta l'autore di Discorso, figura a distanziarsi il più
possibile dal suo punto di partenza. In realtà, il rapporto è
molto più complesso: "Solo a prezzo di un evidente e grossolano
fraintendimento si può leggere l'interpretazione merleau-pontyana
del "ritorno alle cose stesse" come la ricerca (procedendo in
avanti non processo costitutivo) di una purezza logico-trascendentale;
tantomeno come la volontà di riattingere (...) ad una dimensione
di non compromessa autenticità, quando proprio la compromissione
con la fatticità esistenziale, la vischiosità della contingenza
sono le ragioni irrisalibili che Merleau-Ponty ha posto con forza al centro
della prospettiva fenomenologica".
La ricerca di una nuova prospettiva per la filosofia come attività è
già presente in Merleau-Ponty, così come la volontà di ricercare
nell'arte, nell'immagine un modello per il pensiero filosofico:
"Merleau-Ponty, impegnandosi in una fenomenologia dell'opera d'arte,
riscopre a sua volta la necessità di descrivere l'opera come una
manifestazione sensibile ove s'intrecciano immanenza e trascendenza.
Questa verità paradossale dell'arte si rivela però solo a colui che,
con la sua percezione, giunge a sospendere la dualità oggettivante tra
soggetto e oggetto e si lascia pervadere da un'esperienza in cui lo
sguardo e la cosa vista finiscono per perdere i loro rispettivi
contorni".
Ma se è vero che Lyotard sottovaluta la portata dei concetti merleau-pontyani,
in Discorso, figura, il filosofo è consapevole della radicalizzazione
(e quindi del rovesciamento) da lui apportata alla prospettiva fenomenologica.
In particolare, la surriflessione in Lyotard non vuole essere una strada
per individuare un modello per il pensiero che tenga conto della reversibilità,
della tensione costante tra mondo della percezione e mondo del corpo.
Ciò che Lyotard ricerca è la possibilità per la filosofia
di aprirsi all'immagine come forza decostruttrice, che scardina i codici
del linguaggio articolato, della percezione, dell'espressione come sistema.
Ecco allora che il confronto tra due filosofie passa attraverso la loro
comune appartenenza (pur nella loro radicale differenza) ad una
filosofia dell'immagine, che fa dell'immagine un terreno di revisione e
indagine della filosofia stessa. In questa prospettiva, il concetto di
surriflessione acquista ulteriori connotazioni e sviluppi.
L'immagine-dispositivo: il cinema
Per
meglio addentrarsi nella rete costituita dal confronto tra i due autori
e nel passaggio tra i due piani, può essere utile un confronto tra due
saggi in cui Merleau-Ponty e Lyotard affrontano direttamente il
rapporto tra parola e immagine, e in cui le due diverse prospettive
filosofiche trovano la loro applicazione. I due saggi sono dedicati
entrambi al cinema e, attraverso il loro confronto, sarà possibile
evidenziare non tanto la lettura lyotardiana di Merleau-Ponty, quanto
il concreto formarsi di una diversa prospettiva filosofica.
Ne Il cinema e la nuova psicologia, Merleau-Ponty interroga la
forma cinematografica, il problema del suo senso e del suo rapporto con
il pensiero. Il cinema diventa cioè una pratica particolare di
creazione e riproduzione delle immagini, che necessita di essere interrogato:
"Diciamo innanzitutto che il film non è una somma di immagini
ma una forma temporale". La particolarità del cinema dunque
si manifesta nella collocazione dell'immagine in una forma nel tempo;
la loro durata, aggiunge il filosofo, ne determina il senso per lo spettatore,
secondo una metrica che il regista applica coscientemente o meno. L'immagine
cinematografica è un'immagine percepita, che sottostà alle
regole della percezione quotidiana, che ci insegna a non distinguere più
i segni dai loro significati: "Cosa ci insegna su questo punto la
teoria della forma? Respingendo risolutamente la nozione di sensazione,
ci insegna a non distinguere più i segni dai loro significati,
quel che è sentito da quel che è giudicato. Come potremmo
definire esattamente il colore di un oggetto senza menzionare la sostanza
di cui è fatto, per esempio il colore azzurro di questo tappeto,
senza dire che è un "azzurro lanoso"?".
Il cinema, lavorando con le immagini, ci presenta immediatamente il
segno e il suo significato, l'oggetto e la sua percezione; questo vale
anche - aggiunge Merleau-Ponty - per la presenza della parola e della
musica, che non sono mai prese nella loro astrattezza, ma come elementi
"sensibili" che, nel loro insieme, contribuiscono alla costruzione
dell'immagine del film.
Dunque cosa "significa" il film? Non le cose, ma come le cose
diventano significanti: "Il senso di un film è incorporato
al suo ritmo come il senso di un gesto è immediatamente leggibile
nel gesto, e il film non vuol dire altro che se stesso. L'idea è
qui ricondotta allo stato nascente, essa emerge dallo stato temporale
del film, come in un quadro dalla coesistenza delle sue parti. E' la felicità
dell'arte di mostrare come qualcosa diventi significato, non per allusione
a idee già formate ed acquisite, ma grazie alla disposizione temporale
o spaziale degli elementi". Il cinema dunque si scopre per analogia
il correlato della ricerca filosofica, intesa da Merleau-Ponty come attività
che scopre lo spirito nel mondo, nelle relazioni con gli altri, che fa
vedere - più che spiegare - il rapporto tra soggetto e mondo: "la
filosofia contemporanea non consiste nel concatenare concetti, ma nel
descrivere il mescolarsi della coscienza con il mondo, il suo incarnarsi
in un corpo, la sua coesistenza con le altre, e questo argomento è
cinematografico per eccellenza".
Il concetto di filosofia che emerge dal testo è quello di un'attività
che fa "vedere", che "mostra" - come il cinema - il
divenire significante delle cose, quel movimento che impedisce che il
linguaggio e l'immagine possano essere prese isolatamente, nella loro
astrattezza di sistemi articolati segno/significato. E' proprio l'idea
del movimento costitutivo dell'immagine cinematografica ad interessare
Merleau-Ponty; nella visione, il movimento impedisce di fermare lo sguardo,
di fissarlo in una idea, in un giudizio. Il chiasma, elemento ricorrente
dell'ultima produzione merleau-pontyana, si fonda, pur in una prospettiva
ontologica anziché fenomenologica, come si è visto, sulla
reversibilità, sulla circolarità infinita che caratterizza
la percezione e l'atto stesso del parlare e, in ultima istanza, l'essere
nel mondo dell'uomo.
Questa attenzione nei riguardi del cinema e dell'immagine ritornerà più
volte in Merleau-Ponty, segno di una sua non marginalità nella ricerca
del filosofo.
Ma la centralità del movimento caratterizza anche un'altra idea
di immagine, quella di Lyotard; nel saggio del 1973, L'acinéma
, l'autore inizia la sua analisi proprio a partire dal movimento:
"Le cinématographe est l'inscrition du mouvement"; ma
non di ogni movimento: anzi, nota Lyotard, il cinema, proprio perché
montaggio, si caratterizza per l'esclusione, per la frammentazione e il
ritaglio dei movimenti. Il cinema è propriamente una "mise
en ordre du mouvement". Dunque movimento organizzato secondo la "buona"
forma, il "buon" montaggio.
Già in questa impostazione si nota come in Lyotard il nucleo fondamentale
dell’attenzione filosofica al cinema sta non tanto nella constatazione
che il cinema faccia "vedere", "mostri" il mondo nella
sua complessità originaria, quanto nel riconoscimento del movimento
del cinema come forma di "frammentazione", di "esclusione";
il montaggio opera una sorta di "decostruzione" del visuale,
crea cioè un movimento (o meglio, una serie di movimenti) discontinuo,
frammentato, molteplice. Il cinema, continua Lyotard, esiste nell’intervallo
tra due polarità opposte: l’assenza totale di movimento, il
tableaux vivant, e il flusso ininterrotto delle immagini, il movimento
continuo. Ogni film si situa nello spazio determinato dal particolare
rapporto tra queste due possibilità dell’immagine, annunciandole
entrambi.
In questo senso, il cinema è propriamente acinéma,
corpo che, nella sua (apparente) determinazione, rimanda all’impossibilità
di ogni determinazione, rimanda cioè all’apertura costitutiva
di un movimento infinito. L’immagine, cioè, non "mostra"
il mondo, né l’originaria coappartenenza di corpo e mondo;
l’acinéma si presenta in Lyotard come forma attraverso
la quale il figurale si mostra come gioco che trascende l’immagine,
la trasforma oltre se stessa.
E’ in questo senso dunque che si costituisce in Lyotard una posizione
teoretica oltrefenomenologica, al di là di Merleau-Ponty. Il passaggio
si determina nel riconoscimento dell’impossibilità di ricondurre
a modello l’immagine, come il cinema insegna. Il cinema sovverte
la concezione secondo cui l’immagine ci restituisce la compresenza
originaria del corpo e del linguaggio, della carne e del mondo: bisogna
rinunciare, afferma Lyotard in Discorso, figura: "…alla
follia dell’unità, alla follia di poter fornire la causa prima
in un discorso unitario e al fantasma dell’origine: (…): Non
vi è archè, nessuno, tantomeno il Bene come orizzonte unitario.
Si può toccare la cosa solo metaforicamente".
Nella doppia analisi del cinema condotta dai due autori, sta dunque il
senso della frattura operata da Lyotard nei confronti di Merleau-Ponty.
Di fronte ad un "politeismo" delle immagini, dei movimenti,
dei linguaggi delle opere (che si contrappone al "monoteismo"
merleau-pontyano), emerge la necessità di una filosofia (di una
surriflessione filosofica), che lo sappia assumere e "…ne voglia
accogliere l’invito alla sperimentazione attraverso la contaminazione
satirica dei generi e dei linguaggi, condividendone il compito di testimoniare,
senza nostalgia e senza consolazione, quell’ 'impresentabile' che
la società informatizzata tende a rimuovere".
In conclusione, se esiste un terreno comune ai due filosofi, vale a dire
la considerazione di un visibile che rimanda sempre ad un invisibile,
la frattura operata da Lyotard nei confronti di Merleau-Ponty è
radicale: non ha importanza qui analizzare sino in fondo la misinterpretazione
di Lyotard nei confronti dell’autore de Il visibile e l’invisibile.
È probabile che nella riflessione ultima di Merleau-Ponty si collocano
molte istanze che aprono ad un discorso molto più complesso di
quanto Lyotard voglia farci credere. Ciò che importa sottolineare
qui, comunque è la centralità, nella costituzione di due
operazioni filosofiche del ruolo dell’immagine — in particolare,
dell’immagine cinematografica — che dunque assume la valenza
di laboratorio, messa in questione ed interrogazione dei concetti filosofici.
La frattura che si determina nella mutazione del concetto di surriflessione
ha come fondamento quel particolare luogo di elaborazione del senso che
è l’immagine. Nel passaggio dalla fenomenologia Merleau-pontyana
alla filosofia di Lyotard, si detemina una elaborazione particolare del
rapporto tra filosofia ed immagine, filosofia e cinema che entra in rapporto
con altre posizioni e riflessioni filosofiche del Novecento (Bazin, Della
Volpe, Deleuze, Cavell, Barthes, Metz), a testimoniare la centralità
di un rapporto ancora lontano dall’essere completamente esplorato.
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